“Allontanamento zero”? No, grazie!


Joëlle Long | 31 Gennaio 2022

Un obiettivo comune

Il Consiglio regionale del Piemonte si appresta ad approvare un disegno di legge ispirato a un principio cardine dell’intervento pubblico a sostegno delle persone di età minore: il diritto delle stesse a crescere in famiglia. Tale principio, proclamato con una forte valenza simbolica sin dal titolo della legge nazionale fondamentale in materia (la legge 4 maggio 1983, n.184), assume due significati.   Anzitutto, il minorenne ha il diritto di crescere nella famiglia di origine e di esserne allontanato solo ove ciò sia assolutamente necessario per la sua protezione in ragione di una condotta genitoriale, pur non imputabile al genitore, che abbia provocato o rischi di provocargli un serio pregiudizio. In quest’ottica, la legge nazionale afferma che il minore “ha diritto di crescere ed essere educato nell’ambito della propria famiglia” (art. 1 comma 1° legge n.184/1983), esclude che l’indigenza del nucleo possa di per sé portare alla sua separazione dai genitori (ivi, comma 2) e prescrive allo Stato, alle regioni e agli enti locali, nell’ambito delle proprie competenze, di predisporre servizi e interventi a sostegno delle famiglie di origine onde prevenire l’allontanamento (ivi, comma 3).   In secondo luogo, nel caso in cui sia necessario allontanare il minore dalla famiglia di origine, la legge nazionale intende privilegiare collocazioni “di tipo familiare”, che garantiscano cioè un’attenzione individualizzata alla persona di età minore, in un contesto di ascolto e di assistenza anche morale. Nel caso di difficoltà temporanea del nucleo di origine, l’affidamento è a una famiglia (scelta alla luce dell’interesse del minore e quindi valorizzando legami affettivi esistenti e privilegiando il collocamento presso membri della famiglia allargata o amici di famiglia, se idonei) o, in subordine, a una struttura residenziale che sia organizzata per il rapporto numero tra educatori e minori in modo simile a una famiglia (nel linguaggio del legislatore “comunità di tipo familiare”: ivi, art.2). Nel caso di difficoltà di lungo periodo o definitiva, l’accoglienza dovrebbe invece avvenire presso una famiglia adottiva (ivi, art. 8).  

