Morire di fattanza al tempo del siamo tutti reclusi


Anna Paola Lacatena | 17 Marzo 2020

Questo articolo è stato pubblicato anche su: DEDIZIONI – Il Blog della SITD

 

Leggo dalle solite penne e ascolto dalle solite voci discorsi triti e ritriti e mi chiedo: quanto sanno questi cronisti e eroi della sesta di ciò che accade davvero nelle carceri italiane?

Leggo e mi chiedo cosa sanno veramente i cittadini italiani delle condizioni di vita delle persone recluse? Proprio ora che reclusi lo siamo un po’ tutti…

Ci crederebbero se dicessi loro che ho provato a far arrivare un pacco ad una detenuta senza familiari contenente biancheria e un paio di scarpe e dall’antivigilia di Natale non ci sono ancora riuscita?

Burocrazia si chiama e non mi riferisco alla donna che mi ha espresso questa necessità. Lei si chiama M.A. ed è molto più di una sigla.

Prima del Covid-19…

Sono stati 53 i suicidi in carcere nel 2019 in Italia, non se ne registravano così tanti dal 2009.

Nei luoghi della detenzione ci si uccide oltre 18 volte di più rispetto alla popolazione libera, ed il tasso di suicidi fra gli stranieri è esattamente il doppio rispetto a quello degli italiani.

Tra il gennaio 2018 e i primi sei mesi del 2019 (dati Dap – Dipartimento dell’amministrazione Penitenziaria) sono stati oltre 1000 episodi di violenza ad opera di detenuti a danno degli agenti di polizia penitenziaria.

Nel mese di gennaio 2020 si sono registrate 41 aggressioni in carcere ai danni di agenti penitenziari, più altri 5 contro il personale amministrativo.

Dall’ultimo Rapporto Antigone del 2019 questo in sintesi il carcere italiano oggi: cresce la quota di detenuti stranieri, il tasso di sovraffollamento è ritornato a tempi precedenti alla Sentenza Torreggiani (2013) con cui la Corte Europea dei diritti umani ha condannato l’Italia per la violazione dell’art.3 della Convenzione Europea dei Diritti Umani (CEDU); cresce il numero di tossicodipendenti e di detenuti con problemi psichiatrici (oltre il 27% della popolazione detenuta segue una terapia).

I dati, aggiornati al 29 febbraio scorso e diffusi dal sindacato di Polizia penitenziaria Sappe (riscrivibili in questi giorni dopo i decessi a Modena, i trasferimenti post – rivolte e le evasioni) a fronte di una capienza regolamentare di 50.931 detenuti (47.231 posti effettivi disponibili) attestano a 61.230 i presenti (tra questi 2702 sono donne e 19.899 stranieri) nei 189 istituti sparsi sul territorio nazionale con un tasso di sovraffollamento del 120%. A questi vanno aggiunti i 1097 detenuti in semilibertà, 156 dei quali sono stranieri.

Dalle statistiche del ministero della Giustizia presentate a gennaio 2020 emerge che in carcere ci sono quasi 20mila stranieri e all’incirca diecimila detenuti (9.920) sono ancora in attesa di giudizio. I reclusi che lavorano sono solo una minoranza privilegiata composta da 16.850 unità.

 

Nel frattempo del Covid- 19…

Sono almeno 26 le rivolte nelle carceri italiane consumatesi nel giro di 48 ore dove si sono verificati gravi incidenti. Si contano dodici morti, decine di detenuti evasi a Foggia, sommosse a Modena, all’Ucciardone, a San Vittore, Rebibbia e Regina Coeli. In Basilicata, a Melfi agenti di custodia e sanitari son o stati presi in ostaggio dai rivoltosi.

Ciò che ha scatenato il caos è stata per l’opinione pubblica la decisione del Ministero della Giustizia di sospendere dal 9 al 22 marzo 2020 i colloqui con i congiunti o con altre persone cui hanno diritto i condannati, gli internati e gli imputati. Gli stessi rassicura la circolare “verranno svolti a distanza, mediante, ove possibile, apparecchiature e collegamenti di cui dispone l’amministrazione penitenziaria e minorile o mediante corrispondenza telefonica, che può essere autorizzata oltre i limiti della normativa vigente”.

Non basta.

A questa va aggiunto il decreto di prossima pubblicazione, secondo il quale la magistratura di sorveglianza potrà sospendere la concessione dei permessi premio e del regime di semilibertà fino alla fine di maggio 2020. Quegli stessi Tribunali di Sorveglianza che presentano da anni gravi carenze di personale e impiegano anche dodici mesi per emettere un’ordinanza.

Non basta.

