Dobbiamo andare “oltre il Pil” senza ignorare il Pil


Donato Speroni | 7 Gennaio 2021

“Misurare quello che conta davvero”

La nascita all’Ocse del nuovo centro Wise (Well being, Inlcusion, Sustainability and Equal opportunity), di cui è acting director l’italiana Romina Boarini, segna un passo avanti nella elaborazione di misure (e conseguentemente di politiche) del benessere collettivo, proprio quando, a seguito della pandemia, queste misure sono diventate ancor più importanti.

 

Negli ultimi quindici anni la ricerca di indicatori beyond Gdp, oltre il Pil, prodotto interno lordo, ha compiuto molti progressi. L’invito ad avviare questa ricerca si fa sempre risalire al famoso discorso di Robert Kennedy del 1968 (“il Pil misura tutto fuorché quello che rende la vita meritevole di essere vissuta”), ma di fatto la moderna ricerca statistica beyond Gdp si è sviluppata dal convegno di Palermo del 2004 su Statistics knowledge and policy promosso da Enrico Giovannini quando era chief statistician dell’Ocse. Da allora, l’organizzazione di Parigi è stata il principale strumento di propulsione delle ricerche sulle statistiche “oltre il Pil. Il nuovo centro Wise, che si basa sul principio Measuring what matters, misuriamo quel che conta davvero, consentirà di dare nuova forza sia al lavoro di ricerca che al suo impatto politico.

 

In questi anni sono nati sistemi importanti di misurazione del benessere collettivo. L’Italia si è posta all’avanguardia con il Bes, il sistema di indicatori del Benessere equo e sostenibile, che dovrebbe influenzare anche le politiche economiche attraverso l’obbligo normativo di corredare la legislazione di bilancio con la proiezione triennale di dodici indicatori di qualità della vita, anche se finora il Mef è riuscito a soddisfare questa prescrizione soltanto per cinque indicatori. L’Ocse ha creato il suo Better life index che compara i diversi Paesi attraverso undici domini, lasciando però all’utente la scelta dei pesi da attribuire a ciascun dominio, decidendo per esempio se l’occupazione si considera più o meno importante della salute. Di particolare importanza è stata la nascita degli indicatori SDGs, il complesso sistema mondiale per valutare il raggiungimento dei 169 target che sostanziano i 17 Sustainable development Goals dell’Agenda 2030 dell’Onu. L’esigenza di mettere a punto questi indicatori in ogni Paese con adeguate garanzie qualitative ha dato un impulso significativo alla collaborazione statistica, soprattutto a favore dei Paesi in via di sviluppo.

Sul piano tecnico, gli indicatori si sono sempre più affinati. Sul piano politico però, la loro incidenza è rimasta limitata, data la propensione dei policy maker a parlare di Pil e semmai di tasso di disoccupazione, senza prendere in considerazione i più complessi “cruscotti” (dashboard) che misurano il benessere collettivo.

 

Che cosa è cambiato in questo quadro con la pandemia? Da un lato c’è la necessità di rimettere in moto a ogni costo il sistema economico, e questo ha ridato fiato a chi sostiene che bisogna solo guardare al Pil, senza tante chiacchiere su indicatori alternativi. Dall’altro, però, si è diffusa la percezione di un futuro che può essere profondamente diverso dal passato, con crisi imprevedibili che possono arrivare non solo da virus e batteri ma anche dal cambiamento climatico e dal fatto puro e semplice che siamo vicini ai limiti di sfruttamento delle risorse del Pianeta o forse li abbiamo superati. Sul mio blog “Numerus” sul sito del Corriere della Sera e su Futuranetwork.eu ho posto dodici interrogativi sulla sostenibilità al 2050, ma il più difficile da risolvere è proprio questo: come far vivere quasi dieci miliardi di persone a metà secolo, tutti in condizioni “decenti” cioè quanto meno fuori dalla povertà estrema. Già oggi l’Earth overshoot day ci dice che consumiamo ogni anno le risorse prodotte da un pianeta e mezzo. Per uno sviluppo sostenibile abbiamo bisogno di indicatori che distinguano tra la produzione di ricchezza “leggera” e quella “pesante”, tra l’accrescimento del Pil basato sulla spoliazione delle risorse e quello invece che grazie all’immaterialità dei suoi servizi o all’economia circolare non incide o incide poco sulla situazione del Pianeta. E abbiamo bisogno delle altre misure del benessere che non si sostanziano necessariamente nell’accrescimento della produzione.