Una traduzione operativa inadeguata

Il Piemonte interviene con il disegno di legge in commento per dare concreta attuazione al summenzionato diritto del minore alla famiglia. Le Regioni, infatti, hanno competenza legislativa esclusiva in materia di servizi sociali ed esercitano le funzioni amministrative corrispondenti nella misura necessaria a garantire l’esercizio unitario sul territorio (art. 117 Cost.). L’obiettivo è individuare specifici strumenti e identificare procedure uniformi che i servizi sociali territoriali utilizzino per assicurare un’adeguata azione preventiva degli allontanamenti. L’analisi delle misure operative concretamente individuate dal documento regionale porta tuttavia a un giudizio negativo.   Un primo profilo critico è l’approccio standardizzato e rigido scelto. Il testo delinea infatti un percorso a tappe obbligate per il collocamento extrafamiliare. Nelle situazioni di “vulnerabilità familiare”, l’allontanamento può essere “proposto solo successivamente all’attuazione di un progetto quadro denominato progetto educativo familiare (PEF) … che abbia durata almeno semestrale” (art. 2 comma 1°). Inoltre, gli interventi economici e abitativi a sostegno del nucleo familiare “hanno carattere prioritario e vincolante rispetto” all’allontanamento (art. 6 comma 6°). Infine, nella scelta del collocamento extrafamiliare,  “si  deve dare la priorità all’affidamento familiare fino al quarto grado di parentela” (art. 6 comma 2°).   Andiamo con ordine. Il PEF può forse1 contribuire ad uniformare l’azione dei servizi sociali sul territorio regionale. In alcune situazioni poi può fungere da sprone ai genitori, che per espressa previsione normativa dovranno essere pienamente coinvolti nella stesura, nella messa in opera e nel monitoraggio dei risultati del piano (ivi, comma 1° bis). Il rischio è tuttavia che la rigida procedimentalizzazione possa tradursi in concreto in un pregiudizio per il minore2. Anzitutto, perché l’incertezza sulla nozione di “vulnerabilità familiare”3 e la difficoltà in tante situazioni concrete di distinguerlo dal “pregiudizio connesso alle condotte genitoriali” potranno portare i professionisti ad applicare il PEF a tutte le situazioni, con la sola esclusione dei maltrattamenti gravissimi e conclamati. Le precisazioni contenute nel disegno di legge in merito all’operatività del PEF ai soli casi di vulnerabilità familiare e il richiamo all’ “obbligo in capo agli operatori di segnalare le situazioni di pregiudizio connesso alle condotte genitoriali” non sembrano migliorare il quadro: i professionisti saranno piuttosto spinti a ricorrere contestualmente al PEF e alla segnalazione nelle tante zone grigie. L’effetto sarà dunque l’indebito utilizzo del PEF anche in situazioni di sospetto maltrattamento o di maltrattamento ritenuto non grave. Inoltre, si allungheranno i tempi per disporre gli allontanamenti, in situazioni in cui invece la tempestività è uno degli elementi che concorrono alla buona riuscita del progetto poiché ne potenziano gli effetti riparativi. Ancora, occorre considerare che la previsione rigida di una durata almeno semestrale, vincola i professionisti dei servizi, escludendo che possano per esempio ridurre i tempi nel caso in cui l’età e la condizione del minore lo richiedano. È infatti ben noto, per esempio, che sei mesi “pesano” in modo diverso nella vita di un neonato, di un preadolescente e di un ragazzo alle soglie della maggiore età.   La disciplina del PEF è poi ambigua anche nella definizione dell’ambito soggettivo di operatività. La normativa, infatti, si riferisce in termini molto ampi alla “famiglia di origine”, affermando che “l’allontanamento di un minore dal nucleo familiare di origine in situazione di vulnerabilità familiare, può essere proposto solo successivamente all’attuazione di un (…) progetto educativo familiare (…) costruito con la famiglia (…) che comprenda interventi di recupero della capacità genitoriale della famiglia (…) alla famiglia sarà proposto di sottoscrivere il PEF” (art. 2 commi 1° e 1bis). Sembrerebbe dunque che il PEF debba necessariamente includere nella progettazione e realizzazione il sostegno delle relazioni familiari e della cura vicariale della famiglia allargata. I riferimenti contenuti nelle norme successive alla parentela di quarto grado sembrerebbero peraltro ridurre a tale estensione l’ambito di applicazione. Purtuttavia, tale lettura vincolerebbe i servizi sociali ad attività di tracciamento e valutazione che potrebbero ritardare sensibilmente l’inserimento del minore in un contesto familiare (prolungando un collocamento d’urgenza in comunità) e che potrebbero sottrarre tempo ed energie ad altri interventi dei servizi. Penso al fatto che le geografie familiari sono spesso complicate: può essere difficile ricostruire l’albero genealogico della parentela; i familiari entro il quarto grado possono poi essere molto numerosi; alcuni di essi, infine, potrebbero vivere a molta distanza dal nucleo o anche essere irreperibili. Proprio in quest’ottica, la legge nazionale riconosce rilevanza giuridica al rapporto di parentela entro il quarto grado se accompagnato da preesistenti rapporti significativi con il minore (art. 10 comma 2° legge n.184/1983).   