Presente e futuro del salario minimo in Italia e all’estero


Daniele Checchi | 26 Ottobre 2019

Il salario minimo è uno strumento ormai molto diffuso per regolare il mercato del lavoro tutelando i lavoratori che hanno un limitato potere contrattuale (tipicamente giovani dequalificati, lavoratori anziani estromessi o a rischio estromissione dall’occupazione). Sebbene esso sia ampiamente diffuso nei paesi di area Ocse, dove 29 su 37 paesi membri posseggono una qualche forma di salario minimo, tale strumento è altresì diffuso in diversi paesi a medio o persino basso reddito pro-capite (in particolare in Africa e buona parte dell’America Latina).

L’Italia è uno dei pochi paesi europei che non dispone di una misura del genere, anche se tra le deleghe previste nel “Jobs act” (legge 10 dicembre 2014, n. 183) vi era il progetto di introdurre tale misura. Un ruolo analogo viene svolto dai contratti nazionali di settore, che fissano dei minimi retributivi per qualifica, ma tali contratti hanno un potere vincolante solo per le controparti firmatarie del contratto. Tuttavia un lavoratore che non aderisca ad alcun sindacato può comunque chiedere l’applicazione delle tariffe sindacali, invocando il principio dell’equa retribuzione previsto dal dettato costituzionale (art. 36). Per questa via i contratti sindacali in Italia tendono ad avere una validità erga omnes, anche se non esiste alcuna norma legislativa che richieda al legislatore di recepire gli esiti della contrattazione (come accade invece per esempio in Francia). 

Un problema che sta però diffondendosi in Italia è quello dei contratti in deroga, in cui i datori di lavoro non aderenti alle organizzazioni datoriali (o che ne disdicono l’affiliazione, come fece clamorosamente Fiat rispetto a Confindustria nel 2011) siglano con controparti sindacali non meglio definite accordi che prevedono trattamenti salariali inferiori ai contratti nazionali. Più frequentemente, questi contratti riducono o cancellano le tutele accessorie dei lavoratori (ferie, malattia, indennità di turno e/o di straordinario), allo scopo di produrre una riduzione del costo del lavoro. Vale infine la pena di richiamare che restano comunque senza alcuna forma di tutela nella fissazione salariale tutti i lavoratori in nero (che tuttavia non sono in linea di principio tutelabili in assenza di riemersione del rapporto di lavoro) e tutte le prestazioni lavorative di natura parasubordinata, oltre che una quota di lavoratori fittiziamente autonomi, in quanto caratterizzati da mono-committenza (le cosiddette “partite IVA fasulle”). In questo quadro viene da domandarsi se l’introduzione di una misura di salario minimo nel nostro paese possa beneficiare i segmenti più deboli nell’attuale mercato del lavoro (giovani NEET, lavoratori stranieri, donne con bassi livelli di qualificazione), tenendo anche conto del forte dualismo territoriale che caratterizza il nostro paese. Seguendo una delle proposte avanzate da Tony Atkinson (1944-2017) in uno dei suoi ultimi contributi, il Forum Diseguaglianze Diversità ha organizzato dei momenti pubblici di discussione.

In questo lavoro di approfondimento, gli elementi valutativi che sono emersi dalla discussione sono stati i seguenti:

  1. l’efficacia della protezione: i settori deboli del mercato del lavoro che dovrebbero essere tutelati da questa misura rischiano di non esserlo, dal momento che essa può essere facilmente aggirata giocando sull’orario di lavoro di fatto (basta leggere le cronache sullo sfruttamento dei lavoratori migranti nel settore agricolo);
  2. selettività degli ambiti di applicazione: una norma è tanto più efficace quanto più è semplice e comprensibile. Per contro, nella maggioranza delle esperienze esistenti, i minimi salariali sono differenziati per settore produttivo e/o per caratteristiche del lavoratore (età, genere, qualifica). Non è evidente come convenga collocare una eventuale via italiana al salario minimo tra questi due estremi;
  3. impatto sulla struttura dei settori produttivi: una norma che fissi un prezzo minimo al lavoro impone implicitamente una soglia minima di produttività, al di sotto della quale l’impresa fa perdite e nel medio periodo chiude l’attività. Quindi il salario minimo produce come effetto indiretto un rafforzamento della struttura produttiva attraverso l’eliminazione delle imprese più deboli in quanto meno produttive. Nella fase di transizione tuttavia si produce disoccupazione, in particolare tra i lavoratori con più basso potere contrattuale, che sono coloro che si vorrebbero tutelare maggiormente;
  4. impatto sulla diseguaglianza retributiva: innalzando le retribuzioni più basse ci si aspetta una riduzione dei differenziali retributivi interni all’impresa e tra imprese. Tuttavia l’esperienza estera mostra che se il salario minimo diventa l’ancora di riferimento della contrattazione, ogni variazione del salario minimo si trasforma in uno spostamento dell’intera distribuzione, senza alcun impatto sugli indicatori di diseguaglianza.