Equità di genere in sanità: oltre il tetto di cristallo


Premessa

L’ultimo rapporto annuale “Women in Business” vede l’Italia risalire ben 13 posizioni rispetto all’anno precedente nella classifica sull’ampiezza del divario di genere. Il nostro paese resta tuttavia inchiodato alla 63esima posizione a livello mondiale. Tale situazione tocca tutti i settori occupazionali anche quelli più garantiti. Considerando in particolare la professione medica, nel 2019, secondo i dati OCSE, in Italia le donne esercenti nel settore pubblico e privato sono il 44% del totale, con un incremento notevole rispetto al 2000 quando il loro numero si posizionava attorno al 30%. Tuttavia, comparativamente, l’Italia presenta una incidenza inferiore alla media dei Paesi OCSE37 (49%) e ben lontana da paesi come la Finlandia (58%), Polonia (57%), Spagna (56%), ma anche Germania (48%) o Francia (46%).

Perché la femminilizzazione possa dirsi compiuta, tuttavia, è necessario che si modifichino non solo le presenze delle donne medico, ma anche le pratiche lavorative che si sono andate cristallizzando intorno alle figure maschili che ne sono state protagoniste fin dall’origine. È necessario, in altre parole, che la crescita della componente femminile coincida con un mutamento nel modo di concepire e di praticare la professione e che cambi radicalmente l’organizzazione del lavoro, anche in virtù dell’avvento, sulla scena dell’assistenza e della cura, di nuove generazioni di professionisti, portatori di valori diversi dal passato (Neri, Spina e Vicarelli 2020).

 

Una parità numerica quasi raggiunta

Nonostante la difficoltà, tutta italiana, di reperire dati istituzionali chiari ed univoci (le carenze informative riguardano tutto il personale medico per il quale è difficilissimo rilevare l’entità e la composizione nelle diverse categorie occupazionali del settore pubblico e privato), quelli a disposizione sembrano dimostrare che la parità numerica sia quasi raggiunta: a marzo 2022 il 45% dei medici iscritti agli Albi provinciali è donna, seppure con differenze territoriali significative. È nelle regioni meridionali, infatti, che sul totale degli iscritti la maggioranza è ancora maschile. Anche considerando i professionisti che lavorano nel Servizio Sanitario nazionale (SSN), pari a circa un quarto degli iscritti agli Ordini, il lavoro femminile a tempo indeterminato ha, nel 2019, un peso quasi simile, cioè il 48,1% del totale, crescendo di 10 punti percentuali in soli nove anni (nel corso del 2019 il 59,9% dei medici assunti è costituito da donne). Il livello di femminilizzazione aumenta man mano che si scende con l’età, come dimostrano peraltro i dati sull’età media dei medici occupati nel SSN che nel caso degli uomini (53,8) è maggiore di 3,9 anni rispetto a quella delle donne (48,9).

 

Tale trend è il risultato di un percorso storico lungo ma lento di femminilizzazione della professione. La storia delle donne medico in Italia conta infatti 145 anni, se prendiamo come punto di avvio la data della prima laureata in medicina: Ernestina Paper a Firenze nel 1877. In questo arco di tempo le dottoresse sono passate attraverso trasformazioni che le hanno portate ad assumere posizioni differenziate nei confronti dei colleghi uomini e dei relativi sistemi sanitari.

In alcuni lavori di ricerca, Vicarelli (2008) ha utilizzato terminologie diverse per dar conto di tale posizionamento: ha parlato di pioniere per il periodo che va da fine Ottocento ai primi venti anni del Novecento, quando le donne arrivano al massimo al 2% dei laureati (a.a. 1922-23); le ha caratterizzate come dottoresse ambivalenti nel periodo fascista, quando il loro numero oscilla tra il 3 e il 5%; come vestali della professione negli anni del dopoguerra, quando salgono gradualmente al 10% (a.a. 1960-61), restando però ancorate a posizioni marginali (di assistenti o al massimo di aiuto), negandosi spesso una propria vita coniugale e familiare; di emancipate, quando nel corso degli anni Settanta raddoppiano il loro numero (20% nel 1975-76); infine di professioniste per il periodo che, dall’istituzione del SSN, arriva fino al 2006 quando si raggiunge il massimo storico di laureate (62% del totale) con un andamento costante di crescita e di inserimento soprattutto nell’ambito pubblico-ospedaliero.