Uguale attività di tracciamento e valutazione della parentela è peraltro richiesta nella definizione di collocamento extrafamiliare del minore. Il testo prevede infatti che, in caso di decisione di allontanamento, si debba “dare la priorità all’affidamento familiare fino al quarto grado di parentela” e che “ove ciò non risulti possibile, nel superiore interesse del minore, si provvederà all’affidamento etero familiare” (art. 6 comma 2°). Si presume, infatti, che i componenti della famiglia allargata siano uniti da vincoli di affetto e di cura e che dunque sia nell’interesse del minore che non possa vivere con i genitori rimanere comunque all’interno della cerchia dei parenti così da ridurre il possibile trauma derivante dalla separazione dalla famiglia nucleare. Tuttavia, non sempre è così: non è infatti il legame di sangue a rendere il familiare idoneo all’accoglienza del minore, ma l’esistenza di un vincolo di affetto, unitamente alla volontà e alla capacità di istruire, mantenere ed educare il bambino. Già oggi peraltro i servizi sociali verificano regolarmente la possibilità di affido a parenti, se disponibili e idonei4. Tuttavia, avviene talvolta che la famiglia allargata colluda con il genitore negando che abbia causato un pregiudizio alla prole. Talvolta, invece, la famiglia allargata è portatrice di problematiche autonome che la rendono inidonea ad assumere un ruolo genitoriale vicario (es. per l’età o le condizioni di salute del familiare).   Sia sul PEF sia sulla rigida priorità dell’affidamento intrafamiliare si potrebbero forse addirittura immaginare profili di illegittimità costituzionale per violazione della riserva statale in materia di ordinamento civile (art. 117 comma 2° lett. l Cost.). Per questa via, infatti, si introducono nell’ordinamento giuridico requisiti ulteriori e parzialmente diversi rispetto alla disciplina nazionale civilistica (art. 2 legge n.184/1983) che dovrebbe regolare in modo omogeneo sul territorio italiano l’istituto giuridico. Un ulteriore profilo di censura potrebbe poi essere il contrasto con l’interesse del minore (artt. 2 e 30 comma 2° Cost. e art. 117 in combinato disposto con l’art. 3 Conv. ONU sui diritti dell’infanzia) in quanto un approccio standardizzato e rigido può in concreto pregiudicare l’adeguata tutela del figlio minore nel caso di incapacità dei genitori.   Un ulteriore profilo problematico mi pare poi l’enfasi posta sulle difficoltà economiche delle famiglie di origine. Come già detto, il disegno di legge regionale prevede espressamente che “a tutela del diritto del minore a crescere nella propria famiglia, sono disposti interventi di sostegno economico…”, addirittura quantificandoli nella misura “almeno pari al contributo all’affido eventualmente erogabile” (art. 5 comma 2°), Inoltre, si prevede che il PEF debba “espressamente” (e dunque necessariamente) prevedere misure di sostegno economico alla famiglia. Infine, come già detto, si stabilisce che gli interventi economici e abitativi a sostegno della famiglia di origine abbiano “carattere prioritario e vincolante” rispetto all’allontanamento (art. 6 comma 6°). Tuttavia, come ricordato nella premessa a questo lavoro, già la legge nazionale esclude che si possa procedere all’allontanamento nel caso di mera indigenza del nucleo (art.1 comma 2° legge n.184/1983). Eventuali allontanamenti in ragione delle condizioni economiche dei genitori sarebbero dunque pratiche gravemente illegittime e andrebbero segnalate alle autorità competenti. Tuttavia, l’analisi della giurisprudenza edita (ivi compresa quella della Corte europea dei diritti umani che ha ripetutamente condannato l’Italia in questioni di diritto civile minorile) non mostra casi di allontanamenti per mere ragioni economiche dei genitori5. Si tratta invece nella totalità dei casi di situazioni multiproblematiche in cui l’indigenza è uno degli elementi che concorre alla situazione di disagio del nucleo. In tali situazioni il sostegno economico può essere una delle misure adottate, ma solo in stretta integrazione con le altre, educative e sociali, che devono per loro natura avere la precedenza. Se infatti non riesco a cogliere i bisogni di mio figlio e a farvi fronte, è improbabile che io spenda un eventuale contributo economico per le sue reali esigenze e per quelle della famiglia.  

