Coprogrammazione, coprogettazione e gli anticorpi della conservazione


Gianfranco Marocchi | 31 Agosto 2018

Riflessioni a partire da una tendenziosa domanda di ANAC sulla legittimità degli strumenti amministrativi basati sul principio di collaborazione e dalla risposta del Consiglio di Stato.

 

Come il proliferare di linfociti ci informa sulla presenza di un’infezione prima ancora che venga individuato il virus che la determina, così il primo segnale che qualcosa di importante sta accadendo sul fronte della coprogettazione (o, più in generale, dell’amministrazione collaborativa) lo si scorge da un’anomala reazione di allarme da parte di soggetti istituzionali che, in ottica conservativa, vogliono perpetuare, nel welfare come negli altri settori di interesse generale, il paradigma di mercato, che vuole i rapporti tra enti pubblici e terzo settore basati sul controinteresse (cliente vs. fornitore) e quelli tra Enti di terzo settore improntati alla competizione attraverso gare di appalto.

 

Cosa accade quando il sistema viene contaminato da logiche diverse, che al controinteresse sostituiscono, coerentemente con lo spirito della Riforma del terzo settore e con la cultura dei servizi consolidatasi in questi anni, l’identità di finalità tra soggetti pubblici e di Terzo settore e alla competizione tra questi ultimi la collaborazione entro una logica di integrazione di risorse e competenze? Quando in sostanza vengono rafforzate tendenze ad utilizzare strumenti collaborativi quali la coprogrammazione e la coprogettazione, in cui i diversi attori, pubblici e di terzo settore, lavorano congiuntamente per un obiettivo comune?

Succede che il sistema va in fibrillazione, attiva i propri anticorpi e tenta di riportare tutto allo scenario preesistente, che per quanto manifestamente meno coerente con l’interesse generale – l’idea stessa, fondativa del nostro welfare, di creare un sistema integrato di interventi e servizi rimanda chiaramente ad una logica collaborativa e non ad un insieme di soggetti mutualmente competitivi ed ostili – appare più rassicurante.

Ma andiamo con ordine.

I sistemi collaborativi

I sistemi collaborativi nascono in coerenza con la logica di sistema della 328/2000 sotto forma di istruttorie di coprogettazione per servizi sperimentali e innovativi, definiti da uno degli atti applicativi della stessa legge, il d.p.c.m. del 30 marzo 2001. Una decina di Regioni italiane approva norme regionali che richiamano questi strumenti, mentre altre definiscono strumenti collaborativi su altre basi, come nel caso dei patti di sussidiarietà della Regione Liguria (L.R. 42/2012).

Recentemente, come già evidenziato su Welforum, il D.Lgs. 117/2017, che attua la Riforma del Terzo settore, introduce con l’art. 55 un sostanziale rafforzamento della logica collaborativa che, fondandosi sull’identità di finalità tra pubbliche amministrazioni e terzo settore e in coerenza con il principio costituzionale di sussidiarietà, individua la coprogrammazione e la coprogettazione come modalità ordinaria delle relazioni tra enti pubblici e terzo settore, non limitato quindi al caso di attività innovative e sperimentali e non solo per il welfare, ma in tutte le attività di interesse generale.

A scanso di equivoci, è bene richiamare che tutte queste forme collaborative prevedono la piena trasparenza ed evidenza pubblica e quindi il coinvolgimento di tutti i soggetti interessati e disponibili a prendere parte ai processi di coprogrammazione e coprogettazione; e che, da un punto di vista amministrativo, le procedure invocate dal Codice non si fondano su norme derogatorie o secondarie, ma sulla legge 241/1990, la legge sul procedimento amministrativo, che governa quotidianamente l’agire della pubblica amministrazione a tutti i livelli e prevede procedure improntate all’imparzialità e al perseguimento dell’interesse pubblico (anche in misura maggiore rispetto agli appalti1!). Insomma, nulla sarebbe più errato che accomunare gli strumenti collaborativi a rapporti discutibili o a commistioni di interessi.

In ogni caso, al di là degli aspetti legislativi, il fatto rilevante è che negli ultimi mesi si è assistito ad una proliferazione di enti locali che hanno scelto di coinvolgere il terzo settore con strumenti collaborativi anziché attraverso la competizione.

Per fare solo alcuni esempi, il Comune di Milano ha recentemente indetto un bando di coprogettazione per le attività sociali da realizzarsi entro un edificio pubblico, il comune di Bologna lo aveva fatto per il servizio SPRAR così come recentemente quello di Grosseto, Spoleto lo aveva fatto per la concessioni di immobili, Cesena – Valle del Savio lo hanno fatto sia per la gestione di servizi che per l’utilizzo di immobili, diversi enti gestori piemontesi lo stanno facendo nell’ambito del bando WeCare su servizi innovativi; alcuni comuni come Ferrara e Brescia si sono dotati o si stanno dotando di regolamenti strutturati per consolidare l’utilizzo della coprogrammazione e della coprogettazione.

