Disuguaglianze e SSN: una contraddizione irrisolvibile?


Questo articolo è una sintesi di quello con lo stesso titolo in uscita sul numero 1/2020 della rivista “Politiche Sociali/Social Policies”.

 

A più di quaranta anni dall’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale (SSN), ha senso interrogarsi sulla equità territoriale in sanità, ovvero sulla distribuzione universalistica dei servizi e delle prestazioni per la tutela della salute, nelle diverse regioni italiane? È una contraddizione irrisolvibile quella tra disuguaglianza e welfare universalistico istituzionale in sanità? Se la domanda poteva sembrare provocatoria prima della diffusione del Covid-19, ora essa assume tutt’altro rilievo di fronte alle risposte assistenziali che, in questi mesi di emergenza sanitaria, sono state date dai diversi Servizi Sanitari regionali (SSR).

 

La tesi che si sostiene è che la normativa in ambito sanitario abbia accentuato, nel tempo, concetti diversi di equità territoriale. Non viene preso in considerazione il tema dell’equità nello stato di salute, bensì il punto di vista della giustizia distributiva e, in particolare, dei tre criteri costituiti dall’uguaglianza di risorse (strutturali e professionali) messe a disposizione della popolazione, dall’uguaglianza di accesso ai servizi e alle prestazioni, e dall’uguaglianza di risultati assistenziali. L’idea è, infatti, che la normativa si sia focalizzata in una prima fase sull’uguaglianza di risorse, poi su quella di accesso per arrivare, in tempi più recenti, ad una specificazione plurale dell’eguaglianza guardando anche ai risultati assistenziali; il tutto all’interno di politiche di contenimento della spesa sanitaria e di continua ridefinizione degli ambiti istituzionali del Servizio sanitario stesso.

In una prima fase (dal 1978 fino agli inizi degli anni Novanta), infatti, l’Italia persegue esplicitamente il principio dell’eguaglianza delle risorse cercando di arrivare ad una dotazione tendenzialmente uguale dei presidi sanitari in tutte le Unità sanitarie locali (USL) e lo fa procedendo alla chiusura dei presidi nelle regioni con dotazioni superiori allo standard e del maggiore finanziamento in conto capitale accordato alle regioni con dotazioni inferiori allo standard.

All’inizio degli anni Novanta prende avvio la seconda fase: qui la normativa viene finalizzata alla riforma in termini manageriali della sanità italiana. Da un lato, il principio di concorrenza amministrata, che accompagna i primi anni della managerializzazione del SSN (Vicarelli 2004), allenta la tensione sul tema della equità territoriale delle risorse; dall’altro, con la trasformazione del riparto delle competenze legislative e dei principi di attribuzione delle funzioni amministrative a favore delle regioni (Carpani 2006), il SSN appare sempre più come una aggregazione di Sistemi sanitari regionali (Palumbo 2018), ai quali si riconosce, peraltro, la possibilità di erogare prestazioni sanitarie aggiuntive attraverso proprie risorse finanziarie (addizionali Irpef), ma con effetti indesiderati in termini di equità territoriale (Ceis 2004). Alla fine degli anni Novanta, con il decreto 229/99 che tende ad invertire i principi della competizione amministrata affermando una modalità di regolazione del SSN centrata sulla cooperazione amministrata tra i diversi attori del sistema, viene esplicitato un importante cambiamento nell’accezione dell’eguaglianza assistenziale poiché emerge la necessità di guardare non più solo all’eguaglianza delle risorse, ma all’eguaglianza nell’acceso ai servizi/prestazioni. Questa nuova attenzione alle modalità di accesso ai servizi e alle prestazioni accende i riflettori su una serie di condizioni che possono differenziare fortemente i territori regionali.

La terza fase del regionalismo in sanità si apre con la legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001 che amplia il ruolo e le competenze delle autonomie regionali. Da questo momento, la collaborazione tra i diversi livelli di governo diventa cruciale. In tale contesto i LEA rappresentano il tentativo istituzionale di garantire livelli essenziali di assistenza a fronte del processo di regionalizzazione: è attraverso i LEA che si tende a tenere assieme sia il principio della uguaglianza delle risorse (soprattutto strumentali) che quello dell’accesso ai servizi e alle prestazioni, introducendo qualche elemento di uguaglianza nei risultati. Vengono individuati degli indicatori di monitoraggio al fine di cogliere le eventuali disomogeneità presenti nella domanda e nell’offerta dei servizi, spingendo le regioni ad eliminarle. La modifica costituzionale e il processo federalista, tuttavia, si limiteranno ad una delega al controllo della spesa senza costituire un incentivo a migliorare la qualità dei servizi (spendere meglio), riducendo i costi (spendere meno) (Vicarelli 2011).

