Pubbliche amministrazioni e terzo settore tra competizione e collaborazione


Gianfranco Marocchi | 29 Novembre 2018

Il bivio

Il punto di partenza della riflessione può essere rappresentato simbolicamente da un bivio.

Ferme restando le caratteristiche fondamentali che ispirano l’azione della pubblica amministrazione – il perseguimento dell’interesse pubblico, l’efficacia, la trasparenza, la parità di trattamento tra i soggetti con i quali si relaziona – innanzi agli Enti pubblici con responsabilità istituzionali nell’ambito del welfare si aprono due strade rispetto a come relazionarsi con gli Enti di Terzo settore. Ciascuna di queste due strade è coerente con una concezione della sostanza di questo rapporto.

Se ci si muove nell’ottica dell’affidamento di servizi verso un fornitore e quindi di una competizione tra soggetti tra loro concorrenti e controinteressati rispetto alla pubblica amministrazione, la strada è quella dell’affidamento attraverso una gara di appalto.

Se viceversa ci si muove nell’ambito di relazioni collaborative, gli stessi principi generali prima richiamati sono realizzati entro un procedimento amministrativo che mira includere entro gli orientamenti delle politiche pubbliche – e auspicabilmente integrare tra loro – le risorse del territorio; ciò significa, nella pratica, dare vita a un lavoro comune tra Enti pubblici e Enti di Terzo settore per condividere la lettura dei bisogni, definire gli obiettivi, elaborare la programmazione degli interventi, individuare le risorse a tal fine necessarie, per giungere quindi alla progettazione e infine alla realizzazione dei concreti interventi da attivare.

 

Due paradigmi

Le due possibilità sopra richiamate – acquisto di servizi sul mercato o collaborazione per finalità condivise – instradano la relazione tra enti pubblici e terzo settore su binari diversi da molti punti di vista.

All’interno del paradigma competitivo, la pubblica amministrazione acquista beni o servizi, dei quali ha definito le caratteristiche, dal migliore offerente sul mercato; nel paradigma collaborativo suscita, riconosce, coordina le energie presenti sul territorio utili ad affrontare un determinato problema, eventualmente allocando anche a tale scopo, se necessario, delle risorse utili a potenziarle affinché gli obiettivi condivisi siano meglio perseguiti.

All’interno del paradigma competitivo l’esito dell’affidamento è un processo di selezione in cui i potenziali partecipanti sono concorrenti, uno dei quali risulta infine vincitore; all’interno del paradigma collaborativo l’esito – auspicabile – è l’integrazione e la ricombinazione innovativa delle risorse portate da più soggetti, pur senza escludere che, talora tale processo concertato fallisca, l’amministrazione riservi a sé la facoltà di selezionare alcuni partecipanti depennandone altri.

Nel paradigma competitivo la pubblica amministrazione e il partecipante ad una gara che interloquiscano sulle caratteristiche del servizio generalmente commettono un reato (o, quantomeno, si sospetta che lo commettano, ipotizzando che un privato voglia orientare a suo vantaggio le caratteristiche di un affidamento); nel paradigma collaborativo è fondamentale e fondante il fatto che, nella massima trasparenza, pubblica amministrazione e soggetti della comunità locale discutano sui bisogni e sulle modalità di risposta.

Sottostanti a tali differenze, vi sono generalmente diversi riferimenti normativi che governano gli aspetti procedurali: il D.Lgs. 50/2016 – il Codice dei contratti pubblici – per quanto riguarda l’acquisto di servizi e, nella maggior parte dei casi, alla Legge 241/2016 sul procedimento amministrativo per quanto riguarda gli strumenti collaborativi; fermi restando i principi generali che ispirano l’azione amministrativa già richiamati, queste due opzioni sono a fondamento di azioni amministrative che, come si è visto, differiscono in modo sostanziale per presupposti e intenti, in un caso coerenti con un paradigma competitivo, nell’altro con un paradigma collaborativo.

