Il dibattito sul Reddito di cittadinanza: 5 semplificazioni


Remo Siza | 12 Dicembre 2022

Il dibattito sul Reddito di cittadinanza e sulle politiche di contrasto della povertà si sta sviluppando in termini molto riduttivi: non tiene conto dei dati prodotti da istituzioni come Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, l’Istat, INPS, Anpal, Eurostat, organizzazioni internazionali come l’Oecd e l’Ilo (International Labour Organization) e delle numerose ricerche accademiche realizzate in questi anni.

Il dibattito non riguarda gli aspetti critici del reddito di cittadinanza (quali, per esempio, la scala di equivalenza utilizzata per l’accesso e la definizione dell’entità del beneficio, le capacità operative dei centri per l’impiego e la loro relazione con i servizi sociali dei comuni, l’enfasi sul sistema sanzionatorio) ma aspetti più generali che riguardano la sostenibilità finanziaria della misura, i suoi effetti sulla motivazione al lavoro e sulla crescita della dipendenza dei beneficiari dai benefici economici, le distinzioni tra poveri che meritano aiuto e poveri che si ritiene non si impegnino nella ricerca di un lavoro. Nel dibattito, cinque semplificazioni sono particolarmente evidenti.

  1. Prima semplificazione: il reddito di cittadinanza è un vitalizio, una sorta di sussidio erogato da 18 anni fino alla pensione. In realtà, nella maggioranza dei casi chi ha un reddito al di sotto di una soglia convenzionale di povertà, e pertanto ha diritto a ricevere il reddito di cittadinanza, non rimane nella stessa condizione per molto tempo. La povertà si misura sulla base del reddito, dei consumi, di indicatori non monetari comprendendo inevitabilmente storie di vita molto differenti, condizioni fluide e deprivazioni stabili nel tempo. Le deprivazioni spesso diventano stabili e si cronicizzano (penso per esempio ad una disabilità, ad una dipendenza o un disturbo mentale) quando non sono affrontate con strumenti sociali e sanitari adeguati. I dati che annualmente ci fornisce l’European Statistics on Income and Living Conditions (EU-SILC) ci dicono che circa il 45% degli episodi di povertà si conclude entro un anno e il 70% entro tre anni, circa il 14% dura tre anni o più. La fluidità di una condizione si riflette nell’accesso ai benefici economici. L’INPS rileva che nei primi dieci mesi del 2022 sono decaduti dal diritto a ricevere il reddito di cittadinanza oltre 264mila persone: nell’anno 2021 sono decaduti 307mila e 233mila persone nel 2020. La causa di decadenza più frequente è legata alla variazione dell’ISEE. Già negli anni Ottanta del secolo scorso Bane e Ellwood (1986) sostenevano che le misure nazionali di contrasto della povertà si configurano come “un ponte” che aiutano ad uscire dalla povertà: se l’intervento è tempestivo e adeguato nella maggioranza dei casi le famiglie riescono a raggiungere il loro obiettivo in pochi mesi o pochi anni in quanto dopo un evento negativo riescono a migliorare la loro condizione, in altri casi, meno frequenti, il superamento di una condizione di povertà può richiedere tempi più lunghi.

 

  1. Seconda semplificazione: il povero è responsabile della sua condizione. Le cause strutturali della povertà sono scomparse nel dibattito sulla povertà e sul reddito di cittadinanza. In Italia persistono rischi strutturali di povertà molto elevati che coinvolgono gruppi molto ampi di persone e che non dipendono da scelte individuali. Per esempio, livelli di salario molto spesso inferiori alla linea convenzionale di povertà, la precarietà lavorativa, la condizione dei working poor, il costo degli affitti, costituiscono rischi strutturali di povertà. L’incidenza della povertà in Italia è molto più alta della media europea. Nessuna colpa è attribuita alle dinamiche prevalenti nel mercato del lavoro, alle trappole del lavoro nero, alla assenza di mobilità sociale per le persone che provengono da famiglie con basso reddito, al sistema dell’istruzione. Così come prevede la Legge di Bilancio per l’inserimento lavorativo delle persone ritenute occupabili fra i beneficiari del reddito di cittadinanza (persone di tra i 18 e i 59 anni che vivono in famiglie senza disabili, minori o anziani) si ritiene sufficiente avviare percorsi formativi e politiche di attivazione di pochi mesi dando per scontato che queste politiche creino rapidamente l’occupabilità di questi soggetti e soprattutto che il sistema produttivo sarà in grado di creare posti di lavoro anche per loro.

