Jobs Act e salario minimo


Marco Leonardi | 26 Ottobre 2019

Il tema del salario minimo e della contrattazione sono strettamente legati. Ma, a parte l’intervento sostanziale sulla detassazione dei premi di produttività e del welfare aziendale, il Jobs Act non riuscì mai ad affrontare normativamente i termini della contrattazione (nazionale/aziendale) e il salario minimo1.

La vera flessibilità, così come la capacità di creare occupazione, viene dai salari più che dai contratti (a tempo determinato/indeterminato). Pertanto bisogna dare maggiore spazio ai contratti aziendali e al salario minimo, come fece la Germania 15 anni fa, come ha fatto recentemente la Spagna e come sta facendo ora la Francia. In Italia la flessibilità dei salari (e la loro adattabilità ad aziende con condizioni di lavoro assai diverse in territori assai diversi) è data da 800 contratti nazionali, alcuni dei quali (a volte definiti “accordi pirata”) definiscono bassi livelli salariali senza controllo della effettiva rappresentatività sindacale delle parti che negoziano e sottoscrivono.

Il modello alternativo che ci proponevamo di introdurre è quello costituito dallo spostamento normativo sul contratto aziendale e/o il salario minimo. Il salario minimo legale era previsto nella legge delega del Jobs Act, ma quella delega non fu mai esercitata nonostante il fatto che il salario minimo apparisse con una formula assai blanda: “salario minimo legale nei settori non coperti da CCNL”. Essendoci in Italia più di 800 CCNL era difficile capire quale settore potesse effettivamente essere sprovvisto di CCNL. Tuttavia la resistenza delle parti sociali fu netta e il salario minimo non si fece. L’opposizione delle parti sociali fu la ragione del fallimento di quel tentativo di regolare i contratti aziendali (e il salario minimo), combinata con la mancata volontà del Governo di forzare ancora una volta la mano dopo il contratto a tutele crescenti. La posizione dei sindacati e di Confindustria era determinata dal timore (a mio giudizio infondato) che i CCNL si sarebbero indeboliti di fronte al salario minimo (che era previsto solo nei settori non coperti dalla contrattazione, ma che avrebbe costituito comunque un riferimento per tutti i contratti), e con i CCNL anche il ruolo di rappresentanza delle parti sociali. Inoltre, proprio a quel tempo si era aperta la trattativa sul rinnovo del contratto Metalmeccanici, uno dei CCNL più importanti. Anche FCA non era d’accordo a spostare il baricentro della contrattazione sui contratti aziendali perché anni prima aveva risolto la questione della poca flessibilità del contratto nazionale dei metalmeccanici uscendo da Confindustria per fare un proprio contratto sempre di primo livello nazionale. Nel 2016 le parti sociali difesero il ruolo preminente del CCNL e la loro autonomia negoziale, del resto avevano stretto diversi accordi tra le parti (l’ultimo nel 2014) che articolavano i criteri per misurare la rappresentatività di chi può firmare contratti nazionali. Ancora oggi difendono il ruolo dei CCNL però si sono resi conto che i soli accordi tra le parti non possono funzionare e si sono orientati a chiedere una legge che li assorba. Lo hanno fatto in maniera esplicita nel 2018 firmando un nuovo accordo tra le parti, il cosiddetto “patto della fabbrica”. 

Il patto della fabbrica è pieno di intendimenti giusti (sulla rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro, sulla formazione, sulla partecipazione dei lavoratori, sulle politiche attive) ma pochi contenuti concreti. Ben sapendo che la politica da tempo sta pensando ad interventi imminenti, le parti sociali “mettono le mani avanti” su due punti: sulla misurazione della rappresentanza dei sindacati (e dei datori di lavoro) per stabilire chi ha diritto di firmare contratti collettivi nazionali e sul salario minimo legale. Come altri accordi precedenti dal 2014 in poi (mai messi in pratica), anche il patto della fabbrica articola il meccanismo di misurazione della rappresentanza dei sindacati e accenna anche all’esigenza di misurare la rappresentanza dei datori di lavoro. Consci del fatto che tali accordi non funzionano senza una legge che renda la misurazione vincolante per tutti, e non solo per gli associati alle parti firmatarie dell’accordo, le parti sociali cercano di indirizzare la futura legislazione nella direzione dell’assorbimento di questi accordi. Allo stesso modo per il salario minimo legale. Essendo sempre stati contrari al salario minimo legale, ma temendo che le promesse elettorali di quasi tutti i partiti possano avere la meglio, il patto per la fabbrica fissa i criteri di determinazione del salario nei contratti collettivi nazionali in modo da mandare un messaggio chiaro alla politica: se volete fare una legge sul salario minimo basta che adottiate i salari così come li abbiamo definiti noi.

  1. Questo articolo è tratto da da M. Leonardi (2018) “Le riforme dimezzate”.