 

I due nodi per l’uso politico degli indicatori

La ricerca di indicatori beyond Gdp ha avuto un forte impulso dalla commissione voluta dal presidente francese Nicolas Sarkozy e guidata dai premi Nobel Joseph Stiglitz, Amartya Sen e dall’economista Jean Paul Fitoussi, i cui risultati furono resi noti nel 2009. Quasi dieci anni dopo, una nuova commissione guidata dagli stessi Stiglitz e Fitoussi, con Martine Durand dell’Ocse, rilevava i grandi progressi tecnici, ma anche lo scarso uso politico degli indicatori beyond Gdp. Un cambiamento significativo si è avuto però con la decisione della Commissione europea guidata da Ursula von der Leyen di legare la valutazione della performance della Commissione nei diversi campi agli Obiettivi dell’Agenda 2030 e quindi alla quantificazione della distanza dai target1. Ma non si può dire che questo cambiamento sia stato ampiamente percepito a livello mediatico.

Per superare questa debolezza, a mio avviso, la statistica deve risolvere due problemi con i quali fa i conti da quando si è cominciato ad affrontare seriamente questo tema: la ricerca di un indicatore unico e la misura della sostenibilità.

 

L’indicatore unico. Non c’è dubbio che una delle ragioni della rilevanza del Prodotto interno lordo come indicatore del successo di una comunità è la sua semplicità. Non per gli statistici che lo elaborano, perché il Pil è frutto di centinaia di dati diversi, alcuni dei quali soltanto stimati come l’economia irregolare; ma per i media e l’opinione pubblica: un semplice numeretto che ci dice se siamo diventati più ricchi o più poveri. Un dato, tra l’altro, che ha il pregio di poter contare su una metodologia comune in tutto il mondo e che quindi rende confrontabile la performance dei diversi Paesi.

Si può contrapporre al Pil un unico indicatore del benessere collettivo? Gli economisti che si sono occupati di questo tema, a cominciare da Stiglitz, hanno sempre messo in guardia sulla scarsa significatività di un indicatore unico che inglobasse tutte le misure del benessere, dalla salute all’istruzione, dal senso di comunità alla sicurezza. Meglio un cruscotto di diverse misure e il Bes italiano ne contiene oltre 130, con indicatori compositi solo a livello dei singoli domini. Ma i cruscotti hanno poca risonanza mediatica. Fino a qualche anno fa, si conoscevano almeno tre tentativi di costruire un unico indicatore di benessere, tutti insoddisfacenti.

  • Il primo, storicamente, è l’Indice di sviluppo umano, (Isu) che l’Undp calcola dal 1993 sulla base della speranza di vita, della istruzione e del reddito personale nella media di ciascun Paese: un indice criticato per la sua limitatezza e che si è cercato di integrare con altre misurazioni come per esempio la disuguaglianza di genere.
  • Molto famoso è il Gross national happiness index (GNH) del Bhutan, che però non può essere reso confrontabile tra i diversi Paesi perché si basa su domande molto specifiche di quella cultura (tipo “Quante ore dedichi ogni giorno alla meditazione?” e comunque è stato elaborato soltanto due volte anche nel piccolo Paese himalayano.
  • In Canada, l’Università di Waterloo ha proposto il Canadian index of well being, otto domini basati ciascuno su otto indicatori. L’ultima edizione è stata calcolata nel 2016, perché evidentemente si è ritenuto che questo indice aggregato avesse scarso significato.
  • La notorietà del GNH ha consentito al Bhutan di ottenere dalle Nazioni Unite l’istituzione dal 2013 dell’International day of happiness. In occasione di questa giornata, il 20 marzo di ogni anno, gli economisti John Helliwell, Richard Layard, Jeffrey D. Sachs diffondono il “World happiness report”, che contiene anche una classifica per Paese. Alla base della rilevazione c’è un sondaggio che la Gallup da molti anni conduce in tutto il mondo, chiedendo agli intervistati, su una scala da zero a dieci (la “scala di Cantril”) quanto sono soddisfatti della propria vita, un concetto di happiness che è forse un po’ diverso dalla nostra “felicità”. Si tratta di un indicatore totalmente basato sull’autopercezione: questo è il suo aspetto interessante, ma anche il suo limite perché persone provenienti da culture diverse si collocano diversamente sulla scala, anche con pari grado di soddisfazione. In realtà gli indicatori di subjective well being, basati appunto sull’autopercezione, sono importanti (così per esempio l’Istat ricava il dato degli anni di vita vissuti in buona salute), tuttavia sono confrontabili nel tempo ma non nello spazio, tra comunità diverse che hanno diversi valori.
  • Negli anni più recenti, dal 2013, si è affermato il Social progress index (Spi), ampiamente illustrato in questo sito da Giancarlo Lizzeri. La caratteristica più interessante di questo indicatore è che non si basa sugli input, per esempio la disponibilità di reddito, ma sugli outcome, e quindi sul modo in cui quel reddito si traduce nei benefici per il cittadino, in termini, per esempio, di accesso all’acqua potabile, alle cure sanitarie di base o a un ambiente non inquinato. Nello Spi 2020, l’Italia si colloca al 23mo posto rispetto al 27mo in termini di Pil Ppp, cioè a parità di potere d’acquisto. Ci sembra che questo indice abbia un grande potenziale, ma purtroppo è ancora poco noto a livello mediatico e poco considerato dalla politica.