Affidamento di beni e servizi Sostegno sussidiario alle iniziative dei cittadini
A cosa serve Ad acquisire servizi, forniture, lavoro e opere (D.Lgs. 50/2016) A sostenere l’autonoma iniziativa dei cittadini che concorrono, anche in forma associata, a perseguire il bene comune (D.Lgs 117/2017), a realizzare interventi sperimentali e innovativi (D.P.C.M. 30/3/2011)
Fondamento normativo rispetto alle procedure da adottare D.Lgs. 50/2016 (Codice dei contratti) Legge 241/1990 + eventuale legislazione regionale + regolamenti comunali
Principi generali rispetto alle procedure Economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, ecc.
Chi procede La pubblica amministrazione La pubblica amministrazione; ciò può avvenire anche a seguito di istanza da parte di un soggetto non pubblico, che viene valutata e, dove ritenuto opportuno, viene assunta dalla PA
Cosa avviene Le imprese in possesso dei requisiti di partecipazione presentano la propria offerta, una commissione aggiudicatrice valuta quale di esse sia migliore e affida a questa la commessa I soggetti ammessi alla coprogettazione e l’amministrazione procedente iniziano un dialogo teso ad individuare in tutto il partenariato le soluzioni migliori e le risorse per realizzarle,
Trasparenza Hanno titolo di accedere alla documentazione tutti i soggetti che rivestono un interesse legittimo rispetto all’affidamento, tipicamente un concorrente secondo classificato nella gara Hanno diritto ad accedere alla documentazione tutti i cittadini, le associazioni, i comitati, le amministrazioni portatrici di un interesse rispetto al procedimento
Come si conclude Con l’aggiudicazione ad uno dei concorrenti Con un accordo che coinvolge amministrazione procedente e più partner e che auspicabilmente integra e valorizza, a seguito di un esito consensuale, una pluralità di contributi e risorse apportate. Ciò non esclude, ove l’accordo non sia raggiunto, che l’amministrazione procedente individui di propria iniziativa la proposta o le proposte operative che meglio traducono l’esito della coprogettazione.

 

La collaborazione, questa sconosciuta

Perché, dunque, questo tema è rilevante?

Il motivo fondamentale è che, malgrado una pubblica amministrazione abbia ottimi motivi – li elencheremo in seguito – per adottare strumenti di tipo collaborativo, la poca abitudine ad utilizzare le pur consolidate procedure che lo governano porta, come per riflesso condizionato, a scegliere la strada più nota e praticata, quella dell’affidamento di servizi; o a considerare gli strumenti collaborativi al più come opzione residuale, da adottare solo per interventi di piccole dimensioni o per ambiti molto specifici; o ancora, a considerare, erroneamente, gli strumenti collaborativi come una sorta escamotage border line per semplificare gli aggravi burocratici degli appalti.

Ciò è errato, su più fronti.

Gli strumenti dell’amministrazione collaborativa non sono border line, ma – se realizzati nel rispetto dei criteri di trasparenza ed evidenzia pubblica – scelte pienamente legittime e consolidate nel nostro impianto normativo (Cfr. Luciano Gallo, «I nuovi strumenti di collaborazione fra P.A. ed enti di Terzo settore “alla prova” dell’evidenza pubblica», in Welfare Oggi 2/2018).

Non sono escamotage per semplificare gli adempimenti burocratici, ma esiti – peraltro impegnativi in primo luogo rispetto alla costruzione sostanziale del partenariato e al cambiamento di mentalità che ciò implica – di una concezione del welfare come frutto di sforzi congiunti di più soggetti che si si riconoscono reciprocamente sulla base dell’identica mission e che dunque dismettono le vesti del controinteresse (nei confronti della Pubblica amministrazione) e della competizione (con le altre organizzazione di Terzo settore) per vestire quelli della collaborazione.

 

Perché collaborare

I motivi per i quali la collaborazione costituisce un esito auspicabile – laddove autentico, si intende – sono molteplici e riguardano sia i vantaggi della collaborazione che gli svantaggi della competizione.

La competizione, alla prova dei fatti, spesso non ha portato con sé gli auspicati vantaggi in termini di risparmio economico, ma al contrario decadimento nella qualità delle prestazioni, peggioramento delle condizioni di lavoro, crowding out dei soggetti migliori (quelli attenti alla qualità e all’innovazione, spesso costose e non premiate dai meccanismi di gara) a vantaggio dei soggetti più spregiudicati, disinvestimento nei servizi (è improbabile investire se si ha la prospettiva di essere sostituiti in breve tempo da altri), distruzione di risorse sociali potenzialmente integrabili in un sistema di interventi, ma sconfitte nella competizione, poca propensione a “fare sistema” (dal momento che le proprie risorse, capacità e relazioni sono un capitale “privato” da giocare nell’agone competitivo e non da mettere a disposizione di soggetti che risultano essere potenziali concorrenti), progressivo svilimento delle organizzazioni di terzo settore che tendono a mortificare la partecipazione alla programmazione e alla progettazione dei servizi concentrandosi sulla gestione.1

 

La collaborazione, al contrario, è molto più coerente con la cultura del welfare: come è possibile concepire il “sistema integrato” cui fa riferimento la 328/200, laddove i pezzi che compongono il sistema fossero costituiti da soggetti tra loro mutualmente ostili? La collaborazione è inoltre in sintonia con le strategie di intervento sociale che fanno generalmente riferimento a un universo concettuale (il lavoro di rete, il partenariato, gli interventi sistemici) basato sull’azione di una pluralità di soggetti tra loro cooperanti. La collaborazione presenta i vantaggi speculari alle mancanze prima addebitate alla competizione: favorisce l’investimento e il conferimento di risorse per delineare al meglio il sistema degli interventi, somma le risorse migliori di ciascuno invece di mortificare tutte le competenze di soggetti diversi dall’unico vincitore di una competizione.

