Il carcere al tempo del coronavirus


A cura di Ariela Casartelli | 6 Giugno 2020

Intervista a Perla Allegri dell’Associazione Antigone

 

È uscito il 22 di maggio il XVI Rapporto sulle condizioni di detenzione, “Il carcere al tempo del coronavirus” dell’Associazione Antigone per i diritti e le garanzie nel sistema penale1, presentato sui social network.

 

L’uscita del rapporto, frutto dell’attività dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione in Italia, assume una particolare valenza in questi tempi di emergenza, in quanto le carceri sono state ulteriormente avvolte dal silenzio e le porte si sono chiuse a tutti gli accessi. Abbiamo colto l’occasione, in prossimità dell’uscita del report, per intervistare Perla Allegri, una delle autrici del rapporto e osservatrice del Piemonte, Liguria, Valle d’Aosta e Lombardia per l’associazione Antigone ma anche ricercatrice per il laboratorio dei diritti fondamentali di Vladimiro Zagrebelsky.

 

Esce il report frutto del lavoro dell’osservatorio. Dall’inizio dell’emergenza Covid-19 che cosa è successo nelle carceri italiane?

Il rapporto è il frutto della lettura accademico scientifica, delle visite di osservazione che i volontari fanno all’interno delle carceri italiane, con il permesso e l’autorizzazione del Ministero della Giustizia e con la disponibilità dell’Amministrazione penitenziaria. Quest’anno sono stati visitati 110 istituti su 190, con lo sforzo di tutti gli osservatori dell’associazione che lavorano a titolo volontario. Abbiamo quindi cercato di dare conto delle visite fatte nell’anno e anche dell’impatto del Covid-19.

 

Antigone da 20 anni entra nelle strutture per visite di osservazione ma quest’anno, al tempo del Covid-19, tutto è stato fermato. In carcere dalla fine di febbraio entrano solo direttore, agenti di polizia penitenziaria, operatori dell’area trattamentale (educatori), medici e personale dell’area sanitaria ed eventualmente i Garanti dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. Anche i magistrati hanno implementato la modalità da remoto e hanno ridotto le visite in carcere. I dati su quanto è avvenuto in questa emergenza sono stati raccolti tramite un attento lavoro del Garante Nazionale.

 

Quello che è accaduto è che dal 25 febbraio, quindi prima ancora del lockdown che ha coinvolto noi tutti, le carceri hanno chiuso le porte a tutti gli accessi esterni, sono state sospese attività formative, i laboratori e soprattutto i colloqui in presenza con i familiari. La comunicazione tra l’esterno e l’interno è sempre difficile e in quel momento lo è stata particolarmente; i detenuti in alcune carceri non capivano cosa stesse succedendo e l’interruzione dei contatti con i familiari è stata un evento deflagrante. È stato allora, a inizio di marzo, che ci sono state alcune rivolte, quelle di cui tutti abbiamo sentito parlare, nelle quali sono morte 14 persone e sono state distrutte alcune sezioni.

Per garantire quindi maggiori contatti con le famiglie, è stato aumentato il numero di telefonate alla settimana a disposizione per ogni persona, si è passati da un contatto di 10 minuti a settimana a due o tre telefonate. Ma i detenuti pagano le telefonate e alcuni, le fasce più fragili e con meno rete, senza le attività interne, senza l’accesso dei volontari, che fanno donazioni per le telefonate, non hanno avuto a disposizione i soldi per chiamare. Il secondo passo è stata la possibilità di fare chiamate tramite skype ma i detenuti non hanno smartphone e quindi tutto il sistema si è dovuto attrezzare. Riappaltare la rete è stato necessario su tutto il territorio, sono stati dati dispositivi in dotazione all’Amministrazione penitenziaria, ci sono state donazioni di smartphone. La speranza è che questa misure rimangano, che non siano temporanee in quanto skype è gratuito e permetterebbe di facilitare i contatti per coloro che sono più fragili.

