Il Decreto Rilancio e i servizi sociali essenziali


Alceste Santuari | 4 Dicembre 2020

In questo periodo confuso e incerto, le good news rischiano di passare inosservate e, quindi, di non essere colte nelle loro potenzialità.

Intendiamo, in questa sede, riferirci alla previsione contenuta nell’art. 2-bis dell’art. 89 del d.l. 34/2020, convertito in legge n. 77/2020 (c.d. Decreto Rilancio). Poiché trattasi di una previsione normativa di interesse per l’organizzazione, la gestione e l’erogazione dei servizi sociali, riteniamo opportuno richiamarlo per esteso:

“2-bis. I servizi previsti all’articolo 22, comma 4, della legge 8 novembre 2000, n. 328, sono da considerarsi servizi pubblici essenziali, anche se svolti in regime di concessione, accreditamento o mediante convenzione, in quanto volti a garantire il godimento di diritti della persona costituzionalmente tutelati.  Allo  scopo  di assicurare l’effettivo e  continuo  godimento  di  tali  diritti,  le regioni e le province autonome di Trento e di  Bolzano,  nell’ambito delle loro competenze e della  loro  autonomia  organizzativa, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione  del  presente  decreto, definiscono le modalità per garantire  l’accesso e la continuità   dei   servizi   sociali, socio-assistenziali e sociosanitari essenziali di  cui  al  presente comma anche in  situazione  di  emergenza,  sulla  base  di  progetti personalizzati,  tenendo  conto  delle  specifiche   e  inderogabili esigenze di  tutela  delle  persone  più  esposte  agli  effetti  di emergenze e  calamità.  Le amministrazioni interessate provvedono all’attuazione del presente comma nell’ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente e, comunque, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.”

 

L’articolo in parola presenta diversi profili di interesse: di seguito, si intende analizzarne quattro, segnatamente: 1) l’attualità della legge di riforma dell’assistenza; 2) la definizione di servizi sociali quali servizi essenziali; 3) la situazione di emergenza in cui i servizi in oggetto devono essere assicurati; 4) il ruolo delle Regioni e, conseguentemente, il loro rapporto con lo Stato centrale.

 

L’attualità della legge di riforma dell’assistenza

L’art. 2-bis richiama il contenuto del comma 4 dell’art. 22 della legge n. 328/2000, che individua i seguenti servizi:

  1. servizio sociale professionale e segretariato sociale per informazione e consulenza al singolo e ai nuclei familiari;
  2. servizio di pronto intervento sociale per le situazioni di emergenza personali e familiari;
  3. assistenza domiciliare;
  4. strutture residenziali e semiresidenziali per soggetti con fragilità sociali;
  5. centri di accoglienza residenziali o diurni a carattere comunitario.

 

A ben vedere, si tratta di una pluralità di servizi, con le relative attività attuative, che definiscono gli interventi di welfare sul territorio. Il richiamo a questi servizi da parte del legislatore del 2020 conferma, da un lato, la bontà dell’impianto normativo del 2000 e, dall’altro, individua proprio in quei servizi gli interventi necessari per assicurare la piena fruizione dei diritti costituzionalmente garantiti.

Al riguardo, preme evidenziare che la legge in parola ribadisce la centralità dei Livelli essenziali delle prestazioni sociali e civili, che sia lo Stato sia le Regioni sono chiamati a garantire, nel rispetto delle proprie competenze. Proprio in ragione del ruolo fondamentale svolto dai Leps il comma 2-bis qui in commento non opera distinzioni tra i diversi istituti giuridici attraverso i quali vengono erogati i servizi che si intendono finalizzati ad assicurare la fruizione dei Leps medesimi. In quest’ottica, alla concessione e all’accreditamento, tipici istituti del comparto sanitario e socio-sanitario, si affianca anche quello della convenzione, oggetto, tra l’altro, della disciplina di cui all’art. 56 del Codice del Terzo Settore.

 

La definizione di servizi sociali quali servizi essenziali

In termini sintetici, si definiscono essenziali quei servizi pubblici che, anche in caso di sciopero, devono comunque essere garantiti. Ora questi sono identificati con le prestazioni di cui ai servizi sopra elencati, la cui organizzazione, in larga parte, rientra tra le competenze degli enti locali, anche ai sensi dell’art. 128, d. lgs. n. 112/1998 e, in taluni casi, tra quelle “integrate” di aziende sanitarie e Comuni.

