L’Europa ritrovata


Pippo Ranci | 28 Aprile 2020

Dalla nascita della Comunità nel 1957 l’Europa procede mantenendo un equilibrio instabile tra l’andare avanti e il tornare indietro. Dopo il balzo avanti con la creazione dell’euro, peraltro non compiuto da tutti, eravamo in una fase recessiva, con l’uscita inglese e i sovranismi polacco e ungherese: era già un risultato non andare indietro.

 

Il Coronavirus ha posto la scelta in termini molto netti, rendendo impossibile restare fermi con le vecchie regole di bilancio. Non fare niente è diventato troppo rischioso. La crisi economica conseguente a quella sanitaria indebolisce l’economia di molti paesi nel mondo e richiede forte aumento di spesa pubblica. I capitali fuggono verso i paesi che si mostrano più solidi e con maggiore probabilità di raccogliere la sfida e modernizzarsi. Già ci sono sintomi di afflusso verso gli Stati Uniti. L’Europa può farcela, solo se è unita, attiva e concorde.

Sicuramente si apre una grande occasione per riavvicinare l’Europa al sentiero di costruzione di un’entità unica, allontanandosi dal modello degli accordi intergovernativi o, se vogliamo dirlo con le parole del vecchio De Gaulle, dell’“Europa delle patrie”.

Le istituzioni europee si sono mosse

Sulla spinta dell’emergenza ha cominciato la Banca Centrale Europea (BCE) a consentire finanziamenti fino a 2200 miliardi. La cifra è enorme perché ha un significato assicurativo. Non è un esborso, è una disponibilità a intervenire in qualsiasi circostanza ciò sia necessario per stroncare una speculazione e assicurare la solidità dell’eurozona.

Il finanziamento della ripresa e dello sviluppo invece travalica il mandato della Banca centrale e coinvolge le istituzioni politiche: Commissione, Parlamento e Consiglio.

 

La Commissione Europea ha inizialmente disposto tre strumenti. Un’assicurazione comune contro la disoccupazione (SURE) da 100 miliardi. Per le imprese e gli investimenti pubblici una disponibilità della Banca Europea degli Investimenti (BEI) per 250 miliardi. Per sostenere i bilanci degli stati un’attivazione speciale del Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) senza quei vincoli e quella sorveglianza che l’esperienza greca ha mostrato eccessivi. Complessivamente un pacchetto da 500 miliardi che potrebbe e dovrebbe partire subito.

 

Subito dopo, vista la dimensione del problema, la Commissione ha proposto un piano per la ripresa complessivamente finanziato da risorse europee, chiamato Recovery Fund, d’importo non inferiore ai 1000 miliardi, compresi i 500 descritti sopra.

Il Parlamento Europeo ha espresso voto favorevole a larga maggioranza. Il Consiglio Europeo che rappresenta gli stati membri ha vissuto un’iniziale discordia interna, e alla fine ha dato via libera, ma solo in linea di principio. Come si sa, il diavolo sta nei dettagli e quindi bisognerà lavorare per rendere concreta questa apertura.

 

Eurobond sì, mutuo soccorso il meno possibile

Gli stati nordici, la Germania e l’Olanda sono nettamente contrari a quella che viene chiamata “mutualizzazione” dei debiti pubblici dei singoli Stati, e in particolare naturalmente del debito pubblico italiano, greco, spagnolo, portoghese.

Il salvataggio della Grecia è stato compiuto imponendo uno stretto controllo europeo e pesantissimi sacrifici. La sola ipotesi che un paese molto più grande, come l’Italia, si avvii sulla strada della bancarotta non può non spaventare: se ne ricava l’indicazione di prevenire il dissesto, imponendo una condotta che eviti di far crescere troppo il debito.

Ma negli ultimi dodici anni il debito pubblico italiano non ha fatto che crescere e nell’opinione pubblica nordeuropea trova consenso il timore che lo stato italiano non sia affidabile. Tanto più che tutto il mondo conosce bene gli indicatori di corruzione e di diffusione delle mafie che sono più elevati in Italia rispetto al resto d’Europa.

Accusare gli Stati del nord Europa di egoismo non coglie il problema. Serve piuttosto dare prova di affidabilità e quindi convincere noi stessi, che siamo i primi increduli, che le nostre istituzioni e le nostre imprese ce la possono fare e meritano un sostegno concorde.

 

Raccogliere la sfida

Il piano di ricostruzione riguarderà quindi anche l’Italia e sarà finanziato con debito europeo (possiamo dire: eurobond) legato esclusivamente alla realizzazione del piano stesso. Del debito italiano, quello vecchio e quello nuovo al di fuori del piano, rimane responsabile l’Italia.

 

Sarà da chiarire, e non sarà semplice, l’articolazione del piano in tanti programmi-paese. I governi nazionali non potranno decidere, agire e poi mandare il conto a Bruxelles. Ma nemmeno la Commissione Europea potrà agire come un governo federale. Ci sarà una sorta di doppio livello, che potrà appesantire i processi di decisione.

 

Si ripresenterà allora, con esiti che potrebbero essere disastrosi, la tradizionale debolezza italiana di aver accesso a fondi europei e non riuscire a spenderli. Il compito urgente non è quindi quello di tirare la corda europea o discettare sul MES, ma quello di predisporre programmi operativi ben studiati e articolati, affidare i lavori a imprese serie e oneste, utilizzando controlli sostanziali e non formali, definire ragionevoli procedure di consultazione che consentano di dar voce agli interessi di parte e locali entro tempi limitati e certi,  introdurre disposizioni che rendano difficile e costoso fare ricorsi che paralizzerebbero l’attuazione dei programmi stessi.