 

Un’espansione orizzontale: le specialità

Al di là della crescita numerica, la femminilizzazione della professione medica è dimostrata anche dalle mutate scelte di specialità. Negli anni Cinquanta le diplomate in pediatria raggiungono il 46,5% di tutte le specializzate, con una netta esclusione da ambiti ritenuti particolarmente adatti agli uomini (urologia e ortopedia) e una bassissima presenza nel settore chirurgico (1,1%). Da qui, la loro tipicizzazione come vestali della professione, cioè, rivolte alla cura delle fasce deboli della popolazione. Non a caso, quando inizia ad aumentare il numero delle laureate nel corso degli anni Settanta, «le emancipate» si distribuiscono in modo meno polarizzato, come testimonia la forte decrescita delle specializzate in pediatria che assommano, nell’a.a. 1972/73, a solo il 13% del totale. Per contro, crescono le specializzate in anestesia (16,6%) e in Igiene (12,4%). Con l’avvio del SSN, le donne, etichettate come professioniste, continuano a distribuirsi in maniera eterogenea svuotando le specialità «classiche» (6,5% in pediatria nel 2019), andando a occupare posizioni anche in contesti fino ad allora meno frequentati, primo fra tutti ginecologia dove, dal 1986, le specializzate sono più degli uomini (7,5% versus 4,0%). Anche specializzazioni tipicamente maschili cominciano a connotarsi al femminile: chirurgia generale 3,7%, ortopedia 1%, urologia 0.5% (Tab. 1).

 

Tab. 1 – Diplomati in alcune scuole di specializzazione in Medicina e Chirurgia dal 1955-56 al 2019 per sesso (valori percentuali*)
1955-1956 1963-64 1972-73 1986 1994 1996-97 2019
M F M F M F M F M F M F M F
Allergologia e immunologia clinica 0,3 0,2 1,0 1,4 0,7 1,1 0,8 1,6 0,4 0,9
Anatomia patologica 0,1 1,8 0,4 1,0 0,7 0,7 0,7 1,2 0,7 1,4 0,9 1,6 1,2 1,5
Anestesia Rianimazione, Terapia intensiva e del dolore 5,8 9,9 5,0 10,6 8,1 16,6 4,0 5,1 3,4 3,6 4,2 4,0 5,8 6,5
Chirurgia generale 8,5 1,1 9,1 1,3 11,1 1,9 12,8 3,9 15,4 5,3 16,1 5,1 5,1 3,7
Ginecologia ed Ostetricia 6,3 4,4 5,7 2,6 4,5 2,6 4,0 7,5 3,5 6,4 3,8 4,6 1,4 4,3
Igiene e medicina preventiva 4,0 6,2 8,4 12,3 6,7 12,4 4,6 7,2 3,9 3,7 3,2 4,1 3,3 2,6
Ortopedia e traumatologia 3,9 0,0 3,9 0,7 4,8 1,0 4,7 2,3 4,0 0,6 4,6 0,7 5,1 1,0
Pediatria 12,4 46,5 10,8 34,4 5,5 13,8 4,3 11,4 3,9 10,6 3,2 8,5 2,0 6,5
Psichiatria 3,6 5,1 3,5 7,3 3,2 3,5 2,5 3,8 2,6 5,3 3,9 5,2 4,5 5,6
Urologia 2,8 0,0 2,4 0,0 2,6 0,0 1,4 0,1 1,8 0,3 2,0 0,5 0,5 0,5
Fonte: nostra elaborazione su dati MUR
*percentuali calcolate sul totale degli specializzati ogni anno per sesso

 

 

Tali scelte si riflettono sui dati di occupazione delle donne medico nel SSN. A fine 2019, infatti, le occupate sono presenti, seppure con percentuali differenziate, in tutti gli ambiti di attività, scendendo, solo in 5 settori, al di sotto del 20% ma comunque sopra il 14% (medicina dello sport, cardiochirurgia, ortopedia, chirurgia maxillo-facciale e urologia). Gli ambiti più femminilizzati sono neuropsichiatria infantile (75,9%), pediatria (71,0%), oncologia medica (62,0%), medicina fisica e riabilitazione (60,6%), genetica medica (60,2%), medicina di comunità e delle cure primarie (58,4%) anatomia patologica (57,8%), ematologia (57,8%), ginecologia ed ostetricia (56,8%).