Insomma, la logica collaborativa, oltre che prevista in sede normativa, è stata in questi mesi agita dagli enti gestori del welfare. E gli anticorpi si sono attivati.

 

Una domanda tendenziosa

La reazione conservativa non si è fatta attendere ed è arrivata da due istituzioni di massimo livello, l’ANAC e il Consiglio di Stato che hanno avviato un evidente “gioco di squadra” per deprimere il potenziale innovativo dell’amministrazione collaborativa.

ANAC ha posto il 6 luglio al Consiglio di Stato la questione in maniera evidentemente tendenziosa, chiedendo a quest’ultimo di dirimere “dubbi interpretativi” concernenti “posizioni contrastanti da parte di vari stakeholder e del Ministero del lavoro, che teorizzano l’esclusione dall’applicazione del Codice dei contratti pubblici di ampi settori di attività affidati agli organismi del terzo settore…”.

Che la questione sia posto in modo tendenzioso, è evidente, dal momento che il tema non è l’esclusione del terzo settore in quanto tale dal codice degli appalti, cosa che nessuno, con buona pace dell’ANAC, per quanto ci è noto, ha mai teorizzato. La domanda costituisce una tipica enfatizzazione e banalizzazione di tesi avverse per “chiamare” una risposta rassicurante. Molto diverso (e assai più corretto) sarebbe invece stato interrogarsi su “quali siano gli strumenti amministrativi da attivare nel caso in cui gli enti istituzionalmente preposti ai servizi di welfare ritengano rispondente all’interesse generale promuovere un ampio concorso di idee e di risorse operative di una pluralità di soggetti, da integrare e combinare per conseguire il migliore livello di servizi al cittadino”. Ma, evidentemente, ANAC ha preferito porre la domanda in altro modo.

(Tra parentesi)

Prima della risposta, vale la pena di interrogarsi sul processo. A fronte di una situazione complessa che coinvolge, secondo la stessa ANAC, “vari stakeholder” tra cui un Ministero (oltre, come si è visto, una decina di Regioni, numerosi Comuni, ecc.), logica vorrebbe che la questione fosse trattata con un passo diverso, non solo in punta di diritto, ma – qualora si fosse ravvisata l’effettiva presenza di elementi controversi – sentendo le ragioni degli stakeholder in questione e semmai affidando alla disamina giuridica il compito di individuare eventuali nodi e contraddizioni affidando ad altri livelli – politici e concertativi – la loro risoluzione. Invece, nel teatro predisposto dai due soggetti, l’uno pone una domanda fuorviante e l’altro si affretta – nemmeno 20 giorni dopo – a dare una risposta ancor meno equilibrata.

La risposta

Il 26 luglio il Consiglio di Stato emette il suo parere. Da un punto di vista linguistico, fa uso di una prosa infiorettata, quasi letteraria, che tradisce la volontà di dare enfasi e solennità alla risposta; ma a livello di contenuti, abbraccia e fa propria la tendenziosità della domanda dando la ovvia risposta che ne consegue: gli appalti sono l’unica via.

Evita di richiamare e discutere le motivazioni e fondamenti degli strumenti collaborativi – da quelli settoriali basati sulla necessità di costruire un sistema integrato a quelli relativi alla natura del terzo settore come statuito dalla Riforma (che, vale la pena di ricordare, è legge dello Stato); sembra ignorare come essi siano – tanto quanto gli appalti – basati su trasparenza e imparzialità; glissa abilmente su quanto le Direttive comunitarie affermano circa la specificità dei servizi sociali e dunque sull’autonomia dei singoli Stati (si pensi al considerando 114 della Direttiva  2014/24). E di conseguenza si limita a riaffermare, nella sostanza, che il welfare è (quasi sempre) un settore economico e che dunque, coerentemente con la lettura (parziale) che viene proposta degli indirizzi comunitari, va sottoposto ai procedimenti di mercato e conseguentemente, quando si tratta di coinvolgere soggetti terzi, implica il ricorso ad appalti e (quasi) null’altro.

In 49.212 caratteri, spazi compresi, non trova spazio per affrontare i veri nodi della questione: non certo l’eventuale discriminazione di soggetti for profit – punto secondario nella prassi – ma attraverso quali strumenti amministrativi sia possibile dare attuazione ad una chiara esigenza della pubblica amministrazione – evidentemente coerente con l’interesse pubblico – di mettere a disposizione dei cittadini un insieme di più soggetti pubblici e privati disponibili ad integrare le proprie risorse invece che l’aggiudicatario di un appalto e di giungere alla definizione delle modalità operative sommando letture e intelligenze diverse anziché affidando ad un proprio funzionario la scrittura di un capitolato.