 

“Addomesticare la competizione”?

A fronte di questo quadro non stupisce il fatto di avere talvolta notizia di pubbliche amministrazioni che, pur scegliendo esplicitamente forme collaborative per mancanza di confidenza con i relativi strumenti amministrativi, tentano di volgere in salsa collaborativa strumenti competitivi. Insomma, a fare un appalto “perché così è trasparente e inattaccabile”, nella speranza che si producano comunque esiti collaborativi e talvolta operando attivamente perché ciò accada, ovviamente con pratiche – queste sì – border line, anzi, pur con le migliori intenzioni, spesso molto oltre il border. Ma anche al di là della censura legale, va detto che generalmente nel medio periodo queste pratiche non conseguono i risultati sperati e si arenano tra diffidenze e opportunismi che la competizione, presto o tardi, non manca di generare.

Tutto ciò accade quando, in servizi la cui cultura e la cui natura sono intrise di logiche collaborative, gli amministratori pubblici ritengono di non poter fare altro che adottare strumenti competitivi.

 

Collaborare è impegnativo!

Dunque, in molti casi, vi sono ottimi motivi per verificare l’opportunità di procedere secondo una modalità collaborativa.

Ma, se da una parte si può senza timore di smentita affermare la piena cittadinanza degli strumenti amministrativi collaborativi, sarebbe segno di parzialità non vedere i rischi – sostanziali prima ancora che giuridici – che ciò comporta.

Potrebbe avvenire ad esempio che il tavolo di coprogettazione diventi nei fatti il luogo di ripartizione tra i partecipanti delle risorse esistenti; questo esito, prima ancora che allarmare da un punto di vista della trasparenza, racconta di uno strumento collaborativo di cui è stata distorta la finalità autentica, che non è quella di salvaguardare le posizioni dei partecipanti, ma di mobilitare le loro risorse verso un obiettivo migliorativo per l’interesse generale. E questo può richiedere – spesso richiede, quando si entra nell’ottica dell’innovazione – di ricombinare le risorse proprie e quelle di altri soggetti del territorio, di rinunciare a posizioni acquisite, se rispondono a bisogni non più prioritari, di rivedere gli assetti di ciascuno nell’ottica di interessi generali. Gli strumenti collaborativi hanno senso nel momento in cui tutti i partecipanti – il soggetto pubblico e quelli di terzo settore – si approcciano con la medesima disponibilità a rimettersi in discussione.

Ma il fatto di disporsi ad agire in questo modo non è per nulla scontato.

Più di due decenni di appalti hanno reso desueta, in molti soggetti di terzo settore, la propensione a collaborare (al di fuori, si intende, di partenariati contingenti basati sulla convenienza per la propria impresa, cosa che non necessariamente coincide con la ricerca dell’interesse generale); hanno fatto perdere a molte organizzazioni risorse preziose di cui disponevano, in primo i legami con le rispettive comunità; spesso scontri in occasione di gare possono aver generato tensioni, sfiducia e qualche volta anche contenziosi aperti tra più soggetti del Terzo settore o tra questi e le pubbliche amministrazioni. E le tensioni, per loro stessa natura, sono pervasive: è difficile che due soggetti possano con serenità e fiducia reciproca coprogrammare e coprogettare relativamente ad un certo ambito di servizio mentre in un altro ambito sono impegnati in una disputa legale all’ultimo ricorso. E il paradigma collaborativo difficilmente può fare a meno di fiducia e di propensione alla collaborazione, che sono capitali preziosi, rari e fortemente deperibili, duramente messi alla prova da anni di competizione.

Ma al di là di possibili eventi conflittuali, il punto è che, anche a livello di mentalità, il consolidarsi di un assetto di mercato può avere orientato soggetti di terzo settore – in particolare i grandi player – verso mentalità acquisitive e arrembanti, che mirano alla supremazia della propria azienda piuttosto che alla crescita del sistema nel suo complesso.