Non vanno dimenticate le condizioni igienico-sanitarie in cui versano molte strutture, l’amplificazione dell’ansia generata dal bombardamento mediatico di informazioni non sempre concordi e comprensibili a tutti – e si sa che in carcere la tv rappresenta uno dei pochi contatti con il mondo esterno – la paura, l’assenza forzata di quelle figure (operatori psico-sociali e volontari) che quotidianamente squarciano l’altrimenti completo isolamento.

Non basta.

Forse bisognerebbe aggiungere la volontà di qualcuno di cavalcare l’onda dell’emergenza per creare le condizioni favorenti regolamenti di conti interni, evasioni, malcontento, strumentalizzazioni e di quanti vedono nelle visite dei parenti delle opportunità di approvvigionamento dall’esterno. Non è credibile il pensiero di un carcere in grado di isolarsi completamento dal traffico di sostanze stupefacenti.

Basta a spiegare le rivolte di questi giorni?

 

In attesa di una riflessione realistica, restano i numeri che numeri non sono: nel carcere di Modena il sovraffollamento è al 152%, con 562 detenuti a fronte di 369 posti. A Bologna il sovraffollamento è al 178%, con 500 soli posti a fronte di 891 ristretti. Percentuale non dissimile è quella registrata a Roma nel carcere di Regina Coeli (172%) con 1061 e una capienza ferma a quota 616, mentre di poco più vivibile si presenta l’altro penitenziario romano Rebibbia. Nel carcere di Foggia da cui sono evasi 20 detenuti, il sovraffollamento è al 166% con 608 reclusi per 365 posti. Tanto per citare quelle realtà che hanno fatto parlare di più in questi giorni.

Da che Covid-19 è Covid-19

Dodici detenuti morti per overdose, cosa sanno le persone del trattamento riservato ai tossicodipendenti detenuti?

Il legislatore già dal 1975 (legge n.354) ed ancor più ne1990 (DPR 309/90), ha preso atto della necessità di separare i tossicodipendenti dagli altri reclusi. Tutto ciò per evitare che quest’ultimi siano oggetto di sopraffazioni, ricatti, violenze da parte degli altri detenuti considerata la propria condizione di fragilità e la percezione da parte degli altri ospiti delle strutture penitenziarie di essere una sorta di elemento di fastidio e per poter assicurare loro un regime detentivo non esclusivamente orientato alla pena e alla sicurezza ma anche al trattamento e allo svolgimento di programmi terapeutici e socio-riabilitativi (artt. 95 e 96, comma 1 del Testo unico DPR 309/90).

La persona in stato di custodia cautelare o di espiazione di pena per reati commessi in relazione al proprio stato di tossicodipendente o ritenuta dall’autorità sanitaria abitualmente dedita all’uso di sostanze stupefacenti o psicotrope o con problemi di tossicodipendenza dovrebbe avere, infatti, il diritto secondo la normativa vigente a ricevere cure mediche e assistenza necessaria all’interno degli istituti carcerari a scopo di riabilitazione esattamente così come qualsiasi libero cittadino.

Al fine di ottemperare a tutto ciò, il Ministro della Giustizia sempre secondo la legge vigente dovrebbe organizzare, con proprio decreto, su basi territoriali, reparti carcerari opportunamente attrezzati, provvedendo d’intesa con le competenti autorità regionali e con i centri specialistici che si occupano di tali problematiche.

Lo scompenso psico-fisico dettato dal regime di detenzione è, infatti, aggravato dall’interruzione dell’assunzione di sostanze stupefacenti, con crisi di astinenza dopo 24-72 ore, ma soprattutto dai meccanismi, sconosciuti ai più del craving – desiderio improvviso, intenso, incontrollabile non più regolato dal piacere – che induce la persona alla ricerca dell’oggetto della propria dipendenza.

Questo non è da assimilare all’astinenza. Il craving, infatti, un meccanismo patologico slegato dalla dipendenza fisica regolato da meccanismi neurofisiologici vari.

La compromissione del sistema dopaminergico mesolimbico-corticale, mediatore nei meccanismi motivazionali e gratificanti del craving e della corteccia prefrontale, minata dalla cronicità dell’uso essenziale, così come i più recenti studi neurobiologici evidenziano favorirebbero aggressività, rabbia, senso di frustrazione e angoscia con ricadute psichiche e fisiche importanti.

Le terapie anti-craving, molto più conosciute ma anche impropriamente definite “sostitutive”, poco agiscono sulla tossicodipendenza come malattia cronica e ad andamento recidivante- da definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. In più fattori ambientali e trigger vari possono ridestare meccanismi di riavvio della compulsione inficiando remissioni e inducendo a nuove ricadute.

Nell’accezione clinica il craving è un impulso in merito al quale il paziente non ha capacità di controllo, dunque non è un atto di volontà o di incapacità da parte del dipendente astenersi dall’uso.

Se esistono dei farmaci cosiddetti sostitutivi per gli oppiacei, nulla esiste di specifico per la cocaina.