Alla crescita numerica, dunque, si assomma una distribuzione orizzontale più egualitaria tra le varie specialità che compongono la professione, a dimostrazione di una maturazione della presenza femminile nella medicina nel suo complesso.

 

Un forte squilibrio di potere

Tale maturazione, tuttavia, esclude la crescita in senso verticale. Limitata è infatti la presenza femminile nell’ambito della rappresentanza professionale: dei 106 presidenti degli Ordini professionali provinciali nel 2022, 11 soltanto sono donna (10%), mentre 26 (25%) sono le vicepresidenti e appena 2 le donne nel Comitato Centrale della Federazione Nazionale degli Ordini (FNOOMcEO) composto di 20 membri e presieduto dal Dott. Anelli.

La medesima sottorappresentazione si osserva guardando alla composizione di genere delle posizioni apicali all’interno del SSN secondo i dati del Conto Annuale Igop della Ragioneria Generale dello Stato, al 31 dicembre 2019. In particolare, tra i direttori di struttura complessa (ex primari) solo il 17,2% è di sesso femminile, tale percentuale sale al 34,7% tra i medici a capo di una struttura semplice.

La situazione è analoga se si analizzano i dati del personale docente e ricercatore in scienze mediche presso le università italiane (disponibili sul sito del Ministero dell’Università e della Ricerca) che evidenziano una segregazione femminile molto forte laddove le professoresse ordinarie costituiscono appena il 19,3% del totale per vedere aumentata la loro presenza scendendo verso le posizioni più basse della gerarchia accademica (professoresse associate 33% e ricercatrici a tempo indeterminato 46%) fino a superare quella maschile nei ruoli precari (54,3% RTD di tipo A).

 

Non solo glass ceiling

Il quadro sopra delineato ci racconta di un sistema sanitario in larga parte composto di donne medico ma che continua a riproporre modelli organizzativi gestiti da uomini e ideati sulla base di idealtipi maschili. Infatti, una indagine condotta nella primavera del 2022 dal maggior sindacato dei medici dipendenti (Anaao-Assomed), presso un campione di 1668 iscritte, evidenzia grande insoddisfazione e delusione, con aspettative peggiorate nella maggior parte dei casi dovute a: carenza di personale, disorganizzazione, carichi di lavoro eccessivi, clima lavorativo che rende difficile, se non impossibile, conciliare i tempi di vita privata e di lavoro.

Le donne lamentano stanchezza, demotivazione e burnout, prevalendo la percezione di non essere più in grado di gestire la propria professione. La maggioranza delle intervistate ritiene fondamentale migliorare l’organizzazione del lavoro delle aziende sanitarie in cui lavorano e valuta negativamente le attuali politiche di conciliazione, ritenute soluzioni marginali o lontane dalle reali necessità.

Questi esiti non stupiscono se già nel 2019, quindi prima dello sforzo imposto dalla pandemia da Covid-19, un’indagine condotta tra i paesi aderenti alla Federazione Europea dei Medici Salariati[1] poneva l’Italia al penultimo posto, prima soltanto della Bulgaria, per la soddisfazione sul lavoro. Le donne medico italiane lamentavano discriminazione, insoddisfazione professionale ed economica e difficoltà di accedere alle posizioni apicali. Una dottoressa Italiana su due denunciava episodi di discriminazione da parte di superiori o pazienti; il 68% si diceva insoddisfatta per aver dovuto rinunciare o all’aspetto professionale o a quello personale per conciliare lavoro e vita privata. Appena il 16% era soddisfatta della propria carriera professionale ma la stessa percentuale sottolineava di non aver avuto opportunità di crescita proprio per il fatto di essere donna. La discriminazione di genere appariva quindi molto forte laddove il 42% dichiarava come non vi fosse un pari coinvolgimento delle donne nei posti gestionali e di leadership, sebbene la stessa percentuale si dicesse fiduciosa rispetto ad una crescente attenzione su questo tema.