In quest’ottica, la definizione di essenzialità dei servizi sociali è coerente con l’impianto eurounitario, secondo il quale costituiscono Servizi sociali di interesse generale quei servizi ritenuti “imprescindibili per garantire la coesione e lo stesso modello sociale a livello europeo”.  In questa cornice, ai servizi sociali (alla persona), i quali alla stregua dei servizi sanitari, indipendentemente dalla modalità di gestione, riguardano i diritti della persona in quanto tale e il suo diritto ad una vita migliore. Conseguentemente, ai servizi socio-assistenziali e sociosanitari deve essere riconosciuta una specificità, non rinvenibile in altri comparti di servizi, identificabile nei due seguenti elementi:

  1. i servizi alla persona non sono standardizzati, ma erogati in base ai bisogni e non in base a chi li eroga;
  2. i servizi sociali sottendono un’interazione personale di carattere peculiare e ad alto contenuto relazionale tra chi li produce e chi li riceve.

 

La riconducibilità dei servizi sociali nell’accezione giuridica di servizi pubblici essenziali ha anche una conseguenza più generale sulla modalità di erogazione dei servizi medesimi. Sia a livello europeo sia a livello nazionale, come è noto, non è uniforme la posizione nei confronti delle modalità di affidamento/gestione dei servizi alla persona. Essi, per molto tempo, sono stati oggetto di una costante oscillazione tra la natura di pubblico servizio delle prestazioni sociali e quella di attività economica tout court. Detta oscillazione ha indotto numerosi Stati membri a definire assetti giuridici ed istituzionali di “quasi mercato” dentro i quali collocare l’erogazione dei servizi sociali. Invero, avuto riguardo agli assetti giuridico-organizzativi di erogazione dei servizi, vi è da registrare un importante cambiamento, che incide altresì sul tema dei livelli essenziali delle prestazioni, concernente il diverso ruolo delle istituzioni pubbliche nell’erogazione dei servizi di interesse generale.  Invero, si è assistito, negli ultimi due decenni, ad una modifica rilevante nell’organizzazione, gestione ed erogazione dei servizi sociali e assistenziali. In passato, il soddisfacimento degli interessi generali avveniva attraverso l’assunzione della titolarità del servizio in capo alle istituzioni pubbliche, le quali provvedevano alla gestione ed erogazione dei servizi direttamente ovvero mediante affidamento degli stessi ad altri soggetti pubblici o privati. In epoca moderna, al contrario, le istituzioni pubbliche, e in specie gli enti locali, hanno incrementato la loro funzione di controllo e di supervisione di un sistema pluralistico di soggetti erogatori, che, secondo diverse modalità, più o meno istituzionalizzate, sono chiamati a concorrere alla realizzazione di finalità di pubblica utilità.

In questo senso, il Codice del Terzo settore, le interpretazioni giurisprudenziali, in particolare quelli della Corte costituzionale, nonché, da ultimo, le previsioni contenute nel c.d. Decreto Semplificazioni, hanno evidenziato la possibilità di approcciare l’organizzazione, gestione ed erogazione dei servizi sociali (e socio-sanitari) attraverso moduli giuridici che non trovano appiglio né formale né sostanziale nel Codice dei contratti pubblici. La previsione contenuta nel comma 2-bis dell’art. 89 del Decreto Rilancio sembra confermare l’impostazione cooperativa sancita nei diversi istituti giuridici previsti dall’ordinamento giuridico. Che si tratti di accreditamento, concessione ovvero di convenzione, gli enti pubblici, nel perseguimento delle finalità istituzionali, intendono coinvolgere quei soggetti che non solo condividano quelle finalità di natura collettiva, ma, in forza delle loro caratteristiche organizzative e di governance, siano effettivamente in grado di assicurare l’erogazione di servizi, che per loro stessa natura, devono essere aggiornati e adeguati alle istanze della società civile, e dei gruppi più vulnerabili della stessa.

