Affidi in Piemonte: trauma o risorsa?


Paola Ricchiardi | 4 Febbraio 2020

Ogni bambino ha diritto a crescere in un ambiente di vita accogliente e supportivo, tale da consentirgli uno sviluppo cognitivo, emotivo-affettivo e relazionale sano. La letteratura internazionale ha messo in evidenza gli effetti a breve e a lungo termine del permanere in un ambiente di crescita in cui i fattori di rischio superano i fattori di protezione (Greenson et alii, 2011). Nei casi di trascuranza grave (materiale ed affettiva), disagio psicologico, dipendenze, maltrattamento e violenza assistita i minori hanno diritto ad una tutela, ad una famiglia che ne garantisca una crescita armonica. Il dibattito attuale ha portato ad interrogarsi sull’effettiva gravità dei motivi che attualmente conducono a disporre un’accoglienza extrafamiliare per i minori, sulla possibilità di ridurre la durata degli affidi e sull’impatto che ha sui minori l’affiancamento di una famiglia diversa da quella di origine. Per poter rispondere a tali interrogativi in maniera fondata, occorre rifarsi a dati di ricerca.   Lo studio che presenteremo di seguito, focalizzato sui minori in affidamento nella regione Piemonte, si propone di dare un contributo in questo senso. Il sistema di tutela dei minori piemontese presenta una tradizione consolidata e nazionalmente riconosciuta nell’ambito dell’affido familiare, attestata anche da ampi studi precedenti condotti sul medesimo territorio (Garelli, 2001; Favretto; Bernardini, 2010). Lo studio illustrato di seguito ha riguardato tutti i minori accolti dal 1995 al 2019 (n=408) nelle famiglie comunità1 (n=40), ovvero famiglie affidatarie che accolgono più minori in affido (in media 4) e abitualmente sono favorevoli a rinnovare la propria disponibilità nel tempo. I dati quantitativi sono stati raccolti a partire dalla documentazione in possesso della pubblica amministrazione e approfonditi con interviste alle famiglie. Dall’indagine emergono dati interessanti che consentono di caratterizzare l’esperienza dell’affidamento.  

Affidamento preventivo o azione in extremis?

L’età media d’ingresso nella famiglia affidataria è piuttosto elevata: 8 anni con ampie oscillazioni2. Escludendo i piccolini sotto i due anni, che vengono affidati spesso in attesa dell’accertamento dell’eventuale stato di adottabilità la media sale a 9 anni. Si rileva dunque una certa lentezza negli interventi, legata in parte al ritardo della segnalazione, ma più spesso al prolungarsi di inefficaci tentativi di recupero delle capacità genitoriali. Il ritardo degli interventi, secondo la letteratura internazionale, ha però esiti molto pesanti. Secondo un’indagine italiana precedente più tardi i bambini giungono in accoglienza e più è elevata la probabilità di avere importanti difficoltà di apprendimento (Ricchiardi, Coggi, 2019), poi correlate con traiettorie di vita difficili e anche devianti (Zetlin et al. 2012). Sono rari gli affidi realizzati precocemente, con rientro del minore nella famiglia d’origine. Segno che i piccoli vengono allontanati in situazioni già molto compromesse.  

Categorie più a rischio

Nel campione considerato si rileva un’alta percentuale di minori con una disabilità o un disturbo psicologico grave (10%), con una probabilità quasi tripla rispetto all’incidenza nella popolazione minorile italiana. Il dato è in linea con indagini precedenti (Belotti, 2010). Inoltre il 45% dei minori considerati è straniero (perlopiù di seconda generazione): un bambino straniero ha dunque una probabilità quadrupla rispetto ad uno autoctono di essere destinato ad un’accoglienza extrafamiliare, come rilevato in indagini precedenti (Ricchiardi, Coggi, 2019). Ci si domanda dunque se la famiglia straniera sia adeguatamente tutelata.  

Da dove provengono i minori che approdano all’affido?

Piuttosto preoccupante è che il 53% dei bambini derivi da un collocamento precedente differente dalla famiglia d’origine (fig. 1). Circa un bambino su quattro proviene da un inserimento in comunità (a volte effettuato d’urgenza, in attesa di individuare una famiglia affidataria). Un 12% deriva da affidi precedenti interrotti, di cui 3% a parenti. Dalle interviste, sembra che i motivi principali di tale interruzione riguardino le interferenze di comportamenti problematici dei genitori nella crescita dei minori o l’età dei nonni che non consente di gestire nipoti adolescenti difficili. Il 9% dei minori deriva da una prolungata permanenza in comunità mamma-bambino, dove è stato tentato un recupero delle capacità genitoriali. Alcuni bambini sono stati inseriti nella famiglia affidataria direttamente dall’ospedale (neonati o bambini maltrattati).   Figura 1     

Quali motivi? Lievi e superabili?