La mediazione familiare

Da ultimo, vorrei criticare la scelta del disegno di legge di includere la mediazione familiare tra gli strumenti di sostegno al nucleo familiare vulnerabile. Il testo in commento, infatti, stabilisce che per promuovere il diritto del minore a vivere in famiglia e prevenire l’allontanamento “la Regione… favorisce interventi di… mediazione familiare”. Tali interventi di mediazione saranno erogati da enti pubblici e del Terzo Settore e “diretti al superamento del disagio, al recupero della propria autonomia ed al mantenimento del ruolo genitoriale” (art. 8 commi 1° e 2°). Così come formulata, la norma pare dunque proporre un ricorso generalizzato alla mediazione familiare. Non è tuttavia chiaro chi debbano essere i protagonisti della mediazione: il bambino e i genitori o i genitori tra loro? Poiché il successo della mediazione richiede il dialogo tra soggetti su un piano di sostanziale parità, appare ragionevole dubitare che la mediazione possa operare efficacemente rispetto ai figli minorenni, che assommano una doppia condizione di vulnerabilità: quella di persone in formazione e di figli, quindi spesso in soggezione psicologica rispetto al genitore. Nel caso poi di maltrattamenti familiari, la mediazione familiare è da respingere con decisione in quanto potrebbe essere interpretata dall’adulto abusante come un’arma per mantenere il controllo e il dominio sul figlio o sull’altro genitore, perpetuandone la vittimizzazione6.  

La mancanza di adeguate risorse

Il disegno di legge non prevede lo stanziamento di fondi aggiuntivi, ma solo il passaggio da un capitolo di bilancio ad un altro. Si stabilisce infatti che “dalla presente legge non derivano nuovi o maggiori oneri a carico del bilancio regionale” (art. 15) e si prevedono oneri per 17.600.000 euro per il triennio 2021-2023 coperti “con le risorse già allocate nell’ambito della Missione 12…” (art.14), cioè di un capitolo di spesa del bilancio di previsione finanziario 2021-2023 già definito. La mancanza di risorse rischia tuttavia di rendere irrealizzabili alcune previsioni normative. Numerose azioni proposte sono infatti onerose in quanto comportano adempimenti aggiuntivi per i servizi sociali, già in sofferenza di organico e risorse economiche per gli interventi da attuare. La redazione del PEF, per esempio, impegnerà i servizi in una nuova attività che, pur essendo nei contenuti già simile a quanto realizzato ordinariamente per sostenere le famiglie e prevenire gli allontanamenti, comporterà attività amministrative aggiuntive, come la predisposizione e l’utilizzo di moduli ad hoc per la redazione del PEF e la raccolta del consenso informato dei genitori e, addirittura, dei bambini e l’informazione, nonché la formazione ai professionisti sull’utilizzo di questo nuovo strumento. La clausola di invarianza finanziaria per i protocolli di intesa con enti pubblici e privati “diretti alla realizzazione di reti e sistemi articolati di assistenza, di consulenza e di mediazione famigliare, in modo omogeneo sul territorio regionale” (che dovranno appunto avvenire “senza oneri a carico della regione” ex art. 4 comma 2° lett. b) rischia di ridurre gli stessi a mere dichiarazioni di intenti. Inoltre, la previsione secondo cui “in ogni azienda sanitaria locale del territorio regionale i servizi afferenti ai Dipartimenti Materno Infantile, Salute Mentale e Dipendenze realizzano una propria valutazione sullo stato psicologico del minore e degli adulti coinvolti e svolgono attività psicoterapeutica, al fine di rafforzare le capacità del nucleo familiare” (art. 7 comma 3°) è certamente condivisibile ma velleitaria in una situazione in cui, allo stato, i servizi non riescono neanche a far fronte alle richieste di approfondimento da parte delle autorità giudiziarie. Desta preoccupazione, infine, la previsione secondo cui saranno destinate “una quota non inferiore al 50% delle risorse del sistema integrato dei servizi sociali delle politiche familiari per sostenere le azioni di prevenzione all’allontanamento” (art. 4 comma 2°, lett. c). Ciò significa, infatti, che con il restante 50% i servizi dovranno assicurare quelli che, nell’attuale situazione di cronica assenza di personale e risorse, costituiscono la grande maggioranza degli interventi erogati e cioè gli interventi d’urgenza e gli interventi in esecuzione di provvedimenti dell’autorità giudiziaria. L’effetto della nuova normativa rischia dunque di essere non solo il peggioramento della qualità dei servizi prestati, ma addirittura la paralisi del sistema attuale dei servizi.  