 

Dal 19 maggio sono ripresi i colloqui in presenza, con regole di distanziamento fisico e protezione, c’è un ulteriore scaglionamento degli ingressi, e va tenuto presente che non tutti scontano la pena nei territori dove vivono le loro famiglie per cui la mancata riapertura delle regioni ha bloccato i colloqui ancora per un po’ di tempo. Ricordiamo che in carcere ci sono persone provenienti da ceti sociali con scarsità di risorse e anche questo influenza la possibilità di andare ai colloqui.

 

Abbiamo visto sui giornali polemiche sulle misure di scarcerazione, è vero che si sono svuotate le carceri?

La questione è delicata, vanno tenute presenti due questioni di fronte a questa emergenza sanitaria:

  • un’ampia fascia della popolazione carceraria spesso soffre di patologie pregresse (HIV, epatiti, ecc.) quindi è ad alto rischio rispetto al contagio;
  • le condizioni nelle carceri, oltre all’insalubrità delle strutture, sono per la maggior parte in condizione di sovraffollamento quindi impossibilitate a garantire il distanziamento fisico.

 

Sovraffollamento significa più persone in spazi angusti e promiscui, nel 2020 abbiamo in Italia 61.000 detenuti a fronte di 47.000 posti effettivi. L’Italia in tema di sovraffollamento ha avuto diversi richiami dalla Corte Europea a partire dal 2010, nel 20123 è stata condannata ed invitata a provvedere, entro due anni, con misure deflattive, a ripristinare condizioni vivibili nelle carceri.

Ridurre il sovraffollamento significa ricorrere a misure alternative alla detenzione, una di queste è la detenzione domiciliare che può essere richiesta per motivi di salute, o da chiunque stia scontando una pena residua di 18 mesi, che è stata appunto utilizzata già nel 2013.

 

Il Decreto Cura Italia ha ampliato i criteri di accesso alla detenzione domiciliare per rendere possibile il distanziamento fisico e diminuire le possibilità di contagio all’interno perché, come abbiamo visto con le RSA, i luoghi chiusi sono pericolosissimi. Ha definito anche che se il residuo pena va da 0-6 mesi la detenzione viene svolta con controlli previsti dalle autorità di Pubblica sicurezza, mentre se la pena residua va da 6 a 18 mesi è previsto l’utilizzo dei braccialetti elettronici, che attualmente non sono in dotazione all’amministrazione penitenziaria in numero adeguato alle richieste. Abbiamo dedicato un capitolo del rapporto alla questione dei braccialetti elettronici.

Rimangono esclusi dalla concessione della misura: i detenuti in regime 41 bis criminalità organizzata, i condannati per maltrattamenti in famiglia e stalker, i recidivi delinquenti abituali, tutti coloro che non hanno domicilio effettivo, le persone che nell’anno precedente hanno preso un provvedimento disciplinare, chi ha partecipato alle rivolte. Già da qui si delinea il fatto che la mancanza di un domicilio ha penalizzato per lo più non chi aveva commesso gravi reati ma le fasce più fragili come gli immigrati, senza fissa dimora. Su questo tema le associazioni, il Cnca, si sono attivati per reperire alloggi idonei a consentire l’uscita di chi era più in difficoltà.

 

La seconda misura contenuta nel Decreto è stata quella di concedere a chi era già in regime di semilibertà, laddove ne esisteva la possibilità, di non rientrare in carcere a dormire; questa possibilità al momento è in vigore fino al 30 giugno.

