Il rischio di “sindrome di Stoccolma” nei partenariati delle coprogettazioni


Ugo De Ambrogio | 25 Marzo 2022

Questo articolo si riferisce al momento in cui un tavolo di coprogettazione è stato costituito e i soggetti partecipanti si trovano a lavorare assieme realizzando quella che potemmo chiamare la “coprogettazione vera e propria”. Ebbene, una volta composto tale tavolo, la co-costruzione del progetto che in quella sede si svolge può essere anche fortemente influenzata dalla qualità delle relazioni che vengono messe in campo fra gli attori e una maggiore o minore passività o proattività di questi influenzano con evidenza l’efficacia del processo di progettazione condivisa.

Per sviluppare questo tema utilizzo la teoria delle “posizioni esistenziali” elaborata da E. Berne e F. Ernst in Analisi Transazionale, (cfr. Berne ed Ernst)1.

Secondo questa teoria, molto nota, le persone si pongono nelle relazioni secondo diverse modalità schematizzabili in Io Tu / Ok, Non Ok. Ebbene, applicando questo schema ai soggetti pubblici e del Terzo settore, nelle coprogettazioni, possiamo trovarci (assumendo il punto di vista del pubblico) nelle posizioni dello Schema 1.  

Schema 1

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Oppure, assumendo il punto di vista del terzo settore, nelle posizioni descritte nello Schema 2.  

Schema 2

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In particolare, in questo contributo l’attenzione è focalizzata su quanto può avvenire, assumendo il punto di vista del Terzo settore, quando ci si trova nel quadrante 1 della schema 2 ovvero in una posizione Tu pubblico vai bene (sei OK), io Terzo settore non vado bene (non sono OK). Mi soffermo su questo aspetto perché mi è capitato più volte, come facilitatore di gruppi di coprogettazione, di incappare in esperienze che andavano assumendo queste caratteristiche, disfunzionali e non utili allo sviluppo di progetti ricchi e di qualità.

Possiamo usare (provocatoriamente) il concetto di “sindrome di Stoccolma” del Terzo settore nei confronti del Pubblico. La “sindrome di Stoccolma” si verifica quando viene creato un legame tra un ostaggio e un rapitore per cui l’ostaggio difende il rapitore dalle forze dell’ordine. In un recente articolo G. Kohlrieser, un consulente americano che lavorò per le forze dell’ordine USA come negoziatore di ostaggi, utilizza la “sindrome di Stoccolma” anche nella descrizione dei rapporti organizzativi: “come processo che si manifesta spesso nei rapporti fra enti, società, aziende, e si traduce in scarse prestazioni e causa di stress, mancanza di ispirazione e scarsa creatività”. (cfr Kohlrieser 20222).

Mi è capitato spesso, come consulente e facilitatore di processi di coprogettazione di incappare in riunioni con un’armonia apparente e quasi eccessiva, nelle quali i partecipanti si trovavano sempre d’accordo, privi di conflitti, senza alcune espressione di dissenso o disaccordo. Si tratta di circostanze dove si può applicare il concetto di “sindrome di Stoccolma organizzativa”. In effetti, quando un gruppo di coprogettazione ha un processo privo di conflitti, senza alcuna espressione di differenze e disaccordi, può esserci un problema che può passare inosservato in alcune organizzazioni: una sudditanza psicologica del Terzo settore. Ciò, in verità, si può manifestare anche a parti invertite, (anche se più raramente, stando alle mie esperienze) ovvero in una relazione dove i vissuti del Pubblico sono: io non vado bene (non OK), mentre tu, Terzo settore, vai bene (sei OK); si tratta del quadrante 1 dello schema 1. È una situazione speculare a quelle che qui stiamo esaminando.

Evoco la “sindrome di Stoccolma” perché è una metafora provocatoria, potente, giacché si basa sull’istinto di sopravvivenza messo in atto per evitare di essere uccisi o feriti. Nelle situazioni organizzative questa sindrome si verifica quando c’è una mancanza di sicurezza psicologica per autorizzarsi a parlare liberamente, c’è tolleranza di comportamenti asimmetrici, ci può essere anche un sentimento di impotenza. I legami tra il conduttore e i partecipanti, a volte sono così controllanti che le persone hanno paura di esprimersi. Le parti coinvolte possono essere contrarie al conflitto o troppo preoccupate di ferire o essere ferite. In diverse coprogettazioni ho avuto la sensazione che il Terzo settore (o più raramente il pubblico) si potesse sentire in questa condizione, ovvero come un ostaggio psicologico; questo può essere indicato anche dalla quantità di conflitto presente: troppo poco! Quando un gruppo di lavoro ha un processo quasi privo di conflitti senza alcuna espressione di differenze e disaccordi, questo è un indicatore di qualcosa che non funziona. I gruppi di lavoro con troppa apparente armonia non sono efficaci tanto quanto non lo sono quelli con troppi disaccordi e conflitti distruttivi. Ciò è motivato dal fatto che la diversità, l’eterogeneità di competenze riconosciute, nei gruppi di coprogettazione è molto importante. Le differenze sono la fonte per trovare le migliori idee e soluzioni. La diversità di opinioni, idee, personalità, genere ed esperienze porta a risultati migliori rispetto a gruppi troppo omogenei per sudditanza psicologica di qualcuno rispetto a qualcun altro. Funzionano i gruppi dove si trova un equilibrio fra disaccordo e cooperazione invece che fra dominio e sottomissione. Troppa armonia riflette quindi la mancanza di sicurezza psicologica nei partecipanti più passivi e può assomigliare alla “sindrome di Stoccolma”.