Scelte linguistiche inappropriate

Il testo del disegno di legge contiene alcune locuzioni inappropriate o addirittura errate. Questo cattivo uso della lingua va sottolineato non per mero puntiglio o esasperazione della critica ma perché, com’è noto, la lingua ha una funzione performativa e modifica la realtà. In particolar modo gli attori istituzionali, come è il legislatore, hanno il dovere di precisione e correttezza poiché la loro autorevolezza promuove un’adesione ampia alla visione del mondo veicolata. Emblematico è l’uso nel titolo del disegno di legge dello slogan politico “allontanamento zero”. Il messaggio che rischia di arrivare sia ai professionisti dei servizi sia alla popolazione è che gli allontanamenti debbano essere ridotti a zero perché ontologicamente sbagliati. Eppure esistono nella pratica situazioni in cui i genitori, anche non consapevolmente, tengono condotte pregiudizievoli per la prole e in cui la rottura della convivenza si configura dunque come soluzione necessaria per la tutela dell’integrità psicofisica della prole stessa. In conseguenza, se certo auspichiamo tutte e tutti che gli allontanamenti siano sempre meno numerosi e che si riesca a sostenere i nuclei di origine “vulnerabili” prevenendo le separazioni, appare irrealistico pensare che possano essere esclusi del tutto. Ricordiamoci poi che l’esistenza di un dovere pubblico di ingerenza nella vita familiare del nucleo, anche mediante interventi invasivi come l’allontanamento, è stata una conquista degli Stati contemporanei ed è alla base del diritto minorile7. Un altro esempio è fornito dalla definizione (assente nel diritto nazionale) di “genitori” come “figure parentali” o “titolari della responsabilità genitoriale” (ai sensi dell’art. 1 comma 4, infatti, “per genitori si intendono le figure parentali o i titolari della responsabilità genitoriale”). La prima locuzione appare ambigua: se si riferisce ai genitori si tratta di una tautologia; se invece, nello spirito di enfatizzare il ruolo vicariale della famiglia allargata che, come si è detto, ispira il disegno di legge, il riferimento è ai parenti (quali? Fino a che grado?) si obbligano i servizi a estendere in modo generalizzato agli stessi i sostegni previsti per i genitori. In merito poi alla seconda locuzione (“titolari della responsabilità genitoriale”), noto che nel diritto minorile ciò che rileva oggi è l’esercizio e non la mera titolarità della responsabilità genitoriale. A contrario, dovremmo per esempio concludere che un genitore decaduto dalla responsabilità genitoriale debba essere coinvolto in un PEF e negli altri interventi di sostegno alla genitorialità previsti dal disegno di legge. Il fatto che il testo limiti il PEF alla “vulnerabilità familiare” e che si ribadisca l’obbligo delle segnalazioni all’autorità giudiziaria di pregiudizio connesso a condotte genitoriali mi induce tuttavia a sperare che si sia trattato solo di utilizzo impreciso di una locuzione tecnica.