Circa 23.000 persone, attualmente detenute, hanno condanne intorno ai due anni e avrebbero potuto chiedere la detenzione domiciliare; in realtà al 9 maggio, all’esito delle possibilità contenute nel decreto Cura Italia, solo 3116 persone sono andate in detenzione domiciliare di cui 835 con braccialetto elettronico. La popolazione detenuta è scesa di 9000 unità perché ci sono stati meno ingressi, si è arrestato meno e perchè la magistratura dispone misure alternative alla detenzione per chi viene arrestato. La stessa Corte di Cassazione ha richiamato i magistrati all’utilizzo della detenzione in carcere come estrema ratio e invitato a velocizzare le risposte a richieste di misure alternative già presentate. Visti i numeri, si passa da 61.000 a 52.000 persone detenute a fronte dei 47.000 posti disponibili: il problema del sovraffollamento non è ancora stato risolto, anche se va detto che in due mesi sono stati raggiunti risultati che in passato avevano richiesto anni.

 

Per quanto riguarda i detenuti in regime di alta sicurezza, di cui si è molto parlato, occorre ricordare che il regime di sicurezza non interessa solo i mafiosi: ci sono 3 livelli di sicurezza di cui il 41 bis più elevato e le persone in alta sicurezza in tutta Italia sono meno di 9000. Con l’emergenza Covid-19, 376 persone di alta sicurezza sono uscite in detenzione domiciliare; di questi solo uno (80 anni) aveva il 41 bis. Tutti i 376 avevano meno di 18 mesi da scontare e avevano già scontato le pene per crimini di mafia, quindi stavano scontando pene per altri reati. Di queste 376 persone, 195 non erano ancora condannate con pena definitiva, hanno chiesto misure alternative e per loro hanno deciso i giudici di cognizione.

Tenendo conto di queste precisazioni sul territorio italiano saranno intervenuti circa 200 giudici a decidere delle concessioni delle misure, con senso di responsabilità.

 

Naturalmente per accedere ai benefici bisognava presentare domanda e Antigone si è resa disponibile a sostenere la possibilità delle famiglie di avere informazioni e un aiuto nel presentare le domande, abbiamo cercato di garantire il più possibile l’esercizio di questo diritto mettendo online i moduli per le istanze e ampliato il Difensore Civico inserendo personale volontario. Abbiamo raccolto anche informazioni per il nostro Osservatorio europeo e rilevato una cosa interessante: la Francia ha scarcerato 10.000 persone.

 

Quali sono i numeri del contagio? Quali provvedimenti sono stati presi per tutelare detenuti e personale? Sono state efficaci?

Per quanto riguarda il contagio, i dati sono forniti dal Garante Nazionale e a fine aprile sono stati dichiarati 150 contagiati in totale tra i detenuti e 209 al 15 aprile tra i lavoratori (agenti e area trattamentale). I numeri però non sono certi in quanto sono stati fatti pochi tamponi e ora si sta iniziando a fare i tamponi in modo più diffuso. Ci sono stati alcuni decessi sia tra i detenuti che tra il personale di polizia penitenziaria. Va tenuto in considerazione il fatto che la chiusura precoce, fine febbraio, ha fatto sì che nelle carceri il contagio sia arrivato più tardi di almeno un mese rispetto alla comunità esterna, quindi è ancora una situazione in evoluzione.

 

Anche in carcere come all’esterno i dispositivi di protezione sono arrivati in ritardo, ci sono state donazioni, in alcuni Istituti le hanno prodotte in autonomia, i Garanti comunali si sono dati molto da fare per fornire le carceri di dispositivi idonei. L’Istituto Superiore di Sanità ha ora aperto un tavolo con le Regioni e il Garante Nazionale per trattare della tutela della salute dei detenuti, di chi lavora in carcere e della comunità esterna di fronte al contagio.

A Milano, Casa circondariale di San Vittore, Medici Senza Frontiere e Croce Rossa Internazionale hanno creato un hub, una sezione per i contagiati, e hanno fatto formazione a tutti, detenuti e personale, sull’uso corretto dei dispositivi. Dovunque i casi gravi sono stati ospedalizzati mentre altri casi sono stati gestiti all’interno, a volte in ambienti insalubri dove già nella normalità si sviluppano malattie infettive.

