Il piano Von der Leyen per il superamento delle convenzioni di Dublino

I nodi irrisolti della costruzione europea


Maurizio Ambrosini | 5 Ottobre 2020

Il pronunciamento di Ursula Von der Leyen sul superamento degli accordi di Dublino per l’accoglienza dei rifugiati aveva suscitato grandi speranze, specialmente nel nostro paese, ma le anticipazioni dei contenuti del piano, le uscite pubbliche che le hanno accompagnate e le reazioni da parte di alcuni governi nazionali hanno dimostrato che la strada sarà lunga, impervia, incerta nel suo esito finale.

 

Per sviluppare un’analisi ragionata delle nuove linee delle politiche europee su un tema così scottante e divisivo, occorre partire da alcuni dati che si discostano alquanto dalle rappresentazioni correnti del fenomeno.

Noi pensiamo che una più equa distribuzione degli oneri di accoglienza dovrebbe sgravare l’Italia da un fardello iniquo, ossia dai compiti di accoglienza dei profughi e di esame delle istanze di protezione umanitaria affidati ai paesi di primo ingresso.

La regola, elaborata nel ’90, all’indomani dello scongelamento del blocco sovietico, vedeva in prima fila paesi come Germania e Austria, e quindi non aveva trovato grandi resistenze da parte italiana. Nel periodo successivo, quando si sono intensificati gli arrivi dalle rotte del Mediterraneo e dei Balcani, Grecia e Italia hanno visto crescere gli arrivi, ma li hanno gestiti favorendo il transito verso l’Europa centrale e settentrionale. Dal 2015 però l’accordo europeo che ha imposto l’istituzione dei cosiddetti hotspot nei luoghi di primo arrivo e la contemporanea chiusura degli accessi da parte degli Stati confinanti hanno fatto crescere i numeri dell’accoglienza sul nostro territorio, così come in Grecia. Hanno funzionato assai poco invece gli accordi di redistribuzione pure previsti, e lasciati sostanzialmente facoltativi: appena 13.000 ricollocati dall’Italia e poco più di 20.000 dalla Grecia. La situazione però è cambiata ancora con gli accordi con i paesi extra-UE situati sui percorsi dei profughi: Turchia, Niger, e soprattutto per quanto ci riguarda, Libia. Dall’estate 2017 gli arrivi sulle nostre coste sono drasticamente calati, e quindi le richieste di asilo in Italia.

 

Se prendiamo dunque i dati sulle richieste di asilo nell’UE nel 2019, l’Italia resta lontana dalle prime posizioni: 35.000 istanze su 675.600, poco più del 5%, contro 142.000 per la Germania, oltre 100.000 per Francia e Spagna, 75.000 per la Grecia, 44.000 per il Regno Unito. Il problema del sovraccarico della sponda sud-orientale dell’UE è stato a suo modo risolto con l’esternalizzazione del controllo delle frontiere. Neppure il dato cumulativo servirà molto al tavolo negoziale per rafforzare le rivendicazioni italiane: secondo l’Unhcr, a fine 2019 il nostro paese accoglieva 3,4 tra rifugiati e richiedenti asilo ogni 1.000 abitanti, contro circa 25 della Svezia, 18 di Malta, 15 dell’Austria, 14 della Germania, 6 di Danimarca, Grecia e Francia. L’idea largamente invalsa (da noi) di un’Italia lasciata sola da un’Unione europea indifferente non sarà facile da far condividere in sede europea.

 

La definizione di una nuova politica comunitaria sull’asilo (non sull’immigrazione, come spesso si sente ripetere: gli immigrati sono una popolazione molto più ampia e variegata) deve poi fare i conti con alcuni nodi irrisolti della costruzione europea. Il primo e fondamentale consiste nello statuto conferito ai diritti umani fondamentali, specialmente se posti a confronto con la rigida affermazione delle regole a tutela del mercato interno e della concorrenza. L’UE difende molto più convintamente le quote latte, ed eventualmente ne sanziona l’inosservanza, rispetto ai diritti umani e all’asilo, che pure proclama di tutelare. Da questo vizio di fondo discende la “solidarietà facoltativa” tra gli Stati membri, che la bozza di piano non riesce a superare. Chi non vuole accogliere i richiedenti asilo potrà continuare a tenerli fuori dai suoi confini, contribuendo alle spese di accoglienza in altri paesi, oppure facendosi carico dei rimpatri.