 

E l’attenzione a questo tema si fa effettivamente più urgente considerando come il processo di femminilizzazione in atto si fonda e si confonda con la trasformazione culturale legata al rinnovo generazionale che si sta compiendo. I giovani medici, seppur indipendentemente dal genere ma comunque in larga parte donne, esprimono valori diversi rispetto alle generazioni che li hanno preceduti e per questo la necessità di ripensare le modalità organizzative e di governance del sistema si fa cogente.

Alcune ricerche (si veda Spina 2017), infatti, hanno mostrato come i giovani medici siano più flessibili, maggiormente inclini al lavoro in team, più tecnologici e alla ricerca di un maggiore equilibrio tra vita privata e lavoro. Valori poco o per nulla presenti e incentivati all’interno del SSN che si sta dimostrando inadeguato e non al passo con i tempi.

 

Quale futuro?

C’è da prestare molta attenzione nel prossimo futuro alle scelte politiche ed organizzative che verranno compiute. La presenza femminile in medicina, infatti, è destinata ad aumentare (come informano i dati sugli iscritti e i laureati, nonché i dati sui pensionamenti). Saranno le donne, cioè, a soddisfare i bisogni di assistenza e di cura di questo paese. Come si può immaginare che riusciranno ad esprimere la loro professionalità all’interno di organizzazioni poco attente ai loro bisogni? Quali rischi si corrono? Il rischio principale è quello della fuga dal SSN, dell’emorragia cioè di personale evidenziatasi con la pandemia ma già presente prima di essa. Nel 2019 il conto annuale del Ministero del Tesoro metteva in guardia da questo rischio denunciando come negli ultimi 10 anni le dimissioni dei medici fossero aumentate del 81%.

Da una più recente analisi di Anaao Assomed, nel 2021 ben 2.886 medici ospedalieri, il 39% in più rispetto al 2020, ha deciso di lasciare la dipendenza dal SSN e proseguire la propria attività professionale altrove, con una media nazionale dei medici dipendenti che hanno deciso di licenziarsi pari al 2,9%. In entrambi i documenti si legge che le ragioni della fuga sono legate alla demotivazione, all’affaticamento fisico ed emotivo, al mancato riconoscimento economico e dunque alla ricerca di migliori condizioni di lavoro in termini di flessibilità oraria, di autonomia professionale, di minore burocrazia.

 

Le donne medico occupate nel SSN stanno sorreggendo il peso di un servizio sanitario indebolito da anni di politiche del personale inadeguate e dal prevalere di modelli organizzativi e manageriali obsoleti (Vicarelli 2022).

Se dunque la parità, almeno sul piano numerico, è stata raggiunta, molto ancora c’è da fare. E non solo perché esse possano sfondare il tetto di cristallo. È necessario lavorare per creare ambienti idonei, attenti ai bisogni di chi presta l’attività professionale; è necessario rifondare il sistema nella direzione di una reale trasformazione organizzativa. Non si tratta, in definitiva, di invocare la parità per orientare le rivendicazioni femminili verso condizioni di lavoro pensate per un universo maschile, si tratta di ricercare l’equità, in grado di valorizzare le differenze offrendo a tutti le stesse opportunità (Morano 2021).

 

È questa la strada che le riforme appena avviate grazie ai fondi del PNRR intraprenderanno? Difficile stabilirlo oggi. Dai documenti che disegnano le trasformazioni del SSN non vi è traccia di quanto discusso. L’attenzione è focalizzata sull’implementazione di nuovi modelli organizzativi delle cure territoriali (Case della Comunità), sul potenziamento in termini numerici del personale e sullo sviluppo della multidisciplinarità. Aspetti certamente necessari, ma che non saranno in grado di innovare davvero se si trascura, ancora una volta, la necessità di prendersi cura delle risorse umane, di valorizzare, cioè, le differenze, di tutelare il diritto a lavorare in condizioni fisiche ed emotive tali da garantire la loro crescita umana e professionale qualunque ne sia il genere.