 

La situazione di emergenza in cui i servizi in oggetto devono essere assicurati

Il legislatore nazionale si è preoccupato di definire una cornice normativa in cui collocare i servizi sociali essenziali che devono essere assicurati anche in presenza dell’attuale pandemia da Covid-19. Non si tratta della prima volta che il Parlamento interviene sul punto: già l’art. 48 del c.d. “Decreto Cura Italia” ha previsto la possibilità per gli enti locali e le organizzazioni senza scopo di lucro di continuare ad assicurare i servizi alla persona, anche attraverso la revisione dei termini e delle condizioni “di ingaggio” da realizzarsi ad esito di apposita co-progettazione tra committente pubblico ed erogatore non profit. L’emergenza sanitaria, dunque, non può tollerare improvvise interruzioni di servizi che, è il caso di ricordare, contribuiscono in modo decisivo alla tenuta del sistema di welfare comunitario. Ovviamente, tale condivisibile auspicio si scontra spesso con l’impossibilità oggettiva di accedere al servizio ovvero di erogarlo “in presenza” proprio a causa delle restrizioni imposte dalla pandemia in corso. Tuttavia, utilizzando l’istituto giuridico della co-progettazione, enti pubblici e soggetti del terzo settore possono condividere percorsi e modalità di erogazione dei servizi che salvaguardino e tutelino la fruizione dei livelli essenziali delle prestazioni socio-sanitarie.

Il ruolo delle Regioni e, conseguentemente, il loro rapporto con lo Stato centrale

La legge n. 328/2000 fu approvata in un contesto in cui alla stessa era stata assegnata la funzione di “legge-quadro”, in quanto le Regioni, nella cornice delineata dai principi contenuti nella legge, avrebbero dovuto successivamente provvedere alla sua implementazione. Una tale impostazione sarebbe stata superata e completamente rivista dall’approvazione della riforma del Titolo V della Costituzione, a seguito della quale alle Regioni fu attribuita la competenza legislativa primaria, inter alia, nel comparto dei servizi sociali, con l’eccezione del potere statuale di definire i livelli essenziali delle prestazioni sociali e civili (art. 117, comma 2, lett. m) Cost.).

 

In questo contesto, dunque, prima facie, risulta quanto meno anomalo che lo Stato centrale possa indicare alle Regioni un termine entro cui provvedere (termine peraltro scaduto, entro il quale non è dato conoscere alcun intervento regionale sul punto). Tuttavia, se si considera il precetto di cui all’art. 77 della Costituzione emerge che al cospetto della pandemia, considerata alla stregua di uno dei “casi straordinari di necessità e di urgenza”, è possibile derogare in via provvisoria all’ordine delle competenze legislative, con la traslazione del potere verso il Governo. Necessità e urgenza che seppure valutate dal Governo, che adotta uno specifico atto avente forza di legge, segnatamente, il decreto legge (come nel caso di cui si discute), rimangono sotto il fermo il controllo del Parlamento, che può intervenire molto tempestivamente a modificare il punto di equilibrio tra tutela delle libertà ed efficacia delle misure straordinarie stabilite dal Governo. Il “decreto Rilancio”, in questa prospettiva, ha dunque ritenuto che i servizi sociali, ora equiparati a servizi pubblici essenziali, siano “urgenti” e “necessari” al fine di non privare i cittadini italiani del loro diritto di fruire delle prestazioni che derivano dai servizi di cui all’art. 22 della legge n. 328/2000.

 

La disposizione contenuta nel comma 2-bis in parola rappresenta, al netto delle valutazioni di carattere costituzionale che si possono fare, un indubbio “pungolo” per le Regioni, che hanno la possibilità autonoma e piena di attivarsi affinché la previsione normativa di rango nazionale si traduca in un sistema armonico e organizzato di servizi, attività, progetti, interventi e prestazioni finalizzati ad incrementare la fruizione dei diritti di welfare e, conseguentemente, a potenziare la coesione sociale, obiettivo che in tempi di pandemia risulta a fortiori più importante che in altri momenti storici. Potrebbe essere questa l’occasione per accompagnare il percorso tracciato dal comma 2-bis con l’approvazione di linee guida ovvero di legislazioni ad hoc in materia di terzo settore e degli istituti collaborativi previsti dal Codice del terzo settore. In altri termini, si potrebbe ipotizzare che da una norma nazionale (come è stato ed è ancora l’art. 22, legge n. 328/2000) nascano tante implementazioni di carattere regionale, che potrebbero invero (forse, finalmente) realizzare i tanto attesi Leps a livello territoriale.