 

  1. Terza semplificazione: è necessario sostituire il beneficio economico con politiche di attivazione. Il reddito di cittadinanza è definito una sorta di «metadone di Stato» che crea dipendenza e passività, non migliora una condizione di deprivazione e lascia le persone nella condizione in cui si trovano. L’alternativa sono le politiche di attivazione, i corsi di formazione, la creazione di lavoro. Come è noto, in tutti i paesi europei esistono ormai da decenni misure di contrasto della povertà (Sozialhilfe in Austria; Revenue d’integration in Belgio; lo Starthjalp in Danimarca; l’RSA in Francia, l’Universal Credit nel Regno Unito) che hanno una doppia funzione: di protezione e di attivazione. In queste misure il supporto economico è il prerequisito di ogni percorso di attivazione, è parte di un percorso di recupero alla vita lavorativa, crea una sorta di sicurezza economica transitoria che consente di partecipare ad iniziative di riqualificazione professionale e progetti di lungo periodo. È evidente che per le persone immediatamente occupabili e appetibili per il mercato del lavoro il sussidio economico sarà erogato per pochi mesi e sostituito da un più dignitoso reddito da lavoro.

 

  1. Quarta semplificazione: la maggioranza dei poveri non ha voglia di lavorare. Il sussidio è immorale per tutti quelli che sono in condizioni di lavorare. Solo alcuni poveri, pochi, sono ritenuti meritevoli, in quanto si trovano in questa condizione a causa di circostanze di carattere collettivo (per esempio, la chiusura di una grande azienda). Gli altri si ritiene che abbiano in gran parte valori e comportamenti moralmente riprovevoli che sono la causa primaria del loro stato. Create le distinzioni tra poveri meritevoli e poveri che non meritano aiuto, la gestione della povertà richiede soprattutto strumenti più di controllo e sorveglianza che di welfare. Così l’Inps durante le verifiche per evitare frodi procede alla sospensione preventiva dell’erogazione delle mensilità lasciando senza reddito i beneficiari (a ottobre circa 70mila). Per le famiglie degli immigrati (77mila su un milione di famiglie beneficiarie) la sorveglianza è ancora più severa a livello delle commissioni Inps e dell’attività dei centri per l’impiego. In realtà, molti poveri (e molti percettori del reddito di cittadinanza) lavorano, ma non basta lavorare per non essere poveri! In Italia circa l’11,8% dei lavoratori sono poveri, in Europa il 9,2%; circa il 25% dei lavoratori percepisce una retribuzione inferiore al 60% della mediana e più di un lavoratore su dieci è in condizione di povertà. L’ANPAL (2022) rileva che i beneficiari del reddito di cittadinanza indirizzati ai servizi per il lavoro sono 919.916. Di questi, 173mila (18,8%) risultano occupati. Oltre la metà dei beneficiari occupati, il 53,5%, ha un contratto di lavoro a tempo indeterminato o in apprendistato. Fra tutti i beneficiari che lavorano con contratti a tempo determinato (il 39,2%), oltre la metà ha un contratto con durata pari o inferiore a 6 mesi. Il 72,8%, dei 660mila beneficiari soggetti al patto per il lavoro (dunque non occupati, non esonerati e non rinviati ai servizi sociali) non ha avuto un contratto di lavoro subordinato o para-subordinato negli ultimi 3 anni.

 

  1. Quinta semplificazione: niente cambia per le persone non occupabili affidate ai servizi sociali. Nel dibattito pubblico il supporto economico alle persone più fragili non è messo in discussione, e questo è un fatto positivo, ma nulla si prevede per organizzare in termini differenti i progetti di inclusione sociale. L’INAPP (2022) ha rilevato che sono 336mila le famiglie, contattate dai comuni, che sono state avviate al percorso del patto per l’inclusione, di queste per ora solo 1/3 l’ha sottoscritto. Conseguentemente, sono pochi gli intervistati a cui è stato proposto un PUC (Progetto di Utilità Collettiva): poco meno del 20% ha cominciato a parteciparvi, per il 38% non sono ancora iniziati e il 42% non ha ancora ricevuto un invito alla sua sottoscrizione. Ciò di cui si sente la necessità è di una riflessione e un confronto pubblico sulla efficacia delle attuali politiche di inclusione al fine di delineare strategie di integrazione che tengano conto della complessità delle situazioni personali, capaci di comporre una pluralità di interventi sociali e sanitari, di attivazione di risorse personali, di cura e di accompagnamento sociale. Superando la sotterranea rassegnazione sugli esiti degli interventi che spesso accompagna questi progetti. Il fallimento di frettolose politiche attive costituisce spesso la giustificazione per erogare solo politiche passive di supporto al reddito non sufficienti per superare una condizione di deprivazione economica, ma che comunque assicurano un controllo e una fragile integrazione.