L’analisi dei motivi per cui è stato pensato un progetto di accoglienza extrafamiliare per il minore spesso risulta semplificata, in quanto ci si limita a rilevare il motivo principale dell’allontanamento. In realtà, quando si giunge ad assumere una decisione così rilevante i motivi sono molteplici. Nel campione preso in considerazione sono copresenti in media 3 fattori. È proprio la presenza di più fattori o la particolare gravità di uno, che rende, almeno temporaneamente ineludibile la tutela del minore fuori dalla famiglia d’origine. In specifico, quasi uno su tre dei minori è stato accolto in famiglia affidataria per dipendenze, disagio psicologico grave e insufficienza mentale di uno o di entrambi i genitori; il 21% per incapacità genitoriale e trascuranza grave; il 13% per maltrattamento, il 9% per violenza assistita, quasi l’8% per abbandono, il 6% per problemi giudiziari dei genitori, il 3% per motivi sanitari dell’unico genitore che accudisce i bambini e l’1% per abuso (fig. 2).   Figura 2  Nel campione considerato nessun bambino è stato allontanato dalla famiglia d’origine per motivi meramente economici (in rispetto peraltro della 184/1983). Un’indigenza forte tuttavia è stata concausa importante per i bambini rom e per alcuni nuclei stranieri papà-bambino. Negli altri casi, le difficoltà economiche spesso sono una conseguenza di un disagio più generale dell’adulto.  

La durata degli affidi

I tempi medi di conclusione dell’affido sono di circa 4 anni, con oscillazioni molto ampie3. Ci sono infatti bambini affidati per motivi sanitari (3,36%) dell’unico genitore rimasto solo a crescere i figli (con nessun parente disponibile a farsene carico), che rientrano in famiglia abitualmente entro l’anno (da 15 giorni ad un anno). I bimbi piccoli, per cui si intende accertare l’eventuale stato di adottabilità, attendono in media 2 anni per poter essere accolti nella possibile, futura famiglia adottiva. Ci sono poi ragazzi che giungono in affido già grandi (14-17 anni) per i quali l’accompagnamento verso l’autonomia è necessariamente più breve (da 1 a 5 anni). Ci sono però anche minori che sono in affido da 11 a 14 anni. Quasi 1 su 3 dei bambini rimane in affido oltre i 5 anni. Dalle interviste emerge una valorizzazione anche dell’affido di lunga durata, come un modo importante per poter crescere in un contesto tutelante, affettivo e stimolante, ma potendo conservare relazioni con la propria famiglia d’origine o almeno con uno dei familiari. Si riscontrano differenze rispetto alla lunghezza dell’affido a seconda dei motivi di allontanamento. La tutela presso una famiglia affidataria ha una durata maggiore nel caso di allontanamento per abuso e in sequenza per gravi problemi del minore, per dipendenze o disagio psicologico dei genitori.  

E dopo l’affido?

Solo il 32% rientra a casa dopo l’affido. Non è infrequente però anche che al rientro in famiglia d’origine segua purtroppo a breve un conseguente ritorno nella famiglia affidataria e/o un inserimento in comunità. Nessun bambino è invece rientrato in famiglia dopo poco tempo perché allontanato per errore. Il 17% dei minori affidati del campione al termine dell’affido viene inserito in comunità o perché risulta troppo danneggiato per potersi adattare ad una famiglia o perché le condizioni psicologiche, con la crescita si sono aggravate, e il minore ha necessità di una comunità (a volte anche terapeutica). Un 18% dei bambini viene adottato. Rispetto all’adozione occorre segnalare che ci sono casi non infrequenti in cui vengono affidati due o più fratelli, poi suddivisi in più famiglie adottive. Ci sono casi anche in cui rimangono in affido solo i bambini con disabilità o quelli più grandi, mentre gli altri fratellini vengono adottati. Sono il 4% i minori adottati dagli affidatari e in tutti i casi si tratta di ragazzi grandi o di bambini disabili. Quasi tutti i minori disabili, anche se non adottati dalla famiglia affidataria, rimangono dipendenti pressoché a vita dalla stessa (prosieguo amministrativo). Il Comune di Torino supporta, anche economicamente, questi inserimenti.   Figura 3    Spesso anche per gli affidati non disabili si rileva una richiesta di sostegno (affettivo, economico, nella gestione dei figli…) alle famiglie affidatarie, ben dopo i termini della fine dell’affido. Questo significa da un lato che spesso le traiettorie di bambini/ragazzi molto feriti sono complesse. Dall’altro significa che fornire ad un bambino una famiglia affidataria spesso significa dargli “una famiglia in più per la vita”, come emerso anche da ricerche precedenti (Patt, 2011[1]). Circa il 70% dei minori, secondo le famiglie affidatarie interpellate, mantiene ad oggi rapporti frequenti con la famiglia affidataria. Circa metà dei minori affidati continua a considerare gli affidatari come genitori, anche per coloro che sono rientrati nella famiglia d’origine. Persino le famiglie d’origine in più di un caso continuano a mantenere rapporti con le famiglie affidatarie.  

