È ora di riformare i decreti sicurezza


Maurizio Ambrosini | 21 Luglio 2020

Al momento del varo dei cosiddetti decreti-sicurezza dell’allora ministro Salvini, molti osservatori avevano previsto una pioggia di ricorsi alla Corte Costituzionale. Si configurava un percorso attuativo accidentato, almeno nel medio termine, per il pacchetto sbandierato come la risposta adeguata a un complesso di fenomeni eterogenei e complessi come quelli migratori.

Con la proverbiale lentezza della giustizia italiana, la Consulta si è pronunciata l’anno scorso bocciando i super-poteri attribuiti ai Prefetti, e nei giorni scorsi su una disposizione che fin dalla sua introduzione aveva suscitato roventi discussioni: il divieto d’iscrizione all’anagrafe per i richiedenti asilo. Ricordiamo che alcuni sindaci, per primo quello di Palermo, Leoluca Orlando, avevano pubblicamente annunciato di voler disattendere la norma.

 

La questione sembra di scarso rilievo, in confronto ai grandi dilemmi delle politiche migratorie, ma in realtà non lo è: dall’iscrizione anagrafica dipendono molti altri diritti, come l’accesso al Servizio Sanitario Nazionale e ai Centri per l’Impiego, come pure opportunità minori, ma rilevanti per la vita quotidiana, come la possibilità di sostenere l’esame per la patente di guida.

Ora la Corte costituzionale ha cassato la norma, definendola “irragionevole” per i suoi effetti discriminatori, oltre che affetta da “irrazionalità intrinseca”, risultando contraddittoria rispetto all’obiettivo dichiarato di accrescere la sicurezza del territorio: non sapere dove i richiedenti asilo risiedono, argomenta in sostanza la Consulta, rende più difficili eventuali controlli, convocazioni o notifiche di atti,  qualora si rivelassero necessarie.

 

La sentenza lascia presagire che, anche in assenza di interventi riformatori, la suprema Corte continuerà nel tempo l’opera di demolizione delle norme più controverse dei decreti-sicurezza. Il nazional-populismo applicato alla gestione dell’immigrazione si pone in contraddizione, spesso anche voluta ed esasperata, con le convenzioni internazionali, le norme dell’UE e la stessa nostra carta costituzionale. Finché reggerà la separazione dei poteri, la magistratura avrà il diritto-dovere di vigilare sulla rispondenza delle misure varate dall’esecutivo con i principi ispiratori del nostro sistema democratico, tra i quali vale la pena di ricordare soltanto l’esplicita condanna di ogni forma di discriminazione e l’obbligo di accoglienza dei cittadini stranieri che in patria si vedono impedito “l’effettivo esercizio delle liberta` democratiche garantite dalla Costituzione italiana”.

Anziché attendere che sia la Corte costituzionale a correggere le sbandate più clamorose dei decreti Salvini, a colpi di bocciature di singole disposizioni, si apre uno spazio per la politica. Fin dal varo del secondo governo Conte, la riforma dei decreti sicurezza era all’ordine del giorno, almeno per le osservazioni critiche già sollevate dal presidente Mattarella. Da mesi ormai complesse trattative sono state affidate al ministro degli Interni Lamorgese, con l’assistenza di tecnici e gruppi di lavoro. È stato più volte annunciato il raggiungimento di un accordo, che però non ha ancora visto la luce.

Di fatto, dopo un anno di governo giallo-rosso, i contestati decreti di Salvini rimangono in vigore per la resistenza del M5S nei confronti dei tentativi di riforma da parte di un PD desideroso di cambiare, ma non particolarmente combattivo. Il recente soprassalto di paura e pregiudizio nei confronti dei migranti, a motivo dei casi di positività al virus Covid-19 riscontrati in alcuni sbarchi, interferisce dal punto di vista mediatico e psicologico con la discussione sulla riforma dei decreti sicurezza: si teme di offrire un facile argomento alla propaganda dellopposizione.

