2.2. Non dove li troviamo ma come li spendiamo


Può sembrare paradossale, vista la condizione drammatica delle nostre finanze pubbliche, ma il paese avrà a disposizione nel giro di poche settimane una grande quantità di risorse per sostenere e rilanciare la propria economia, in una dimensione del tutto impensabile fino a pochi mesi fa. L’Unione Europea ha infatti già messo sul tavolo, o si appresta a farlo, risorse complessive nell’ordine di centinaia, forse addirittura migliaia, di miliardi. Ed è indubbio che una quota non marginale di queste risorse affluirà al nostro paese. Sia per le sue dimensioni; sia perché è tra i più duramente colpiti dall’epidemia; sia infine perché è quello che ne ha più bisogno, avendo difficoltà ad accedere al mercato ai tassi bassi e per i tempi lunghi necessari per affrontare una crisi dalle dimensioni eccezionali come quella innescata dal Covid-19.

 

È bene essere chiari. Si tratta e si tratterà in buona parte di soldi presi a prestito, sia pure ai tassi straordinariamente bassi che le varie istituzioni comunitarie (UE, BEI) o intergovernative (MES) riescono ora a spuntare sul mercato e che verranno trasferiti senza quasi oneri aggiuntivi al nostro paese. Il problema della sostenibilità del debito pubblico diventerà dunque ancora più formidabile, visto che le previsioni del DEF 2020 già lo danno attorno al 155% del PIL, un livello mai raggiunto prima nella storia del nostro paese in condizioni di pace. L’impegno straordinario assunto dalla BCE, che finirà per assorbire tramite la Banca d’Italia oltre un quarto del debito italiano entro la fine dell’anno, è uno degli elementi chiave per garantirne la sostenibilità nel breve periodo. Ma in un periodo più lungo questa non può che basarsi sul rilancio della economia, che molto dipenderà dalla nostra capacità di sfruttare al meglio le risorse che l’Europa ci mette a disposizione.

È un’occasione storica per affrontare i problemi strutturali ed eliminare le strozzature che hanno condannato l’Italia per anni ad una crescita anemica, inferiore a quella dei nostri partner europei. Visto che i tassi di interesse rimarranno probabilmente molto bassi ancora a lungo, una ripresa ragionevole della crescita economica consentirebbe di porre il rapporto debito/PIL su una traiettoria decrescente, condizione necessaria per un’ulteriore riduzione dello spread e dunque di un’evoluzione virtuosa delle finanze pubbliche nel medio periodo.

Le risorse europee

E qui cominciano i veri problemi: come useremo queste risorse? Le nostre difficoltà in termini di capacità di progettazione e di spesa a fronte di risorse disponibili è ben nota e c’è quindi il rischio, serio, che queste risorse vengano ancora una volta sprecate. Sarebbe un errore fatale che potrebbe portare il paese verso un declino inarrestabile anche se rimanesse all’interno dell’Unione Europea, a maggior ragione se le forze sovraniste riuscissero ad approfittare dell’occasione per spingerlo fuori.

Ma entriamo un po’ più nel dettaglio. Anche tralasciando il Fondo di ricostruzione europeo (che è in corso di contrattazione tra la Commissione e i diversi paesi e che comunque – a regole invariate – non sarà disponibile fino all’inizio del nuovo ciclo di programmazione del bilancio europeo, cioè nel gennaio 2021), l’Unione Europea ha già messo a disposizione dei paesi europei oltre 500 miliardi di euro, con l’impegno politico di rendere tutti questi strumenti attivabili fin dal 1 giugno 2020, cioè fra meno di quattro settimane. Questi fondi comprendono gli interventi della BEI, il nuovo meccanismo SURE, la ridefinizione dei fondi strutturali ancora non spesi (proprio quelli che l’Italia fatica storicamente a spendere), la nuova linea di credito prudenziale attivata dal MES. Consideriamo questa ultima: se saranno superati i problemi politici e tecnici che ancora rendono l’uso di questo strumento problematico per l’Italia, il paese avrà a disposizione fino a 36 miliardi di euro, con l’unica condizionalità che questi soldi devono essere spesi per affrontare l’emergenza sanitaria e le spese connesse. Come potrebbero essere spesi efficacemente questi soldi?