  1. Uso la formula dubitativa perché, come spiegato infra, la normativa prevede una clausola di invarianza finanziaria e dunque appare legittimo dubitare della concreta attuabilità delle norme in una situazione di cronica sofferenza dei servizi sociali.
  2. Proprio in quest’ottica, la legge nazionale prevede che, in caso di necessità e urgenza, l’affidamento possa essere disposto anche senza porre in essere gli interventi previsti a sostegno della famiglia d’origine (art. 2, comma 3 legge n.184/1983).
  3. La locuzione è infatti a oggi sconosciuta al diritto positivo. Un’indicazione sul significato da attribuirle può venire dalle Linee di indirizzo nazionali “L’intervento con bambini e famiglie in situazione di vulnerabilità” secondo cui “L’intervento con bambini e famiglie in situazione di vulnerabilità secondo cui “situazione di vulnerabilità, intesa come condizione che può riguardare ogni famiglia in specifiche fasi del suo ciclo di vita e che è caratterizzata dalla mancata o debole capacità nel costruire e/o mantenere l’insieme delle condizioni (interne ed esterne) che consente un esercizio positivo e autonomo delle funzioni genitoriali. La vulnerabilità è pertanto una situazione socialmente determinata da cui può emergere la negligenza parentale o trascuratezza, la quale indica la carente capacità di risposta ai bisogni evolutivi dei figli da parte delle figure genitoriali”.
  4. Le ultime statistiche disponibili indicano che a livello nazionale il 43.3% degli affidamenti avvengono nell’ambito della famiglia allargata. Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Bambini e ragazzi in affidamento familiare e nei servizi residenziali per minorenni, Quaderni della ricerca sociale n. 49, 2021, p.4.
  5. Per un esempio vd. Corte eur. dir. uomo, causa Barnea e Caldararu c. Italia, 22 giugno 2017, ricorso n. 37931/15.  La vicenda riguardava un nucleo familiare rom romeno che viveva in Italia in situazioni di grave indigenza. La figlia più piccola era stata a lungo allontanata dai genitori in ragione del giudizio negativo sull’inidoneità degli stessi formulato dai servizi e dell’autorità giudiziaria che avevano evidenziato come gli stessi ne avessero delegato la cura a un’amica (poi arrestata per truffa) e non fossero comunque in grado di cogliere e rispondere ai bisogni della figlia.
  6. In quest’ottica, com’è noto, l’art. 48 della Convenzione di Istanbul vieta “il ricorso obbligatorio a procedimenti di soluzione alternativa delle controversie, incluse la mediazione e la conciliazione, in relazione a tutte le forme di violenza che rientrano nel campo di applicazione della presente Convenzione”.
  7. Convenzionalmente, si individua il dies a quo nella pronuncia a New York nel 1874 di una condanna per gravissimi maltrattamenti familiari ai danni di una bambina di dieci anni, Mary Ellen Wilson. In Italia, il primo intervento organico si è avuto con legge 5 giugno 1967, n. 431, ma già l’istituzione del tribunale per i minorenni nel 1934 aveva segnato l’esordio a livello legislativo di quello che sarebbe diventato il principio del superiore interesse del minore.

Commenti

Analisi precisa e chiarissima di cui non possiamo che ringraziare anche a nome di tanti minori in difficoltà e, perché no, delle loro famiglie d’origine.

Articolo chiaro, preciso che fa ben comprendere come l’allontanamento zero puo’ diventare zero protezione.

Grazie a Ttt per il coinvolgimento in questa tematica così importante per tante situazioni complesse e per riconoscere impegno e dignità ai servizi coinvolti!

Analisi chiara e precisa. Aggiungo un elemento di potenziale criticità: siamo sicuri che la previsione di ulteriori fasi procedimentali siano a favore del minore, dei genitori e della famiglia? Non si rischia così di dare strumenti alla cosiddetta “amministrazione difensiva” che si sente tutelata quanto più si restringe l’ambito della propria discrezionalità tecnica?