La strada per una nuova assistenza a domicilio


Sergio Pasquinelli | 22 Ottobre 2020

Una rete di cure territoriali robusta, diffusa, competente. Questi mesi ne hanno dimostrato l’importanza, ma siamo ancora lontani dal raggiungerla. Ora forse si sta aprendo la strada per costruirla. I servizi di assistenza a domicilio sono una parte importante di questa territorialità e il Decreto Rilancio prevede un rafforzamento di quelli forniti dalle Asl (l’Adi) con 734 milioni di euro, l’investimento più rilevante del provvedimento a favore dell’assistenza sul territorio1. Come ha ricordato Cristiano Gori su lavoce.info si tratta una cifra che rappresenta la metà di quanto si spende a livello nazionale per questo servizio in un anno. Si tratta allora di una opportunità per superare i limiti attuali. Prima di arrivarci, facciamo però un passo indietro.

 

La visione d’insieme

Quando parliamo di singoli servizi a volte perdiamo di vista il quadro complessivo e il peso specifico delle sue varie parti. Le fragilità che possono essere seguite nei rispettivi domicili – quella delle persone con disabilità e degli anziani – trovano oggi tre risposte fondamentali, in ordine: quella delle famiglie stesse, il mercato privato della cura (badanti, ma non solo) e il servizio pubblico. Vediamole.

 

L’auto risposta poggia sulle fragili gambe dei caregiver familiari, in Italia se ne contano più di cinque milioni. Un numero destinato, per ragioni demografiche, a diminuire negli anni, così come sono destinati ad aumentare gli anziani soli e isolati. Una realtà poco visibile, intergenerazionale, lontana dai servizi pubblici. Ma questi mesi hanno rivelato un fatto nuovo. Infatti, la ricerca che abbiamo realizzato ad aprile su un campione nazionale non probabilistico di mille caregiver l’abbiamo intitolata L’Italia che aiuta chiede servizi perché solitamente, al primo posto tra ciò che si desidera, le famiglie chiedono aiuti economici. E invece qui è emersa per prima la richiesta di informazioni, aiuti diretti, insomma servizi che le sostengano nei compiti di cura.

 

La seconda area è quella del mercato privato, soprattutto badanti. Un mondo che contava, tra personale dichiarato e irregolare, quasi un milione di lavoratori alla fine dell’anno scorso e che sta attraversando imponenti cambiamenti: prima, nelle settimane del lockdown, con un’ondata di chiusure dei rapporti di lavoro, per paura di un contagio. Ora con una regolarizzazione che tocca anche il lavoro domestico e che si concluderà a metà luglio. Ci vorranno diversi mesi per capire l’effetto netto di questi due movimenti.

 

Infine abbiamo il servizio pubblico, dato dai servizi domiciliari delle Asl (Adi appunto) e i servizi domiciliari dei Comuni (Sad). Entrambi presentano criticità: nel caso dell’Adi prestazioni molto standardizzate e di durata limitata – si conta una media di 25 ore all’anno per utente. Nel caso dei Sad un’assistenza di scarsa intensità – si conta una media di tre accessi alla settimana – e utilizzata da una piccola nicchia di persone fragili. In entrambi i casi non si raggiunge il 3% della popolazione ultra 65enne2. Soprattutto, binari che corrono paralleli, senza o con limitate connessioni nella maggior parte delle regioni.

 

Un nuovo perimetro dell’aiuto a domicilio

È di più Adi ciò di cui abbiamo veramente bisogno?

L’assistenza a domicilio delle Asl si traduce prevalentemente in prestazioni infermieristiche di durata limitata, mentre i bisogni delle persone fragili (persone con disabilità, anziani non autosufficienti) sono prevalentemente continuativi nel tempo, non necessariamente infermieristico-sanitari. Si parla di long term care, assistenza a lungo termine: pensiamo per esempio al fenomeno delle demenze, in crescita esponenziale.

Ciò di cui c’è bisogno è allora un ventaglio ampio di supporti perché i bisogni cruciali delle persone fragili non sono solo sanitari, infermieristici, riabilitativi, ma riguardano sostegni e tutele sociali, legate agli atti della vita quotidiana3. Non solo. L’aiuto può andare al di là delle mura domestiche, fuori casa (accompagnamenti), e dovrebbe estendersi al nucleo familiare nel suo complesso: non solo la persona fragile ma i familiari, i caregiver tante volte fragili a loro volta. Ed eventualmente anche all’assistente familiare: la sua scelta, il suo percorso lavorativo. Lo schema che segue esemplifica gli aiuti possibili.

 

Tab. 1 – Una esemplificazione degli interventi a favore della domiciliarità

Assistenza sanitaria Assistenza sociale Attività extra domiciliari

Visite del medico

Prestazioni infermieristiche di vario tipo: terapie iniettive, misurazioni, controlli ecc.