Intanto vale la pena sottolineare che questi fondi si aggiungeranno a quelli che il governo nazionale ha già messo sul piatto dell’emergenza, alzando il finanziamento del Servizio Sanitario Nazionale per il 2020 di 3,2 miliardi aggiuntivi, arrivando a quasi 120 miliardi di euro. Questo finanziamento aggiuntivo va per la metà al Fondo emergenze nazionali e per l’altra metà ad una serie di interventi che includono già, per esempio, 20 mila nuove assunzioni e l’aumento dei posti letto in terapia intensiva e nelle unità di pneumologia e malattie infettive. Trovarsi a spendere all’improvviso fino al trenta per cento in più senza buttare i quattrini non è affatto banale; ed è bene cominciare ad avanzare qualche idea e calcolare quanti soldi ci servono per realizzarla.

 

Il MES e gli investimenti necessari in Sanità

Una prima linea di riflessione riguarda ovviamente le cure territoriali. L’evidenza ci dice che l’impatto del Covid-19 è stato decisamente meno drammatico laddove le regioni sono riuscite a curare i pazienti sul territorio, evitando l’accesso agli ospedali. Poiché purtroppo l’emergenza non è finita e comunque non sarà probabilmente l’ultimo caso di una crisi epidemica, dobbiamo farci trovare preparati per il futuro. Da questo punto di vista, un attore cruciale sono i medici di base. Al momento (consuntivo 2018), l’intera medicina convenzionata costa tra i 6 e i 7 miliardi all’anno. Raddoppiare il numero di medici di base costerebbe quindi un sesto circa dei famosi 36 miliardi. Ma se aumentare in qualche misura il numero dei medici di base a regime è sensato, prima di farlo sarebbe opportuno investire di più nella loro formazione, identificando una nuova figura che davvero sappia “prendere in carico” i pazienti e gestirne i percorsi di cura. Questo chiama in causa investimenti nelle università, in particolare nelle Facoltà di Medicina e Chirurgia, che devono prima definire i percorsi formativi per una nuova specializzazione in Medicina territoriale che possa formare queste nuove figure, se necessario rafforzando il corpo accademico preposto. Se le università fossero rapide nel definire il progetto, si potrebbe cominciare già con l’Anno Accademico 2021-2022: immaginare di aggiungere 1000 borse di specializzazione per queste figure (un numero importante, se si pensa che al momento le borse di specializzazione sono solo 8000) vorrebbe dire spendere all’anno circa 20 milioni dei 36 miliardi di euro del MES, che diventerebbero 60 milioni quando – dopo qualche anno – gli specializzandi completeranno la loro formazione.

 

Ma il territorio è fatto anche di Residenze Sanitarie Assistenziali, che si sono dimostrate un anello debole della catena di gestione della pandemia, soprattutto nelle regioni in cui maggiore è stata la pressione sulle strutture ospedaliere. L’alternativa alle RSA è l’assistenza domiciliare, una serie di servizi forniti dalle ASL al domicilio dei pazienti. La figura professionale chiave in questo caso è quella dell’infermiere; e il nostro paese ha un rapporto tra medici e infermieri sbilanciato a favore dei primi, soprattutto in alcune aree del paese. Assumere 10 mila infermieri (un quinto di quelli che mancano secondo il sindacato di categoria) potrebbe costare 500 milioni di euro all’anno. Medici di base ed infermieri sarebbero peraltro importanti per dare finalmente sostanza alle cure territoriali in un paese che sta rapidamente invecchiando e deve gestire il problema della cronicità.

 

Per quanto riguarda l’ospedale, abbiamo già aumentato (e di molto) le dotazioni di posti letto in terapia intensiva. Anche con la fine, speriamo prossima, dell’epidemia Covid 19, l’esperienza ci ha insegnato che un po’ di capacità produttiva in eccesso va mantenuta per aumentare la resilienza del sistema. Ma i letti sono inutili se non c’è il personale che li segue; e la figura chiave in questo caso sono gli anestesisti-rianimatori. Una figura difficile da trovare in Italia, anche per errori di programmazione. Puntare su queste figure richiede di nuovo un aumento della formazione e delle borse di specializzazione prima e, a regime, un investimento di circa 1 miliardo all’anno per 1000 professionisti. Fatte le dovute somme, rafforzamento della formazione, medici di base, infermieri e anestesisti porterebbero a una spesa addizionale, anche a regime, comunque molto distante dai 36 miliardi. Queste sono comunque alcune delle spese indifferibili che si sentiremmo di suggerire per rafforzare il sistema sanitario in previsione della prossima pandemia.

 

Quello che invece non si dovrebbe fare è approfittare dell’improvvisa e temporanea abbondanza di risorse per tornare indietro nel processo di ristrutturazione della rete ospedaliera, che richiede invece idee chiare sugli investimenti in strutture nuove e nell’ammodernamento di quelle che si vogliono mantenere. Alcuni Presidenti di regione per esempio hanno già cominciato a parlare di riaprire i piccoli ospedali. Sarebbe un errore. Le ristrutturazioni e le chiusure degli anni passati non sono state guidate da una presunta mancanza di fondi, ma dalle numerose evidenze che mostrano un netto peggioramento della qualità dell’assistenza al ridursi dei volumi trattati. Il problema dell’accesso alle cure per le aree rurali del paese (e ne abbiamo tante) deve essere gestito in modi innovativi, tutti da disegnare: non tornando indietro, ma andando avanti. Al di là delle emergenze, è meglio spostare le persone con servizi appositi che non avvicinare loro gli ospedali; è meglio creare squadre di professionisti mobili che periodicamente vadano sul posto per erogare i servizi che servono in strutture snelle piuttosto che riaprire costosi ospedali inefficienti. Difficile quantificare i fabbisogni, ma spendere bene si può e si deve.


Commenti

Sono d’accordo, la domanda giusta è come li hanno spesi?
Secondo me questi sono problemi vecchi e mai risolti, e’ come un cane che si morde la coda, è inaccettabile-improponibile parlare sempre degli stessi problemi del comparto sanità che è sempre stato correlato all’economia. Gli organigrammi sono fermi e obsoleti per il nuovo millennio. I bisogni reali si intercettano solo con i dati, le richieste, i reclami, le denunce e con i questionari. La sanità è il sociosanitario

Prima di bruciare soldi raddoppiando i medici di base, va informatizzato il rapporto tra medico e paziente. Nel 2020 è impensabile non poter svolgere via internet tutta una serie di attività “time consuming” (richiesta e ritiro ricette, prenotazione visita ambulatoriale o domiciliare, invio referti, etc).

Troppo facile commentare la questione. Sono soldi che vanno restituiti quindi niente altro che debito pubblico solo con tassi più bassi. Quindi come tutta la spesa pubblica va indirizzata bene non solo dove rende ma dove SERVE. E in questo caso deve in primis servire a rafforzare le tutele dei cittadini cioè i servizi che la sanità pubblica offre. Servizi troppo spesso scadenti e legati a soprusi di una classe medica molto legata alla politica e al potere. Si potrebbe approfittare per risanare la sanità togliendola dalle grinfie della politica e degli affaristi è dimostrato tanto per citare un esempio come in molti casi il ticket sanitario riesca ad essere superiore alla spesa della stessa prestazione presso le strutture sanitarie private. Sono tutti temi non strettamente legati ai soldi da spendere ma a come riformare un Sistema completamente inadeguato anche nelle regioni che si ritenevano all’avanguardia e dove si scopre che l’SSN si accolla i servizi che non sono redditizi. infine che arrivino tanti soldi non è detto che debbano essere per forze presi dato che non sono gratis e quindi prima si pianifica cosa serve e poi si chiedono i prestiti e NON IL VICEVERSA!!!

Una conseguenza positiva del Covid-19 è certamente la rapidità con la quale la PA ha adottato le tecnologie digitali. Dopo anni di attese, nel giro di pochi giorni la ricetta online è divenuta realtà: basta andare in farmacia e ritirare quel che serve; tutto dematerializzato.

Non sono convinta che i piccoli ospedali fossero inutili. Credo che siano inutili le strutture carenti di attrezzature o fatiscenti, magari con personale non adeguatamente formato, aggiornato, motivato, ma questo può succedere anche a una piccola equipe di assistenza domiciliare se non è gestita bene. A Genova in 40 anni hanno ridotto a 5 i reparti di maternità nei diversi ospedali (di cui 4 oltre il ponte caduto) ma questo mi sembra che abbia solo reso più agguerrita la lotta per il potere nei posti di comando. Con lo strozzamento del traffico sarei curiosa di sapere quante partorienti si son si son dovute fermar per strada o hanno avuto bisogno dell’elisoccorso perchè l’autoambulanza non poteva arrivare. A Maratea la chiusura dell’ospedale ha significato la perdita della camera iperbarica in una zona piena di sub che esplorano grotte fra le rocce. Chissà quanti altri esempi di servizi utili che son stati sacrificati all’economia.
Comunque vorrei ricordare che il nostro paese aveva il sistema più efficiente e più capillare di tutta Europa nell’organizzazione territoriale delle strutture per la lotta alla tubercolosi, orientato sia alla cura, sia alla prevenzione primaria e secondaria e forse può essere utile anche imparare dall’esperienza passata.