Anche da parte dell’ente pubblico è poi necessario un capovolgimento di vedute radicale; la responsabilità istituzionale, in un paradigma collaborativo, non è esercitata attraverso il governo diretto dell’articolazione dei servizi, ma, in primo luogo e ogni volta che sia possibile, animando, potenziando e coordinando le risorse presenti sul territorio; ciò ha come corollario anche una autentica revisione degli stili di governance, orientati a condividere letture, poteri e scelte, a stimolare e integrare piuttosto che a esercitare potere.

Insomma, tutto ciò ci fa comprendere come transitare da un assetto competitivo ad uno collaborativo non sia un passaggio da affrontare con leggerezza, sia per la necessità di maneggiare adeguatamente la relativa cassetta degli attrezzi giuridica, sia – e ancor più – per guidare, spesso con pazienza infinita, i processi sociali che accompagnano questa transizione, spesso annichiliti dalla lunga abitudine alla competizione.

 

Il cammino degli strumenti collaborativi

In ogni caso, i paradigmi collaborativi sono fortemente radicati nella storia dei servizi del nostro Paese e nel suo sistema giuridico (Cfr. Silvia Pellizzari, «Le diverse forme di relazione pubblico-privata nell’organizzazione dei servizi sociali e di welfare», in Welfare Oggi 2/2018).

La 328/2000 e il successivo d.p.c.m. del 30 marzo 2001 avevano delineato lo strumento delle istruttorie di coprogettazione per servizi sperimentali e innovativi; la ratio è, in quel caso, che la novità del servizio rende arduo per l’amministrazione definire a priori le caratteristiche e le strategie dell’intervento, risultando invece consigliabile riunire pubbliche amministrazioni e terzo settore in un tavolo comune per dare insieme forma alla risposta ad un bisogno sociale. Questo strumento, negli scorsi quindici anni, è stato recepito da una decina di Regioni italiane e riconosciuto, nella sua legittimità, dall’ANAC con la deliberazione 32/2016.

Ma le istruttorie di coprogettazione originate dalla 328/2000 non sono state l’unico strumento collaborativo: si pensi ad esperienze locali come i patti di sussidiarietà della Regione Liguria, o – pur se, solitamente, su interventi con caratteristiche di spontaneità e informalità – agli oltre 160 comuni che in quattro anni hanno approvato un “Regolamento per l’amministrazione condivisa dei beni comuni” a partire dal modello proposto da Labsus (www.labsus.org). Il fondamento della strumentazione pattizia è diverso da quello delle istruttorie di coprogettazione derivate dalla 328/2000: non si basa sulla sperimentalità ma sul riconoscimento – coerente con l’art. 118 della Costituzione (“Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”) – di una autonoma iniziativa della società civile che è interesse pubblico sostenere e integrare nelle politiche pubbliche di intervento.

Questi e altri strumenti possono essere da una parte rafforzati e dall’altra collocati in una luce nuova a seguito della Riforma del Terzo settore – in particolare l’art. 55 del D.lgs. 117/2017 – che aggiunge un terzo (e assorbente) fondamento per gli strumenti collaborativi, costituito dall’identità di fini tra enti pubblici e terzo settore, da cui scaturisce (non solo per l’ambito del welfare, ma in tutti i settori di interesse generale) la scelta di coprogrammare e coprogettare; per questo motivo l’opzione collaborativa diventa, la “prima scelta”, una sorta di approdo naturale delle relazioni tra Enti pubblici e Terzo settore.23

 

Strumento Fondamenti Limiti di utilizzo
1. Istruttorie di co-progettazione basate sulla l. 328/00 e sull’Atto di indirizzo sui rapporti tra enti pubblici e terzo settore (Dpcm 30/3/2001, art. 7) per “interventi innovativi e sperimentali” Sperimentalità e innovotività dell’intervento Non utilizzabile se l’intervento è consolidato
2. Strumenti basati sul sostegno sussidiario di iniziative realizzate dalla società civile (esempio: patti di sussidiarietà) Autonomia della società civile nel realizzare gli interventi con risorse proprie Non utilizzabile se le risorse sono tutte o in gran prevalenza della PA
3. Possibili nuovi strumenti basati su identità di finalità e mission tra enti pubblici e terzo settore (Dlgs 117/17, art. 55) Natura “pubblicistica” della mission del terzo settore analoga a quella della PA

 

  1. (Su questi temi si veda Carlo Borzaga, «Fin dove si può spingere la concorrenza senza causare danni invece che vantaggi?», in Welfare Oggi 2/2018).
  2. Cfr. Felice Scalvini, «Una nuova stagione. Il Codice del Terzo Settore e le relazioni tra enti del Terzo settore e le pubbliche amministrazioni», in Welfare Oggi 2/2018).
  3. Sulla discussione relativa al parere del Consiglio di Stato su questo tema, si rimanda alla sezione 3 del dossier