Conclusione

Emerge dalla breve analisi esposta innanzitutto la solidità dei motivi di allontanamento temporaneo dal nucleo di origine e la rilevanza di non diminuire tali interventi di tutela, ma piuttosto di renderli più tempestivi. Uno su quattro dei bambini considerati è rimasto oltre 5 anni in una famiglia con grave disagio psicologico, dipendenze, violenza tra i coniugi e/o incapacità genitoriale prima di giungere in accoglienza. La bassa percentuale di minori che rientra a casa dopo l’affido mette in luce da un lato il livello di compromissione del nucleo familiare d’origine e dall’altro la necessità di incrementare gli interventi sulla famiglia d’origine durante e dopo il rientro dei bambini/ragazzi

  1. Le famiglie comunità sono famiglie affidatarie riconosciute dalla regione Piemonte come “comunità familiari” il 29/06/1992 e dal Comune di Torino con Delibera della Giunta il 9/12/1993.
  2. ds=5
  3. ds=4

Commenti

L’assessora alle politiche sociali Caucino Chiara ha affermato al tg3 Piemonte che il numero di affidi in questa regione è superiore a quello della media nazionale. Siccome non penso che possa dire una cosa del genere senza avere sotto mano i dati, e che nella mia regione ci siano più famiglie che non possono farsi carico dei figli rispetto alle altre regioni, auspico fortemente che il numero di affidi venga ridotto, al fine di essere in linea con la media nazionale.

Il dato italiano degli interventi a protezione dei minori con accoglienze al di fuori della famiglia d’origine è molto al di sotto della media europea. Quindi le regioni che hanno un tasso maggiore di protezione dei minori potrebbero essere quelle che hanno un sistema di sostegno e tutela migliore e non quelle meno “virtuose”, come ampiamente sostenuto. Per poter sciogliere questo dubbio occorre analizzare la consistenza dei motivi di allontanamento. L’articolo fornisce dati di ricerca che attestano la gravità dei motivi che portano a disporre interventi di accoglienza extrafamiliare (con una media di 3 motivi copresenti!!!).

In Italia, forse per un retaggio culturale, si aspetta fino all’ultimo prima di decidere l’allontanamento, quasi ci fosse una grande resistenza a interferire con i legami familiari, come se l’ingerenza dei servizi nel privato domestico anche in forza del mandato di tutela del minore fosse un abuso.
Basta guardare i dati riportati in “Bambini e ragazzi in affidamento familiare e nei servizi residenziali per minorenni. Esiti della rilevazione coordinata dei dati in possesso delle Regioni e Province autonome. Anno 2017”, Quaderni della Ricerca Sociale n. 46. Da questi risulta che “l’Italia è il Paese con il minor numero di collocamenti temporanei al di fuori dal proprio nucleo familiare. La seconda ancor più rilevante evidenza, riguarda la distanza dalle altre esperienze europee che il nostro Paese mostra nella misura della propensione all’allontanamento, ovvero in termini di tasso pari a 2,8 per mille residenti di 0-17 anni: poco meno che doppio in Spagna (4,4), più che doppio in Inghilterra (6,1), quasi quadruplo in Francia (10,4) e Germania (10,5)”.
è facile rendersi conto che il semplice dato numerico non va estrapolato e utilizzato a piacimento ma va contestualizzato ed interpretato scientificamente.
Nel caso italiano si registra, inoltre, una grande difficoltà e una sorta di cedimento nella tenuta del sistema di accoglienza dei minori: la continua riduzione di risorse destinate allo scopo obbliga a fare scelte necessariamente tarate al ribasso. questo porta a scelte difficili, fatte sulla pelle di chi ha meno voce in capitolo e meno garanzie del rispetto dei propri diritti.