 

Su di un ground fatto di ansia, depressione, isolamento davvero ci chiediamo il perché degli assalti di questi giorni alle infermerie per approvvigionarsi di metadone? di benzodiazepine e psicofarmaci?

Per pudore dinnanzi alla diffusa ignoranza non chiediamoci perché muoiono di overdose, chiediamoci se le sostanze entrano nelle strutture detentive e chissà che non poter ricevere visite dei parenti non significhi anche non “ricevere” e basta.

Chiediamoci se i tossicodipendenti sono davvero curati in carcere, se le prescrizioni rispondono alle loro reali necessità e non sono solo il frutto di congetture fumose e ascientifiche. Interroghiamoci sulle terapie prescritte e su quelle che non sono prescritte.

Domandiamoci se i reclusi tossicodipendenti sono davvero come prevederebbe la normativa collocati in luoghi orientati ai loro bisogni… bisogni del malato non capricci di chi pensa di conoscere la dipendenza patologica dopo aver assistito a qualche programma tv strappalacrime.

Interessante il punto di vista del Dott. Salvatore Giancane, Dirigente medico del Ser.D. di Bologna su quanto accaduto nel carcere di Modena, per il quale si è trattato dell’iniziativa di un gruppetto di detenuti con precise caratteristiche (poliassuntori, senza tolleranza agli oppiacei, incapaci di dosare o semplicemente riconoscere i canoni del dosaggio a rischio):

«Cosa può essere successo? Sicuramente l’apertura della cassaforte ha richiesto del tempo. Quelle in dotazione, in genere, sono robuste e pesanti e le modalità rozze con cui questa è stata aperta ne sono la riprova, quindi facile che questo sia avvenuto poco prima dell’irruzione. Le persone che hanno assunto il metadone ed i farmaci, probabilmente, erano poliabusatori e non avevano una tolleranza agli oppioidi. Dopo rivolte e sommosse solitamente si effettuano numerosi trasferimenti immediati verso altre carceri ed i motivi sono facilmente intuibili (dispersione del gruppo). Molti detenuti (solitamente si scelgono i più esagitati) probabilmente sono stati subito caricati sui cellulari per essere portati in altri luoghi di reclusione. Non essendo trascorso ancora abbastanza tempo, queste persone probabilmente non presentavano in quel momento sintomi preoccupanti. Giunti a destinazione hanno iniziato a stare male, in qualche caso sono morti nel sonno (favorito dall’effetto del metadone stesso), in qualche caso (come ad Ascoli) se ne sono accorti. Dalla stampa risulta anche se ne siano accorti gli agenti che stavano trasferendo due detenuti a Trento, che proprio per questo si sono fermati a Verona. Questa è la dinamica che si può ricostruire mettendo assieme le conoscenze e le notizie che sono state diffuse.»1

 

Seguendo il gergo del carcere morire nel sonno dopo aver fatto uso di sostanze è morire nella fattanza. È quanto accaduto a Modena e non solo a Modena.

 

Il Covid-19 è una vera emergenza per tutti ma è anche la scintilla per chi vive le tante contraddizioni del carcere. É la paura che esplode, è il disagio che trova attenzione. È la parte più interna di un disagio che trova il suo palcoscenico sui tetti.

Dove erano e dove sono le donne e gli uomini liberi, dove i politici e gli intellettuali (a volte più politici dei politici stessi) prima e durante il Coronavirus?

Facciamoci qualche domanda sulla nostra moralità prima che su quella degli altri.

Nel nostro Paese ci sono 8.682 detenuti che hanno un residuo pena da scontare inferiore ai 12 mesi e altri 8.146 che devono scontare pene tra i dodici e i ventiquattro, non sarebbe il caso di applicare il principio di prevenzione della “rarefazione sociale” per evitare ogni forma di aggregazione anche alla popolazione carceraria, come affermato dal Senatore Pierpaolo Sileri, vice ministro alla salute?

 

 … E dopo il Covid-19?

Dialogando qualche tempo fa con una persona che aveva scontato la sua pena ed era ritornato libero, gli ho chiesto se chi è ristretto ha paura di chi sta fuori. Generalmente ci poniamo la questione al contrario.

La sua risposta è stata: sì, quando chi sta dentro pensa che di loro a chi sta fuori non gliene importa niente.

Amnistia e indulto, moratoria dell’esecuzione penale si configurano come possibili misure idonee a riportare l’universo detentivo nell’alveo dello Stato di diritto in questo difficile frangente.

Le condizioni delle persone detenute non chiedono, però, attenzione solo in tempo di epidemia, altrimenti superata l’emergenza, il Covid-19 rappresenterà l’ennesimo “visitatore” incapace di cambiare qualcosa in positivo per l’intera società.

  1. Fonte consultata l’11 marzo 2020).