Sono sostanzialmente le proposte del premier ungherese Orbán e del gruppo di Visegrad. Se ne avverte il peso, una sorta di veto preventivo, già nella formulazione delle proposte. E qualcuno già si domanda che cosa accadrà se tutti i governi opteranno per soluzioni che non li obblighino all’accoglienza sul proprio territorio.

 

Un altro nodo irrisolto che incombe sul futuro del piano riguarda la difesa dei confini e l’accesso all’UE da parte di chi vorrebbe entrarvi provenendo dalla parte povera del mondo. Qui la questione dell’asilo si raccorda necessariamente con una nuova politica dell’immigrazione per lavoro, come ha riconosciuto la stessa von der Leyen. Del resto il suo paese, la Germania, ha già cautamente riaperto le porte, a determinate condizioni, ai lavoratori non comunitari con qualificazioni di livello intermedio.

Per alleggerire il flusso dei richiedenti asilo è necessario offrire delle alternative, rappresentate principalmente da quote ragionevoli di ingressi legali per lavoro. Magari inizialmente stagionali, poi dopo un certo numero di anni di osservanza delle norme sul rientro alla scadenza del permesso, trasformabili eventualmente in soggiorni stabili.

 

La presidente della commissione UE ha dimostrato di rendersi conto del problema. Indirettamente ha anche indicato una possibile risposta, seppure in una cornice securitaria e minacciosa: gli accordi con gli Stati di origine, di qualunque natura, dovranno prevedere degli impegni chiari di riammissione dei loro cittadini espulsi. Ma per far accettare questi accordi, si dovranno concedere in cambio delle quote di ammissione di lavoratori autorizzati. Una posizione ricattatoria nei confronti di paesi più deboli potrebbe condurre paradossalmente a una riapertura all’immigrazione legale fin qui osteggiata.

 

Il piano della commissione UE insiste molto sui rimpatri, forse il termine più ricorrente nelle anticipazioni fin qui circolate. Prevede un filtro all’arrivo, con la separazione tra chi ha diritto all’asilo e chi, in base al paese di provenienza, viene classificato come immigrato irregolare da espellere. Coinvolge le autorità di altri Stati nella gestione delle procedure di identificazione, selezione, trattenimento ed espulsione, configurando una sorta di problematica extraterritorialità dei luoghi di frontiera. Non offre però un percorso chiaro su come arrivare legalmente sul territorio dell’UE per chiedere asilo, riproducendo in tal modo il paradosso di un diritto di asilo affermato in teoria, ma contraddetto in pratica dalle norme per il contrasto dell’immigrazione illegale. Apertura di ambasciate e consolati alle richieste di asilo, reinsediamenti dei profughi accolti in paesi confinanti, corridoi umanitari per l’arrivo in condizioni sicure sul territorio dell’UE dovrebbero sostituire i rischiosi viaggi della speranza.

 

Un’ultima questione solleva un dubbio sulla sensatezza della redistribuzione obbligatoria dei profughi. Ci si deve domandare se abbia senso spedire forzatamente in Romania o in Ungheria delle persone che sarebbero probabilmente mal accolte in quei paesi, mentre aspirano a insediarsi in paesi più ricchi di opportunità. I profughi verrebbero trattati come scarti ingombranti e sgraditi, da redistribuire per quote con maggiore equità, ma senza prestare ascolto alla loro voce. Ursula von der Leyen ha almeno in parte ammesso che la redistribuzione alla cieca non è la migliore delle soluzioni possibili, aprendo alla possibilità di consentire il ricongiungimento con i familiari già insediati in un determinato paese e al riconoscimento di competenze linguistiche ed esperienze lavorative precedenti. Bisognerà andare oltre, con realismo, ascoltando le aspirazioni dei profughi circa il luogo dove intendono ricostruire la propria vita e ammettendo che non sbagliano quando pensano di poter trovare maggiori possibilità in Germania o in Svezia che nei paesi periferici dell’UE. Del resto, si può aggiungere, tenderanno in ogni caso a dirigersi spontaneamente verso le destinazioni che a loro appariranno migliori. Meglio consentire una libertà di scelta, socializzando i costi dell’accoglienza a livello comunitario. I paesi dell’Est e del Sud dell’UE saranno prevedibilmente sollevati da una parte degli oneri di accoglienza, ma per scelta dei rifugiati e non secondo logiche imposte dall’alto.

 

Che il piano UE abbia rilanciato il dibattito è una buona cosa, ma le sue ambizioni rimangono contratte, condizionate in partenza dalle prevedibili resistenze. Dobbiamo auspicare che trovi per strada lo slancio di cui ha bisogno per ridare all’Europa lo statuto di faro dei diritti umani nel mondo.