Somministrazione medicine

Mobilità domestica

Igiene personale, vestizione

Preparazione pasti e alimentazione

Piccoli lavori domestici

Installazione ausili e apparecchi domotici

Sostegni a eventuale assistente familiare (matching, tutoraggio)

Accompagnamenti fuori casa

Piccole commissioni

Accompagnamento ad attività riabilitative e Centro diurno

Interventi di sostegno ai caregiver familiari

 

Adi e Sad sono attivi solo sulla prima e parte della seconda colonna. Considerare anche il resto significa guardare a soggetti diversi (non solo “la” persona utente), e a diversi gradi di fragilità, anche moderata, mentre i servizi attuali intervengono solo nelle fasi più acute (Adi) o nelle fragilità conclamate ed economicamente più deboli (Sad).

 

Quattro passaggi per un nuovo disegno

Se le nuove risorse in arrivo si limitano ad aggiungersi all’esistente, lasciando le cose come stanno, viene sprecata un’occasione per rafforzare l’assistenza di territorio in una prospettiva di sistema.

 

Propongo quattro passaggi sul “come” arrivare a servizi più aperti e versatili rispetto a quelli attuali:

  1. Missione. Come uscire dalla nicchia ed estendere la platea di famiglie aiutate dai servizi? Possiamo farlo se concepiamo servizi che facilitano, valorizzano le risorse di cura dei territori e delle famiglie (enable) e non semplicemente che erogano (provide) prestazioni. Aiutare e facilitare richiede una forte personalizzazione degli interventi, da ritagliare e finalizzare caso per caso. Se oggi la domanda si adatta all’offerta disponibile, qui la logica si ribalta. E questo richiede un lavoro diverso dei servizi: di connessione, alleanza, promozione del territorio e delle risorse familiari.
  2. Accesso. Dobbiamo ridurre la distanza tra bisogni e servizi. È impressionante la quota di famiglie che non conoscono i servizi pubblici e che addirittura non sono interessate a usarli. Sono convinto che per ridurre questa distanza occorra lavorare su luoghi fisici concreti. Penso per esempio all’esperienza emiliano-romagnola delle Case della Salute. Nel recente “Piano Colao” predisposto dalla commissione di esperti nominata dal governo, si parla di “Presidi di welfare di prossimità” come luoghi fisici e virtuali che fronteggiano le fragilità. La logica dev’essere quella del “One stop shop”, del luogo che riconnette e valorizza tutte le risorse di aiuto di un territorio, che semplifica i percorsi di accesso e garantisce una informazione aggiornata.
  3. Organizzazione. Di integrazione sociosanitaria si parla da tanti anni. Le esperienze regionali più virtuose ci dicono che si ha integrazione nella misura in cui si riesce a creare una nuova governance che faccia sintesi tra i due soggetti coinvolti, Comuni e Asl. Occorre unificare gli accessi, i percorsi di valutazione del bisogno, i piani di assistenza e, punto cruciale, le risorse investite. Una vera integrazione si realizza con un impianto condiviso di governo e gestione anche delle risorse e degli investimenti. Un disegno delle cure domiciliari di questo tipo deve poi coinvolgere il terzo settore su un piano paritetico e non come semplice subfornitore di servizi.
  4. Finanziamento. Includere i servizi domiciliari (va poi chiarito quali) nei livelli essenziali di assistenza aiuterebbe ad avere una rete più robusta e diffusa. Ma anche facendolo, non avremo mai tutte le risorse necessarie per rispondere a tutti i bisogni, soprattutto se di tipo “sociale”. La scelta finora è stata quella di una forte selezione in termini di prestazioni offerte e persone che possono accedervi, nella logica dell’universalismo selettivo. La domiciliarità di domani può far leva anche su una diversa gestione delle risorse, facendo pooling tra risorse pubbliche e quelle familiari. Una possibilità finora poco considerata riguarda i fondi mutualistici integrativi che, a costi limitati e con adeguate agevolazioni pubbliche, possono aiutare a offrire una base di sostenibilità finanziaria al welfare di domani. Tema delicato e complesso, ma affrontarlo oggi ci aiuterebbe a fronteggiare più attrezzati gli squilibri che ci attendono.
  1. Sull’assistenza territoriale seguono stanziamenti per l’infermiere di famiglia con 333 milioni, le centrali operative regionali con 72 milioni, le Usca con 61 milioni, le strutture alberghiere con 32 milioni, gli assistenti sociali con 14 milioni e gli infermieri di medicina generale con 10 milioni.
  2. Si veda Network Non Autosufficienza (NNA), L’assistenza agli anziani non autosufficienti. Sesto Rapporto, Santarcangelo di Romagna, Maggioli, 2017
  3. Lo richiama anche la lettera aperta della Bottega del Possibile che ha raccolta più di 200 adesioni

