Homelessness e professioni sociali

Una riflessione alla luce della pandemia


Cesare BianciardiEnea Delfino | 30 Novembre 2021

Homelessness: un fenomeno “generale”

Precarizzazione dei percorsi lavorativi, crescente individualizzazione, contrazione e indebolimento delle tradizionali reti di supporto, sia familiari che amicali, sono ormai fattori generalizzati e non più circoscritti al singolo individuo e che giocano un ruolo determinante nella modifica del profilo del senza dimora odierno1.

Aree di disagio non strettamente connesse all’abitare si intrecciano, infatti, sempre di più con fattori di diffusa vulnerabilità, tanto è vero che ormai da qualche tempo ci si interroga sulla persistenza della validità di concetti quali “carriere di povertà” e “ereditarietà della povertà”2.

 

La stessa visione dell’homelessness come di un percorso progressivo che si organizza attorno ad un evento precipitante3 non può non essere riletta alla luce del generale “infragilimento” che tocca ogni individuo. L’evento spiazzante – come giustamente lo definisce Antonella Meo4-, assume, oggi, un nuovo e più pesante accento ed è veramente e più che mai “spiazzante” perché (lungi dall’essere una semplice razionalizzazione nel racconto del senza dimora) si presenta nella vita di individui tutt’altro che afflitti da fragilità pregresse.

Non è un caso se la European Typology on Homelessness and Housing Exclusion (Ethos), elaborata sotto l’impulso della Feantsa (European Federation of National Organisations Working with the Homeless) ed adottata ufficialmente dalla Commissione Europea nel febbraio del 2013, allarga lo spettro classico dell’homelessness, concentrandosi piuttosto sui risvolti sociali che l’assenza di una abitazione stabile e sicura comportano.  Si individuano, infatti, i cosiddetti three domains che vanno a definire più nello specifico ed in maniera più complessa ed articolata il concetto di casa: questa rappresenta un dominio fisico, secondo il quale avere una casa indica avere un alloggio, uno spazio fisico adeguato a soddisfare i bisogni primari dell’individuo e della sua famiglia, ma anche un dominio sociale, secondo cui la casa deve assolvere al compito di garantire un adeguato grado di privacy e di relazioni sociali ed un dominio legale, secondo il quale chi occupa la casa deve poterne disporre in modo esclusivo, avendone un titolo legale dal quale derivi sicurezza di occupazione5.

Ecco che slegando il concetto di homelessness dell’elemento materiale costituito dell’abitazione ma legandolo, piuttosto, al “significato sociale” che tale mancanza comporta, appare chiaro come i fattori che vi si legano (ed in qualche modo la determinano) assumano maggiore rilevanza a debbano, quindi, essere tenuti debitamente in conto nel disegnare le policies e gli interventi connessi.

 

Oggi, quindi, nell’ampio contenitore dell’homelessness rientrano coloro che si trovano a non potersi mantenere un alloggio perché, seppur normalmente inseriti in società, hanno lavori precari o sotto retribuiti (working poor), reti familiari molto contratte, deboli o assenti e via dicendo6.

La pandemia da SarsCov-2 ha prepotentemente confermato quanto, all’interno dai servizi sociali territoriali – ed in letteratura – era ormai da tempo chiaro, ovvero che l’homeless non è (se mai lo è stato) soltanto la persona che vive per strada, incarnando l’immagine, ormai stereotipata, del clochard, “lontano” da tutto e da tutti.

Quale evento più che mai “spiazzante”, la pandemia si è, quindi, mostrata come una cartina di tornasole di questa realtà, portando a chiedere aiuto ed assistenza persone che non era neppure considerate a rischio di trovarsi in povertà7 e sollevando il velo sulla necessità di agire con strumenti adeguati rispetto alle cause strutturali di un fenomeno che non è appannaggio del singolo individuo, ma si connota come un fenomeno sociale.

Helping professional, “strumenti di policies” per il contrasto alla povertà

Gli helping professional, come assistenti sociali, educatori professionali, psicologi, godono di un osservatorio privilegiato rispetto alla lettura precoce delle modificazioni dei fenomeni, soprattutto dei fenomeni connessi alle diverse fragilità.

Se dalle rare rilevazioni che abbiamo sui senza dimora, il profilo ricorrente è quello di un maschio adulto, straniero, con età media sotto i cinquantaquattro anni, solo, senza legami familiari e amicali8, dalle ricerche partecipative che coinvolgono direttamente gli operatori possiamo osservare che tale profilo corrisponde solo in parte alla realtà per quanto riguarda le persone che si trovano in situazione di grave marginalità9.

Le rilevazioni ufficiali, infatti, seppur condotte nella consapevolezza dell’ampiezza dello spettro dell’homelessness, si concentrano sui servizi di bassa soglia e sui grandi centri urbani, dove – effettivamente – tali servizi accolgono persone utenti con un profilo rispondente a quello tratteggiato che, però, non è sufficiente ad inquadrane ed esaurirne l’eterogeneità.

Ed ecco, quindi, che gli helping professional divengono di fondamentale importanza non solo per mettere in luce le criticità dell’agire professionale ed affrontarle efficacemente, ma anche per conoscere meglio i fenomeni e portare al ri-orientamento delle policies che disegnano gli strumenti per affrontare i fenomeni.

Gli operatori possono – e debbono – mettere la loro “conoscenza” al servizio dei decisori politici, non solo come “strumenti” capaci di leggere precocemente i fenomeni, ma soprattutto in quanto capaci di coinvolgere attivamente le persone che si rivolgono a loro nei processi di identificazione dei bisogni e di fronteggiamento dei problemi, individuando potenzialità e criticità di quanto disponibile10.

Ovviamente, i principi deontologici alla base dell’agire professionale di quasi tutte le helping profession risultano elementi essenziali nello sviluppo di tale conoscenza: la centralità della persona e l’autodeterminazione della stessa si pongono come principi fondanti di cui tenere conto nel disegnare qualsiasi policies, poiché l’operatività che si sviluppa e che non ne tenga conto – oltre a non essere rispettosa della dignità dell’individuo – rischia di produrre effetti infausti sullo sviluppo del processo di aiuto e sugli esiti di qualsiasi intervento.

 

Le ricerche sviluppate a partire da un’ottica bottom-up, con un approccio che possiamo correttamente definire di social work (mirato a fare degli operatori “parte attiva” del processo di ricerca) hanno evidenziato, ad esempio che alcuni elementi presenti negli attuali modelli di intervento e negli strumenti di contrasto alla povertà sono soggetti a vistosi limiti: si pensi, per esempio, alla “condizionalità” che connotava il REI ed ancora connota il RdC (anche nella sua recente riformulazione)11 e che è vista dagli operatori come un elemento di disturbo, sia rispetto al corretto sviluppo della relazione tra professionista e persona/utente che al processo di aiuto nel suo complesso.

Un maggior dialogo tra operatori e decisori politici permetterebbe la condivisione di strategie e conoscenze su un fenomeno complesso e in continua evoluzione, e conseguentemente allo sviluppo di policy calibrate sul contesto contemporaneo, con un miglioramento della quotidianità lavorativa degli operatori e della loro relazione con i beneficiari.

 

In conclusione, quindi, i professionisti dell’aiuto sono sempre più chiamati – sia per specifiche competenze, che per aderenza ai principi deontologici che guidano l’operare – ad uscire dalla dimensione strettamente connessa al lavoro sul caso, ma a partire da questa per ampliare il proprio spettro d’azione verso la lettura “professionale” dei fenomeni e degli strumenti per divenire, appunto, parte attiva nel disegno delle politiche di contrasto alla povertà.

  1. Bergamaschi M., L’individuo senza supporti. Società salariale e processi di individualizzazione in Robert Castel”, in Fio.Psd (a cura di), Grave emarginazione e interventi di rete. Strategie e opportunità di cambiamento, Franco Angeli, Milano, 2005, pp. 113-124.
  2. Baroni W., Petti G., Cultura della vulnerabilità. L’homelessness e i suoi territori, Pearson, Torino, 2014.
  3. Saraceno C. (a cura di), Rapporto sulle politiche contro la povertà e l’esclusione sociale, 1997-2001, Carocci, Roma, 2002.
  4. Meo A., Vite in bilico. Sociologia della reazione a eventi spiazzanti, Liguori, Napoli, 2000.
  5. Edgar B., Meert H., Doherty J., Third Review of Statistics on Homelessness in Europe. Developing an Operational Definition of Homelessness, Feantsa, Brussels, 2004.
  6. Bianciardi C., “Vecchi miti e nuove evidenze: come stanno cambiando o dovrebbero cambiare le strategie di presa in carico delle persone senza dimora”, Welfare Oggi, 3, 2019, pp. 37-49.
  7. Siza R., “L’Italia dei nuovi poveri o della crescente precarietà?”, Prospettive Sociali e Sanitarie, 4, 2020, pp. 7-9.
  8. ISTAT, Le persone senza dimora in Italia- Anno 2014, 2015.
  9. Panciroli C., La ricerca partecipativa nello studio della povertà. Lo sguardo del social work, Erickson, Trento, 2019.
  10. Dellavalle M., Bianciardi C., “La ricerca nel percorso evolutivo del servizio sociale”, in Albano R., Bianciardi C., Dellavalle M. (a cura di), Metodologia della ricerca e servizio sociale, II ed., Giappichelli, Torino, 2021, pp. 115-150.
  11. Interessante a tal proposito il lavoro condotto dall’Osservatorio Interdipartimentale Permanente su Servizi Sociali e Povertà, che ha recentemente edito (2021) il Report di ricerca “Servizi sociali e misure di contrasto alla povertà”, curato da Luca Salmieri e frutto di una ricerca che ha visto, tra le varie helping professions, gli assistenti sociali coinvolti direttamente nel processo di ricerca.