 

In questa situazione fluida e ancora indeterminata, vorrei porre in rilievo gli aspetti delle norme bandiera della Lega di Salvini che in via prioritaria andrebbero aboliti o profondamente rivisti. Il primo e più serio per le sue conseguenze riguarda l’abolizione della protezione umanitaria, che rappresentava il principale dispositivo di  accoglienza dei rifugiati nel nostro paese, consentendo alle commissioni preposte di riconoscere con una certa flessibilità situazioni particolari che non rientravano nei rigidi criteri delle forme canoniche di protezione internazionale: per esempio, persone che soffrirebbero una grave deprivazione se non ottenessero un titolo di soggiorno e fossero rimpatriate, ricadendo in situazioni di grave precarietà, insicurezza, violenza diffusa; donne incinte o vittime di abusi; profughi che hanno imparato la lingua, trovato un lavoro, compiuto passi significativi verso l’integrazione in Italia.

 

Una seconda correzione necessaria si riferisce alla cessazione della criminalizzazione delle ONG che salvano i migranti in mare. I tentativi di limitarne l’azione erano per la verità già iniziati sotto la gestione Minniti, con l’imposizione di un codice di regolamentazione che ne inficiava l’autonomia e per questo era stato rifiutato dalla maggior parte delle organizzazioni interessate.  I sospetti di collusione con i trafficanti non sono però mai stati provati, e i processi intentati contro di esse stanno finendo uno dopo l’altro in clamorose archiviazioni, non senza aver provocato però gravi danni alle operazioni di soccorso e all’immagine pubblica delle ONG. Salvini aveva aggravato il quadro introducendo sanzioni economiche stratosferiche e responsabilità penali, tanto da annullarne la presenza nel Mediterraneo: una linea di condotta, quella delle campagne contro attori internazionali indipendenti come le ONG, degna di governi autoritari, già perseguita da leader come Putin, Erdogan, Orban. Mentre il M5S insiste, a quanto trapela, per mantenere sanzioni pecuniarie a carico dei soccorritori, per quanto in misura ridotta, e il ministro Lamorgese lavora su un nuovo codice di condotta sul modello Minniti, una soluzione che rilegittimasse pienamente il valore dei salvataggi in mare acquisterebbe un notevole significato culturale e simbolico.  Servono semmai nuovi accordi con i partner europei sull’accoglienza dei profughi tratti in salvo, riformando le convenzioni di Dublino, mediante quei negoziati che Salvini ha sempre eluso.

 

In terzo luogo, occorre ripensare le modalità di assistenza nei confronti dei richiedenti asilo, riformando profondamente le regole fissate da Salvini: riduzione del raggio d’azione del sistema Sprar (ora Siproimi); elezione dei Centri di assistenza straordinaria (CAS) a modalità ordinaria di accoglienza dei richiedenti asilo; taglio delle rette giornaliere pro-capite, e quindi dei servizi più qualificati che dovrebbero essere dispensati dai CAS: assistenza psicologica e sociale, insegnamento dell’italiano, orientamento ai servizi. Magari con una nuova normativa ad hoc, occorrerà ridefinire il sistema di accoglienza investendo più convintamente (e in modo vincolante) sulla collaborazione tra enti locali, solidarietà organizzata, attori sociali ed economici dei territori. Il gioco dei Comuni che rifiutano di collaborare all’accoglienza e poi protestano per l’insediamento di un CAS non dev’essere più consentito: non è previsto in nessuno dei principali paesi dell’UE, dove ai Comuni viene generalmente assegnato un  numero di rifugiati proporzionale alla popolazione residente.

 

I decreti sicurezza hanno poi previsto, tra le altre, una norma minore ma particolarmente penalizzante per gli immigrati già insediati da anni e integrati nella società italiana: l’immotivato raddoppio da due a quattro anni del tempo che lo Stato italiano si concede per l’esame delle richieste di accesso alla cittadinanza, cosicché la durata effettiva della procedura raggiunge la soglia minima di 14 anni. A questi non di rado si aggiungono incidenti burocratici (per es., la mancata registrazione della residenza) o problemi derivanti dai requisiti di reddito, di questi tempi ancora più difficili da soddisfare. Lo ha recentemente ricordato alla manifestazione romana degli Stati popolari l’associazione “Italiani senza cittadinanza”, formata da giovani di origine immigrata che non riescono ancora, dopo anni, a diventare italiani. Già la loro discesa in piazza dimostra che il mondo dell’immigrazione si sta articolando sempre più, comincia a prendere la parola, si muove più velocemente delle norme che vorrebbero imbrigliarlo e spesso anche penalizzarlo.