Commenti

Ringrazio per l’analisi, seppur sintetica, ma molto precisa e appropriata. Altresì per le interessanti proposte di “sviluppo” che condivido totalmente.
Lavoro in un ambito comunale come responsabile dei servizi sociali (22.000 abitanti) e credo sia quantomai necessario ed urgente riaprire una riflessione/dibattito importante sul senso/significato/prospettiva dell’assistenza domiciliare.
Si tratta di un servizio estremamente prezioso, presente nel territorio ancora a macchia di leopardo e in misura insufficiente ai bisogni. Generalmente pensato ed organizzato per prestazioni o con categorie organizzative che rispondono a modelli superati.
Infine, l’auspicata integrazione socio-sanitaria, elemento fondamentale per la convergenza degli interventi, socio-assistenziale e sanitario ma, altresì, a mio avviso, per una lettura integrata dei bisogni e, quindi, una ridefizione concordata degli obiettivi, rimane un processo istituzionale ed organizzativo non realizzato e, comunque, temo, per molti, non più interessante.
E’ del tutto evidente che si tratta di un servizio fondamentale e che spesso, consente alla famiglia di organizzarsi per la cura di un proprio caro a domicilio, evitando o ritardando l’accesso a livelli assistenziali molto più onerosi, non solo economicamente; e questo dovrebbe bastare per ogni considerazione ulteriore.
Un’ultima parola per gli operatori – infermieri e operatori socio-sanitari – che entrano quotidianamente nelle case e incontrano situazioni multiproblematiche sempre più complesse: l’assistenza diretta o l’intervento infermieristico sono attività erogate all’interno di dinamiche familiari complesse, dove possono essere presenti disagi importanti tra i componenti del nucleo ma altresì possono le patologie medesime o le condizioni di vita del destinatario dell’intervento (ad es. pensiamo alla gestione del fine vita in bambini/ragazzi/giovani/adulti)rappresentare un carico emotivo eccessivo per l’operatore, se non aiutato e supportato all’interno di percorsi di supervisione o di condivisione professionale. In questo senso, ritengo necessario che la riflessione sul servizio suddetto non possa trascurare anche questi aspetti organizzativi importanti, valutata la “solitudine dell’operatore” nell’accesso domiciliare e l’assenza, spesso, di un’èquipe di supporto.

Assistenza sociale

Mi permetto di dare un mio parere da professionista Assistente Sociale. L’ASSISTENZA SOCIALE, non riguarda soltanto le prestazioni qui sopra indicate, ma, di fatto l’intervento viene personalizzato dai Servizi Sociali Territoriali, con attenzione al percorso assistenziale. E’vero che non sempre l’assistenza domiciliare gratuita possa essere erogata a tutti i cittadini che la richiedano. Tuttavia buona parte la ottiene, mediante le tutele legislative della Legge 104″. Dunque, sarebbe sempre opportuno negli articoli, specificare bene questi fattori che, devono essere conosciuti nel modo giusto. Grazie a tutti.

Assistente Sociale.
Condivido pienamente l’analisi fatta e la necessità di implementare l’assistenza domiciliare tutta sia quella di tipo “sanitario” che “sociale”… A mio avviso sarebbe addirittura auspicabile superare la tendenza a distinguere tra ciò che è “sanitario” da ciò che è “sociale” (spesso la distinzione è usata per scaricare la competenza all’altro servizio del tipo: “… non è sanitario e allora non mi compete…” oppure il contrario “…è sanitario..allora è solo di mia competenza…”,ecc.) e usare solo il termine “sociosanitario”. Sarebbe, infatti, interessante intendere l’assistenza domiciliare come quell’insieme di interventi che sanno dare risposta sia a bisogni sanitari che sociali senza, quindi, correre il rischio che siano solo interventi di tipo prestazionale a se’ al di fuori di un progetto di presa in carico più ampio. Riprendendo una frase scritta nell’articolo: “Una vera integrazione si realizza con un impianto condiviso di governo e gestione anche delle risorse e degli investimenti”, ciò potrà avvenire, penso, solo se arriveremo ad un “budget della salute” (che contenga sia le risorse per il sociale che per il sanitario). Nonostante si continui a parlare di Assistenza Domiciliare Integrata, ho sempre più la sensazione che ciò riguardi il tentativo, non sempre ben riuscito, di integrare gli interventi solo dell’ambito sanitario (mmg, inf, fisioterapista ecc) rimanendo ancora lontani da una prassi consolidata di integrazione anche con il sociale.

Qual è il ruolo del volontariato formato in tutta questa distribuzione di professionalità? Penso che associazioni di volontariato qualificato con corsi di formazione, possano essere di grande utilità,soprattutto se la loro mission è settoriale,esempio ambito demenze. Ovviamente su piano paritario in èquipe coordinata da una figura professionale sociosanitaria