Le conseguenze

Le conseguenze in termini immediati sono da un punto di vista giuridico contenute, ma la tossicità di questo parere non va sottovalutata: un ricorrente avverso ad una procedura di coprogettazione potrebbe a buon titolo contare sul fatto che – se non già di fronte al TAR – in secondo grado il Consiglio di Stato la giudicherebbe illegittima; presumibilmente inoltre l’ANAC avrà buon gioco a rilanciare deliberazioni in cui limita il ricorso alla coprogettazione a vantaggio degli appalti. Più in generale, è ragionevole temere che numerosi enti, anche tra quelli più avanzati e sensibili ad un approccio collaborativo, temendo impugnazioni e censure, si orientino verso affidamenti tramite appalti.

Ma a ben vedere l’impatto di questo parere rischia di essere molto più ampio, perché punta ad erodere pezzi non secondari di due normative fondamentali come la Legge quadro sui servizi sociali 328/2000 e la Riforma del Terzo settore – frutto, lo ricordiamo, di un’elaborazione parlamentare e poi dell’esecutivo di questi ultimi quattro anni -, nonché le normative di almeno una decina di Regioni italiane in materia di coprogettazione (con il rischio di dimenticarne alcune: Emilia Romagna, Piemonte, Puglia, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Liguria, Marche, Umbria, Molise e Lazio) e le prassi sviluppate dai più avanzati comuni italiani.

E sarebbe riduttivo ritenere che il Consiglio di Stato e l’ANAC aggrediscano solo porzioni secondarie delle normative citate: scalpellare l’art. 7 del d.p.c.m. 30/3/2001 sulla coprogettazione significa intaccare il concetto stesso di “sistema integrato di interventi e servizi” ricadendo in una visione antistoricamente statalista del welfare; disattivare l’art. 55 del d.lgs. 117/2017 significa diluire il ruolo del Terzo settore come soggetto che persegue, come gli enti pubblici, un interesse generale e farne un mero attore di mercato; e significa, a ben vedere, rimettere in solaio il comma 4 dell’art. 118 della Costituzione e il principio di sussidiarietà che esso enuncia: gioiello pregiato da sfoggiare in convegni e articoli, ma da tenere a debita distanza quando se ne traggano le naturali conseguenze nella pratica amministrativa.

È legittimo ed è ragionevole che un parere tecnico arbitri una questione che evoca questa complessità di livelli di governo e di specificità settoriali (a questo proposito, per inciso: anche se il Consiglio di Stato sembra ignorarlo, l’articolo 55 del d.lgs. 117/2017 non riguarda solo il welfare, ma una pluralità di settori di interesse generale)? O sarebbe invece più adeguato rimandare tale questione ad altri luoghi e livelli?

E quindi?

Tante sarebbero le cose da affermare in punta di diritto, ma sicuramente vi è chi è in grado di farlo molto meglio e nelle sedi opportune.

Il problema è che ciò avvenga.

Che quindi i diversi soggetti coinvolti – il Governo, il Parlamento, le rappresentanze del Terzo settore, gli Enti locali, le Regioni – non si limitino ad una presa d’atto di questo parere, magari redigendo una circolare in cui si invita ad uniformarsi a tale parere -, ma avviino una riflessione che porti a risolvere in modo soddisfacente le questioni sollevate.

Nel merito, un giudizio più accorto e non viziato da un’impostazione di partenza fuorviata, avrebbe concluso che le problematiche di coordinamento tra codice degli appalti e strumenti amministrativi collaborativi sono nei fatti poco consistenti: le procedure di coprogettazione, proceduralmente fondate sulla legge 241/1990, sono già di per sé rispettose dei medesimi principi di evidenza pubblica, trasparenza e imparzialità che il Codice degli appalti intende tutelare e anche alcuni specifici problemi, come il ruolo di soggetti diversi dal Terzo settore, sono affrontabili in modo ragionevole senza eccessive difficoltà, come di fatto già avviene nelle prassi degli enti locali.

Ma se invece si ritenesse opportuno – e così pare essere, anche stante il parere del Consiglio di Stato – un lavoro normativo ulteriore per rendere compatibile l’amministrazione collaborativa con altre istanze giuridiche, di questo debbono occuparsi i diversi livelli istituzionali e le rappresentanze del Terzo settore, così da trovare una soluzione condivisa, soddisfacente più aderente all’interesse pubblico rispetto alla mera riproposizione degli appalti come strumento per amministrare il welfare locale e gli altri settori di interesse generale.

La partita è quindi aperta, non vi è che da sperare che i diversi soggetti coinvolti la giochino con impegno e lungimiranza.

  1. Si pensi ad esempio al fatto che eventuali rimostranze circa la conduzione del procedimento negli appalti possono essere rilevate solo da chi ha interesse legittimo a farlo (es. il concorrente secondo classificato), mentre in un procedimento amministrativo sono tali azioni sono nella disponibilità di tutti i cittadini.

Commenti

Ti ringrazio molto, l’aspetto che tocchi nel tuo articolo è centrale perché va a intaccare una delle argomentazioni su cui il Consiglio di Stato fa maggiormente leva per argomentare le proprie posizioni. Vedo inoltre con piacere che da tanti soggetti si sta ponendo la dovuta attenzione a questo tema e questo mi fa ben sperare…