Che fare quando si ha la sensazione di trovarsi in gruppi di coprogettazione in cui si sta rischiando la “sindrome di Stoccolma”? Riprendendo gli schemi sopra presentati si tratta allora di portare il Terzo settore (o il pubblico) affetto da “sindrome di Stoccolma”, dal quadrante 1 al quadrante 4 (io vado bene, tu vai bene), ovvero in quella che l’Analisi Transazionale chiama la posizione di “OKness” nella relazione. Il conduttore può avere una funzione molto importante per promuovere tale cambiamento. In qualità di conduttori è infatti importante assicurarsi che i partecipanti presentino le loro diversità e portino allo scoperto i loro conflitti costruttivi: “mettendo il pesce sul tavolo”. Questa metafora deriva da un antico detto siciliano che ricorda che dopo aver catturato un pesce, deve essere pulito: anche se questo atto può essere sgradevole, sanguinolento e puzzolente, è necessario per godersi una successiva ottima cena a base di pesce (cfr. Kohlrieser 2011, “La scienza della negoziazione”, Sprling e Kupfer, Milano). Possiamo usare questa metafora anche per la conduzione dei gruppi di coprogettazione. È importante che il conduttore stimoli un processo che consenta di mettere sul tavolo i punti di vista, le divergenze, problemi (il pesce) in modo aperto e trasparente per costruire successivamente, anche dopo sgradevoli momenti di divergenza, un progetto ricco e di qualità. Se divergenze e conflitti sono evitati, per paura di esprimere le differenze, il dialogo diventa superficiale e il progetto finirà col mancare dell’onestà e dell’impegno necessari per sviluppare appieno tutte le competenze e potenzialità dei partecipanti. L’evitamento dei conflitti è pertanto un segnale del rischio di “sindrome di Stoccolma” nei gruppi di coprogettazione.

In linea con tale atteggiamento i conduttori si possono pertanto adoperare per:

  • promuovere scambi di riconoscimento fra i soggetti in campo che forniscano un senso di sicurezza in ciascuno per esprimersi al meglio;
  • esplicitare le proprie, e dare il permesso di esplicitare le altrui, perplessità e paure a dissentire apertamente e onestamente;
  • promuovere momenti di confronto, oltre che sui contenuti della comune progettazione, sui processi di gruppo, ovvero fermandosi a riflettere su come si sta lavorando insieme e cosa può essere migliorato.

Tutto ciò può contribuire a costruire relazioni di fiducia fra partner, che consentano di superare la “sindrome di Stoccolma” e co-costruire buoni progetti, frutto della messa in comune di competenze e punti di vista di tutti, ciascuno portando il proprio bagaglio.

  1. Secondo Berne e Ernst, (cfr Stewart, Joines, l’Analisi Transazionale, Garzanti, Milano, 1990), le quattro posizioni di vita fondamentali sono: “Io sono ok, tu sei ok” (++); “Io non sono ok, tu sei ok” (−+); “Io sono ok, tu non sei ok” (+−); “Io non sono ok, tu non sei ok” (−−). Nella posizione “io ok-tu ok” sperimentiamo lo star bene con noi stessi e con l’altro o gli altri, quindi andiamo d’accordo e andiamo avanti con l’altro. Viene chiamata posizione sana, vincente, costruttiva, collaborativa, evolutiva. Nella posizione “io non ok-tu ok” sperimentiamo il senso di non essere all’altezza, di non essere adeguati o degni di valore, e tutto questo lo attribuiamo invece all’altro o agli altri. Con questo sentimento tendiamo ad allontanarci, ad andare via dall’altro e ci rinchiudiamo in noi stessi svalutandoci. Questa posizione viene anche definita servile, passiva. Nella posizione “io ok-tu non ok” sperimentiamo il vissuto di quanto gli altri sono sbagliati, inadeguati e non degni di valore, mentre solo noi valiamo davvero. Quindi tendiamo a volerci sbarazzare e liberare degli altri indesiderati. Questa posizione viene anche definita aggressiva. Nella posizione “io non ok-tu non ok” sperimentiamo il senso di non valere nostro e altrui, la totale inutilità di chiunque e di qualunque cosa, il vissuto di fallimento, la non speranza “tanto… non c’è niente da fare”. Questa posizione viene definita di superficialità, di inutilità, di cinismo.
  2. Cfr. G. Kohlrieser, “How to overcome organizational Stockholm syndrome”, in Brain Circuits, 3 february 2022