 

Le considerazioni sviluppate, sulla base dei dati disponibili per ciascuna fase, permettono di individuare un quadro del sistema sanitario italiano che presenta luci ed ombre. Agli indubbi risultati relativi alla omogeneizzazione delle risorse strutturali e professionali, soprattutto di tipo tradizionale (riguardanti la copertura ospedaliera in termini di posti letto e la distribuzione territoriale dei medici di medicina generale), non corrisponde una eguale uniformità nel caso di risorse più adeguate all’evoluzione epidemiologica e demografica degli ultimi decenni (come dimostrano la disponibilità di servizi territoriali per gli anziani e per i malati cronici e i servizi di prevenzione). L’applicazione dei LEA, pur progressiva nel tempo, rende conto di carenze non risolte, soprattutto in alcune regioni meridionali (Calabria e Campania in specifico) con conseguente rischio di marginalizzazione dei sistemi regionali più deboli. Né le disomogenee modalità di accesso ai servizi e alle prestazioni sembrano ancora al centro dell’agenda dei governi territoriali, soprattutto nel mezzogiorno. La crisi economica e l’allineamento della spesa sanitaria e del personale su parametri più bassi non hanno aiutato, infine, il processo di equità territoriale iniziato nel 1978 e variamente perseguito nel tempo.

 

In termini di policy, dunque, sembra, possibile individuare una prima concezione di “universalismo forte”, propria della fase di genesi del SSN negli anni Ottanta, secondo cui il principio dell’eguaglianza delle risorse sarebbe stato garantito man mano che il nuovo sistema fosse stato implementato a livello micro-territoriale, attraverso politiche di omogeneizzazione dei servizi e del personale. In certa misura, ciò è stato realizzato a dimostrazione di un indiscusso esito positivo della legge 833. Tuttavia, il processo di regionalizzazione della sanità italiana, sviluppatosi nelle due fasi seguenti (anni Novanta e primo decennio Duemila) ha creato condizioni fattuali (e in certa misura valoriali) che hanno limitato l’andamento omogeneizzante del periodo precedente. In tale periodo, la concezione di un “universalismo selettivo” è sembrata utile per affrontare la contraddizione perdurante tra i principi della 833 e le risposte concretamente date, dalle regioni italiane, alla tutela della salute. In altri termini, l’attenzione ai bisogni differenziati della popolazione nei diversi contesti territoriali e l’autonomia concessa alle regioni di trovare, sia sul piano economico che organizzativo, le risposte più consone, ha aperto la strada ad una legittimazione delle differenze sanitarie. La stessa possibilità di raggiungere diversi livelli nella garanzia dei LEA, se da un lato ha risposto alla necessità di graduare il percorso di ottenimento dei risultati prestabiliti, dall’altro ha reso possibili vari gradienti di risposta, sia in negativo che in positivo. Tale andamento sembra conoscere, nell’ultimo decennio, una quarta fase secondo cui la contraddizione, sopra evidenziata, sembrerebbe risolvibile in termini di un “universalismo ridotto o sufficiente”. A partire dal 2008, infatti, a fronte delle richieste di autonomia differenziata di alcune regioni del centro-nord, sembra proporsi un atteggiamento di svalutazione dei territori meno performanti, secondo l’idea che non sappiano (e non meritino quindi) di essere aiutati a raggiungere maggiori livelli di equità territoriale. In conclusione, resta l’interrogativo se si va delineando, anche nell’ambito dell’equità territoriale assistenziale, la “distruzione” delle modalità di tutela costruite negli anni del welfare capitalism e se gli attuali sistemi neoliberali siano in grado di “creare” o meno nuove condizioni di vita e di salute.

 

È su questo scenario che si dovrà valutare l’effetto della gravissima crisi che il SSN ha conosciuto nei primi mesi del 2020. Come è stato di recente ricordato, la pandemia da Covid-19 costituisce un buon esempio di quello che nell’analisi delle politiche pubbliche è chiamato “focusing event”, un evento che forza opinione pubblica e decisori politici a inserire nell’agenda istituzionale temi che non necessariamente vi sarebbero entrati o che almeno non lo avrebbero fatto con la stessa visibilità̀ e rapidità̀.  È augurabile, in tal senso, che torni in primo piano nel dibattito sul welfare italiano il tema dell’universalismo in sanità sia in termini di legittimazione culturale e sociale, sia di modi della sua realizzazione territoriale. Alcuni fattori potrebbero giocare a favore di una rivisitazione in positivo dell’universalismo: in Italia ogni cambiamento è avvenuto in situazione di crisi; il Covid agisce molto a livello simbolico; vi è una comunità di policy (esperti, dirigenti, rappresentanti sindacali e degli ordini professionali) organizzata e capace di utilizzare la crisi per modificare l’agenda istituzionale; le associazioni dei cittadini e dei pazienti potrebbero far sentire la propria voice. È indubbio, tuttavia, che altri fattori potrebbero ostacolare o impedire il cambiamento in tal senso, tra questi la situazione grave sul piano economico, la governance istituzionale con il difficile rapporto stato-regioni, un mercato dei servizi sanitari in crescita e molto più competitivo rispetto al passato, un sistema industriale farmaceutico ancora più potente di prima. Le scelte che saranno fatte nei prossimi mesi ci diranno quale strada vorrà effettivamente imboccare l’Italia per salvaguardare o meno il SSN.