 

La misura della sostenibilità. La commissione Stiglitz, dodici anni fa, aveva già avvertito che questo era un punto debole delle misure beyond Gdp, perché non è facile misurare il consumo di tutte le forme di capitale: economico, naturale, umano e sociale e quindi comprendere se il benessere prodotto oggi sarà sostenibile in futuro. Già per il capitale economico a livello macro abbiamo delle difficoltà: non a caso parliamo sempre di Prodotto interno lordo, cioè al lordo degli ammortamenti, a differenza del netto che si calcola nei bilanci delle imprese, perché è molto difficile stimare il consumo delle risorse impiegate per produrre la ricchezza di un determinato anno, valutando l’incidenza sul capitale complessivo di un Paese, comprese le risorse minerarie e forestali, le riserve ittiche, l’impatto peggiorativo sull’ambiente. Il problema diventa ancora più complesso se si vuole stimare in termini monetari la perdita del capitale naturale: quanto vale la scomparsa di una specie di farfalle? Altrettanto si può dire per il capitale umano, che è l’insieme del livello di preparazione di una popolazione, in termini di anni di istruzione e accesso alla formazione continua, e ancor di più per il capitale sociale, che è fatto di relazioni reciproche, fiducia nelle istituzioni, senso di sicurezza.

In questi ultimi anni si è avuto un aumento di attenzione al capitale naturale. Anche l’Undp, nella recentissima edizione 2020 dell’Isu, ha inserito una classificazione per impatto ambientale che corregge la classifica tradizionale. Tuttavia i tentativi di ottenere un sistema complessivo di misura della sostenibilità non hanno finora avuto successo.

Anche l’Ocse affronta il problema delle quattro forme di capitale da misurare per ricavare un quadro della sostenibilità, ricavandone delle indicazioni di tendenza e di confronto tra i diversi Paesi aderenti all’organizzazione. Questo, per esempio, è il quadro che riguarda l’Italia. Nel complesso, si può dire che i lavori sui parametri di sostenibilità, a differenza di quelli sul benessere collettivo attuale, sono ancora in una fase di ricerca: disponiamo di indicatori che fotografano l’oggi, in termini sia di Pil che di benessere collettivo, ma fatichiamo a prevedere il domani, cioè di quanto stiamo accrescendo o consumando il complesso delle risorse economiche, ambientali umane e sociali a nostra disposizione.

 

Il dibattito con i negazionisti

Pur con tutti i suoi limiti, il gigantesco sforzo fatto dalla statistica mondiale per fornirci indicatori beyond Gdp va apprezzato ed ha avuto certamente un effetto positivo sulle politiche, anche se in misura minore di quanto auspicato dai fautori di uno sviluppo sostenibile. Va registrato però che esiste ancora una fazione che nega l’utilità di questa ricerca, come si può vedere dal saggio “Laudato sì. Il Pil” pubblicato sul Foglio da Luciano Capone, giornalista, e da Carlo Stagnaro, direttore dell’Osservatorio sull’economia digitale dell’Istituto Bruno Leoni. Nel loro scritto, i due autori vedono nell’esaltazione di misure diverse dal prodotto interno lordo una ripulsa della economia come noi la conosciamo. Va detto che questa difesa a oltranza del Pil si contrappone a chi della abolizione del Pil ha fatto una bandiera ideologica, senza tenere conto del fatto che questa misura della produzione di ricchezza di un Paese sarà sì un indicatore incompleto, ma è comunque molto importante, anche perché il reddito che deriva dal Pil incide in maniera rilevante sul benessere individuale.

A mio parere, entrambe le posizioni non sono corrette. Continuiamo ad avere bisogno del Pil, ma abbiamo sempre più bisogno di affiancarlo con indicatori alternativi del benessere. Anche per una semplice considerazione condivisa da molti esperti. Passata questa crisi, nei Paesi industrializzati il Pil non potrà crescere più del 2% all’anno o forse meno, perché prevarranno criteri qualitativi che non si esprimono nel prodotto interno lordo. Per esempio, è prevedibile che il diffondersi del car sharing e anche quello dello smart working porteranno a un abbassamento del Pil perché ridurranno la necessità di determinati consumi individuali (auto propria, trasferimenti fuori casa), pur incidendo positivamente sulla qualità della vita. Il Pil sarà sempre meno adatto a descrivere i caratteri di questa nuova crescita, che noi chiamiamo “sviluppo sostenibile”. Abbiamo bisogno di continuare a lavorare sui nuovi indicatori e di basare su di essi le decisioni politiche.

  1. Un quadro della situazione dei diversi Paesi europei rispetto agli SDGs si trova nella pubblicazione “L’Unione europea egli Obiettivi di sviluppo sostenibile”, del maggio 2020, a cura dell’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile.