Il contrasto all’homelessness ai tempi del Covid 19

Spunti dalle esperienze di Milano e Torino


Martina Buffa | 10 Novembre 2020

La letteratura scientifica e le pubblicazioni sul tema dell’homelessness sottolineano, da tempo, come la vita in strada e nei servizi di bassa soglia rappresenti un fattore di rischio per la salute e l’incolumità fisica delle persone. A partire dal mese di marzo 2020, il tema ha trovato ampio spazio anche sui giornali e sui social network, in virtù di quanto accaduto nei servizi rivolti alle persone senza dimora, a seguito della pandemia di Covid-19.

Regioni, Comuni e Unità di Crisi sono stati costretti ad una riorganizzazione dei loro servizi. Le misure adottate, a volte non sono state sufficienti a ridurre i rischi, sia per gli ospiti, sia per gli operatori sociali, altre volte, invece, sono state considerate delle buone pratiche da cui poter ripartire.

È il caso dei Comuni di Torino e Milano, le cui testimonianze appaiono rilevanti.

 

L’esperienza del Comune di Torino

A Torino sono state introdotte modifiche negli spazi esistenti e sono state individuate nuove strutture. Dal 18 marzo 2020 sono state bloccate le turnazioni degli utenti, garantendo a chi era in dormitorio, il posto letto oltre le trenta notti previste dal regolamento. Gli operatori delle strutture hanno cominciato a misurare le temperature all’ingresso e ad istituire dei pre-triage.

Nonostante tali accortezze, il Comune di Torino ha dovuto affrontare l’esplosione dei casi di Covid-19 all’interno delle strutture, aggravati dal ritardo nell’acquisizione dei tamponi e nell’individuazione delle strutture aggiuntive.

Il protocollo di Intesa tra la Città di Torino, la Prefettura di Torino, la Regione Piemonte – Unità di Crisi e alcunele Cooperative, approvato solo il 17 aprile, ha ridefinito le caratteristiche di siti esistenti e ha in seguito individuato nuovi siti di ospitalità temporanea: alcuni riservati alle persone positive al Covid-19; altri individuati come posti integrativi.

La Città di Torino ha ridotto la presenza delle persone ospitate nelle case di accoglienza e ha potenziato, in via straordinaria, l’orario di apertura a 24 ore. Una procedura attivata dal Comune in accordo con l’ASL presso l’Unità di crisi, inoltre, ha dato la possibilità alle persone senza dimora di essere sottoposti ai tamponi, garantendo, in tal modo, i reingressi nei dormitori.

L’idea del Comune è di continuare a tenere le strutture aperte h24 per tutto il periodo invernale. Questa buona prassi consentirà agli homeless di non essere costretti alla vita in strada e di costruire meglio la relazione con gli operatori, in un’ottica però, di uscita rapida da queste strutture.

 

Ciò che la pandemia ha mostrato a Torino, come a Milano, infatti, è che i dormitori non sono la soluzione primaria al problema della homelessness; si è reso evidente che mettere le persone in casa è vincente. Chi non ha patito più di tanto l’emergenza sanitaria, sono infatti stati i 50 fortunati beneficiari del servizio Housing First1 di Torino. Le strutture collettive si sono dimostrate una pratica problematica rispetto all’emergenza sanitaria perché nonostante tutti gli sforzi possibili per garantire il distanziamento, si tratta giocoforza di contesti affollati che possono costituire più di altri dei potenziali focolai di infezione.

A tal proposito, a metà luglio, il Comune di Torino ha pubblicato un appalto per l’affidamento di servizi (di prossimità; di ospitalità; di inserimento e reinserimento abitativo) che si inseriscono in un quadro di risposte rivolto alla popolazione senza dimora più ampio e articolato. La città sta cercando di riorganizzare, a partire dalla bassa soglia, un sistema che non è più a gradini (con passaggi della persona in step successivi di servizi), ma “a ventaglio”, che sia in gradodi assicurare da subito opportunità di risposte diverse, integrate e coordinate, quanto più possibile flessibili e personalizzabili.

 

L’esperienza del Comune di Milano

Anche l’amministrazione comunale di Milano è stata travolta dalle innumerevoli problematiche che l’emergenza sanitaria ha causato2.

Una grossa criticità ha riguardato il sistema delle docce pubbliche comunali che a causa dei consistenti assembramenti, sono state chiuse. Il Comune di Milano ha dovuto impiegare quasi un mese per la riorganizzazione del servizio, ad oggi potenziato e riqualificato: sono state noleggiate nuove docce per garantire servizi igienico sanitari; è stato attivato un presidio medico, mediante la collaborazione di medici volontari della Fondazione Caritas Ambrosiana e della Croce Rossa Italiana. Le docce pubbliche di Via Pucci, sono stateutilizzate, invece, come sportello di ascolto e come centro di distribuzione di vestiti, kit di pulizia ecc.

Il tema più difficile per il Comune è stata la gestione dello sportello del Centro Aiuto della Stazione Centrale, chiuso il 21 marzo, giorno a partire dal quale gli operatori hanno cominciato a lavorare per e-mail e per telefono.

Per le persone rimaste in strada, alcune delle quali preferivano restare fuori per paura di ammalarsi dentro le strutture, è stato fondamentale il lavoro delle unità mobili, prima sospese, e poi riattivate. Le unità hanno cominciato ad intercettare ciò che c’era fuori dalle strutture, monitorando la salute e i bisogni delle persone in strada. L’unità mobile Fondazione Progetto Arca insieme al Comune, per esempio, ha provveduto all’installazione di una serie di WC chimici in punti strategici della città in cui vi era un numero significativo di presenze.

Il deficit più grande ha riguardato il raccordo con i servizi sanitari tema critico ormai da diversi anni. Per farvi fronte durante l’emergenza sanitaria, il Comune di Milano, grazie all’aiuto di Emergency, ha svolto un lavoro importante di mappatura e di identificazione dei bisogni sul territorio delle persone che, tradizionalmente, non accedono ai servizi dell’amministrazione. L’associazione ha fornito formazione sia logistica, sia di pronto intervento sanitario agli operatori del Casc e alle équipe presenti nelle strutture di emergenza. Sono stati potenziati i contratti già in essere con gli Enti gestori delle strutture, ampliando l’orario giornaliero ed estendendo l’accoglienza fino al 31 maggio. Le strutture del “piano freddo” con spazi ridotti sono state chiuse e sono stati individuati luoghi di accoglienza differenti.

Le persone senza dimora sintomatiche sono state spostate nell’immobile di Quarto Oggiaro in via Carbonia, struttura individuata ad hoc per il loro isolamento, composta da 49 appartamenti per un totale di 64 posti letto. Le persone risultate positive, ma asintomatiche sono state trasferite all’Hotel Michelangelo, il quale ha offerto 300 posti letto alle persone in uscita dagli ospitali positive che non potevano fare l’isolamento a casa, tra queste, i senza dimora.

Per la gestione dell’emergenza e l’attuazione di tutte queste innovazioni è stato messo a disposizione dal Comune di Milano un fondo di 2 milioni di euro, già approvato in precedenza e diventato un fondo di emergenza Covid-19.

 

Il Comune di Milano intende revisionare un sistema già ricco, con azioni di potenziamento e sistematizzazione. Tra queste ultime si annoverano le modifiche al CASC3, il quale necessita di un rapportopiù intenso con le strutture ordinarie ed emergenziali econ l’utenza. L’istituzione del punto sanitario di ascolto all’interno del sistema delle docce, prima assente, e adesso previsto nel sistema degli interventi milanesi, può essere, secondo quest’ottica, fondamentale. La città, per esempio, sta ragionando su come organizzare il nuovo piano Freddo. La chiusura delle strutture del 31 maggio è stata dolorosa per quelle persone che, da metà marzo, hanno vissuto mesi in un luogo che per quanto rischioso fosse, ha offerto loro un riparo, del cibo, un accompagnamento sanitario e sociale importante.

In ultimo, ma non meno importante, c’è anche il tema che riguarda l’espulsione dei centri di accoglienza per stranieri, sui quali la rete grave marginalità adulta sta lavorando insieme alle politiche di immigrazione per far sì che una volta accolte nelle strutture di bassa soglia, anche le persone prive temporaneamente di documenti in regola, possano accedere ai successivi percorsi di integrazione sociale.

Spunti dalle esperienze per l’elaborazione di nuove strategie di intervento

Gli scenari descritti, lungi dal voler individuare tutti gli snodi con i quali i servizi dovranno misurarsi in futuro, possono fungere da stimolo per elaborare nuove strategie di intervento e soluzioni concrete da mettere in atto.

