Se il sociale non è più una “vocazione”


Sergio Pasquinelli | 17 Maggio 2022

Sulle professioni d’aiuto, sociali e sanitarie, l’Italia ha un problema.

Servono duemila nuovi assistenti sociali all’anno, per tenere il passo con i nuovi livelli essenziali che hanno stabilito la presenza di un assistente ogni cinquemila abitanti, e non ci sono. L’educativa scolastica attraversa una forte crisi, lo stesso vale per le comunità per minori dove turni e dinamiche interne non incentivano rispetto a più tranquilli e sicuri ambiti di lavoro.

Se guardiamo alla sanità il quadro è drammatico: il PNRR prefigura servizi per cui ci vorrebbero decine di migliaia di infermieri in più, che siamo lontanissimi da poter formare. I medici di famiglia attraversano da anni un’emorragia in termini di pensionamenti che solo in minima parte viene rimpiazzata da nuovi ingressi (di recente a fronte di oltre 200 posti divenuti vacanti nella Città metropolitana di Milano solo 44 sono stati coperti). Concorsi per infermieri di comunità sono andati deserti per l’incertezza che aleggia intorno alle reali mansioni di questa figura. Le RSA sono in affanno a ricercare operatori sociosanitari (Oss), anche per via di flussi migratori bloccati, a fronte di una professione fortemente etnicizzata. L’assenza di una dinamica migratoria, peraltro, sta progressivamente congelando il mercato privato di cura, quello delle badanti, un mercato a invecchiamento spinto dove il turn over è ridotto all’osso, con ricadute pesanti sulle caratteristiche dell’offerta. Per esempio, si è ampiamente ridotta la disponibilità delle assistenti familiari alla coresidenza con l’anziano non autosufficiente.

 

Le ragioni di tutto questo, una realtà che si è acutizzata negli ultimi due anni, sono diverse – ogni profilo ha la sua storia – e anche le soluzioni sono varie, legate (più spesso) all’emergenza o (più difficilmente) a una prospettiva di più lungo periodo1. Nel contesto di una ridotta attrattività delle professioni sociali e sanitarie, soprattutto se dentro inquadramenti poco incentivanti.

Abbiamo deciso di analizzare e discutere questa realtà, molto in divenire, nell’inserto speciale di Prospettive Sociali e Sanitarie che uscirà in autunno. I temi e le criticità sono tante. Ma possiamo trovare alcuni fili rossi. Ne richiamo due in particolare.

 

Primo, c’è un tema di inquadramento professionale. Sono note le basse retribuzioni delle professioni sociali: un assistente sociale con una decina d’anni di anzianità guadagna in media 28/30.000 euro lordi l’anno. Nel Regno Unito il Community manager, una figura che vi potrebbe essere assimilata2, porta a casa mediamente 44.000 euro lordi l’anno. Gli infermieri in Italia sono i peggio pagati in Europa, e potremmo andare avanti a lungo a fare confronti. Ma c’è anche una propensione, nelle professioni sanitarie in specie, a preferire la libera professione all’inquadramento da dipendente, più attrattiva e remunerativa. Diversa la dinamica nelle professioni sociali, ultimamente attratte da prospettive più incentivanti e remunerative, all’interno dell’ente pubblico.

 

Secondo, c’è una crisi di “vocazione”. Molti anni fa, scegliere il “sociale” come ambito anche lavorativo era frutto di una scelta di valore. Certamente, arrivavi a lavorarci anche per caso, per una combinazione di particolari eventi, o incontri. L’inclinazione novecentesca verso il sociale era un’opzione spesso legata a contesti di vita precedenti le scelte professionali: di volontariato, servizio civile, adesione a luoghi di impegno, anche politico. Oggi non è più così, o lo è molto meno. Il welfare dei servizi è diventato un settore lavorativo tra gli altri, al pari di quello educativo o della sanità, per cui si è disposti a spendersi in base a calcoli di interesse, ma anche di convenienza. Una nicchia che è cresciuta molto negli ultimi trent’anni, ma che si è anche molto strutturata, se si vuole si è normalizzata: non c’è più nulla di straordinario nel lavorare in una cooperativa che si occupa di disabili o di tossicodipendenti. Il senso di avanguardia e di “missione” non ci sono più tra chi decide di lavorarci, o sono rimasti un residuo del passato.

 

Il combinato disposto di queste dinamiche porta alla situazione attuale: uscirne è urgente. C’è una gamma di possibilità su cui possiamo puntare, per aprire spazi occupazionali e renderli più attrattivi. Ma con l’idea, che va elaborata e coltivata, che il “sociale” venga riconsiderato, rivalutato, ricollocato, smettendo di subire la posizione di un settore a sé stante. Fa parte integrante di un’idea ampia di welfare, che abbraccia il lavoro, la salute, la cultura, l’abitare. Una prospettiva “alta”, per non cadere ancora più in basso.

  1. Si punta allora sulla riduzione dei numeri chiusi e l’aumento delle capacità formative degli atenei, strumenti flessibili per reclutare il personale, permeabilità delle carriere, riorganizzazione delle mansioni e delle competenze, aumento delle ore di lavoro, o dei massimali dei pazienti seguiti, deroghe ai regimi di esclusività, e così via. Si veda il “Documento programmatico fabbisogni del personale sanitario” della Commissione Salute della Conferenza delle Regioni.
  2. E che si sta affermando: si veda Alice Melzi qui.