 

Le misure prese all’interno degli Istituti variano; per cercare di seguire l’evoluzione della situazione abbiamo costruito una mappa interattiva sul sito dell’Associazione, nella parte dell’Osservatorio, nella quale sono segnalati tutti i provvedimenti assunti nelle carceri su tutto il territorio nazionale; la mappa è facilmente consultabile e la teniamo aggiornata con cadenza quotidiana per seguire il più possibile ciò che accade.

 

Ci sono state misure lesive dei diritti dei detenuti?

Non so se possa parlare proprio di misure lesive ma senza dubbio la situazione dei detenuti è peggiorata. Se pensiamo a noi stessi e alla nostra esperienza di isolamento con il lockdown abbiamo solo una vaga idea di quello che è successo alle persone detenute. Noi, che viviamo fuori, ci siamo iper-connessi per sopravvivere, in carcere la sospensione di tutte le attività significa trascorrere tutto il tempo in una cella, a volte sovraffollata, in scarsità di stimoli.

Ma le attività sospese non sono solo attività per passare il tempo, fanno parte del trattamento in funzione rieducativa, consentono ai detenuti di portare avanti percorsi scolastici, di guadagnare qualche soldo, e tutto questo si è fermato. Chi deve fare l’esame di terza media come farà a prepararsi se non può connettersi per le lezioni? Pensiamo che abbiano ricevuto materiali didattici ma non abbiamo dati certi su questo. Sarebbe stato auspicabile garantire l’accesso ad attività online.

Ogni carcere è un po’ un territorio a sé e, senza avere la possibilità di visitare le strutture, è difficile esaminare dal punto di vista nazionale la questione di come siano state garantite alcune possibilità di mantenere attività di studio. Sappiamo che le lezioni, per esempio quelle dei poli universitari, sono state sospese.

 

La cosa più grave è che nei decreti sulla ripresa il carcere non è stato preso in esame, non si sa quando le attività riprenderanno. Il Garante ha scritto al Ministro della Giustizia per chiedere indicazioni sulla riapertura e sulla possibilità di far sostenere le prove scolastiche. Auspichiamo che il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria intervenga a livello nazionale, dia delle indicazioni che permettano poi ad ogni istituto di programmare le proprie modalità di riapertura delle porte alla comunità.

  1. Nata alla fine degli anni Ottanta, è un’associazione politico-culturale a cui aderiscono prevalentemente magistrati, operatori penitenziari, studiosi, parlamentari, insegnanti e cittadini che a diverso titolo si interessano di giustizia penale. L’Associazione sviluppa la propria azione attraverso la sede centrale di Roma e grazie ad una rete nazionale di sedi regionali; le attività sono rivolte anche all’esterno dei confini nazionali attraverso una rete europea di partner qualificati. Le diverse attività dell’Associazione si esplicano anche grazie all’Osservatorio sulle condizioni di detenzione in Italia, l’Osservatorio Europeo delle condizioni di detenzione, il Centro europeo di studi, formazione, documentazione e ricerca sul diritto penale e l’esclusione sociale, l’Ufficio del Difensore civico delle persone private della libertà
  2. Sentenza Strasburgo 8 gennaio 2013, Causa Torreggiani e altri c. Italia.

Commenti

Da verificare il percorso di rientro dei detenuti scarcerati perché positivi…
Il passaggio per 14 giorni nelle sezioni nuovi giunti garantiscono le norme sul contenimento della malattia?
Non sembrerebbe idoneo secondo le normative vigenti secondo l’OMS a causa della promiscuità della sezione.
Cosa ne pensate?

Buongiorno e grazie per la sua sollecitazione. Con la nostra intervista abbiamo voluto rendere testimonianza delle gravi ripercussioni che l’epidemia di Covid ha avuto sul carcere ma non siamo così addentro alla materia da poter rispondere alla domanda specifica che ci pone. Riteniamo che la fase di ripresa e di riapertura porti con sè molte questioni che dovranno essere affrontate.