 

In materia di sanità, si potrebbero strutturare unità congiuntamente gestite da professionalità sociali e sanitarie, che, con periodicità regolare, svolgano, senza barriere all’accesso, monitoraggi e screening gratuiti delle condizioni di salute delle persone senza dimora presenti in strada, interventi preventivi e di orientamento verso il sistema sanitario. Prevenzione potrebbe significare ridurre l’uso del pronto soccorso, ridurre la cronicità delle patologie e, di conseguenza, ridurre i costi dell’intero sistema. O ancora, si potrebbero individuare all’interno delle strutture ospedaliere e d’intesa con le autorità competenti, spazi che possano essere dedicati alla degenza delle persone senza dimora, impostando, in tali luoghi, dei protocolli di intervento congiunto tra personale sanitario e sociale, favorendo una degenza protetta e rafforzando la relazione di aiuto con la persona senza dimora. Il presupposto, tuttavia, dovrebbe essere quello di garantire la tessera sanitaria ed il medico di base anche alle persone prive di residenza. Per la garanzia di tali diritti, occorrerebbe peròrivisitare il concetto stesso di residenza (ancora oggi requisito necessario per l’iscrizione dei cittadini al Servizio Sanitario Nazionale).

 

In tema di accoglienza si potrebbero ridimensionare le strutture, superando la logica dei grandi edifici. Si potrebbe promuovere un sistema di accoglienza residenziale che contempli, oltre alle strutture di bassa soglia, anche i dispositivi HousingLed4 e HousingFirst. Entrambi i modelli partono dal concetto di “casa” come punto di partenza dal quale la persona senza dimora deve ripartire per avviare un percorso di inclusione sociale. La moltiplicazione di queste prassi, già testate in alcune città italiane, potrebbero costituire una sperimentazione di svolta.

 

Si potrebbe puntare sulla attivazione di un insieme coordinato di misure, dal supporto preventivo a situazioni che stanno per sfociare in sfratto – nella consapevolezza che il costo di un aiuto a pagare l’affitto per un certo periodo è molto più contenuto che il dover affrontare il problema una volta cronicizzato – all’implementazione di politiche volte a promuovere un uso molto più efficiente di tutto il patrimonio edilizio inutilizzato.

Data la carenza in Italia dei fondi per il sostegno alla locazione, il tema della sostenibilità economica degli alloggi rappresenta certamente la maggior criticità per l’implementazione di un approccio di questo tipo. Occorrerebbe, infatti, pensare alla possibilità di dedicare fondi5 (europei, nazionali, regionali e comunali) al mantenimento o alla costruzione di case per persone con uno scarso reddito. Tali azioni devono tener conto della concreta possibilità di edificare nelle diverse realtà territoriali, sulla base di una valutazione costi-benefici.

L’amministrazione pubblica potrebbe rafforzare gli spazi di co-progettazione delle politiche abitative tra pubblico e privato, coinvolgendo anche soggetti diversi rispetto ai tradizionali attori del welfare (es. enti proprietari di immobili, agenzie immobiliari, ecc.), che possano incrementare le risorse a disposizionee contribuire a dare risposte diversificate ai problemi abitativi. Questa strategia, tuttavia, risulta percorribilequalora siano attivabili meccanismi, misure nazionali e iniziative locali, che rendano conveniente ai soggetti profit investimenti coprogettati.

Gli enti coinvolti (Comuni ed enti del Terzo settore) potrebbero offrire garanzie e contributi a proprietari ed inquilini, per favorire la stipula di contratti di locazione convenzionata, o potrebbero mettere a disposizione fondi “salva sfratti”, consentendo agli inquilini di permanere all’interno degli immobili, mediante la rinegoziazione di un contratto convenzionato.

 

L’emergenza sanitaria si è rivelata un’occasione di riflessione e di maggiore considerazione della questione della grave emarginazione adulta, ancora oggi caratterizzata da diverse difficoltà.

Si renderà fondamentale la valutazione degli esiti delle pratiche messe in atto, per la programmazione e lo sviluppo di servizi sempre più adeguati nella cura ed in grado di rispondere ai bisogni delle persone.

  1. Modello di intervento sviluppatosi in America e diffuso successivamente in altri Paesi, che si basa sull’assunto principale che la casa è un diritto umano primario. È finalizzato, infatti, ad offrire alle persone senza dimora l’ingresso in appartamenti indipendenti.
  2. Sul tema è già stato pubblicato su questo sito, il 23 aprile 2020 “Il Comune di Milano in prima linea nel contrasto all’emergenza” di Daniela Mesini.
  3. Sul tema è già stato pubblicato su questo sito il 21 maggio “Combattere la povertà estrema: l’esperienza del Comune di Milano” di Eleonora Gnan.
  4. Si fa riferimento a servizi finalizzati all’inserimento abitativo, ma di più bassa intensità, durata e destinati a persone non croniche.
  5. Come già avviene con i Fondi dell’Avviso 4 del PON Inclusione, volti a finanziare diverse proposte di intervento (tra le quali l’Housing First e l’Housing Led) per il contrasto alla grave emarginazione adulta e alla condizione di senza dimora

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