Diritto di cittadinanza


Nazzarena Zorzella | 9 Luglio 2020

Ci sono molti modi di vivere e declinare il concetto di cittadinanza, che non è necessariamente solo legislativa e giuridica. Dal punto di vista della persona può essere, infatti, molto più significativa la cittadinanza sociale, ovvero l’accesso ai diritti offerti dal territorio a parità di condizione con tutti. È vero, tuttavia, che senza la cittadinanza giuridica la persona migrante rimane sempre straniera, ovvero una persona che in ogni momento – secondo quella che è la legislazione vigente in Italia, che è simile anche negli altri paesi UE – può vedere interrotto il proprio diritto di rimanere sul territorio nazionale a causa di uno qualsiasi dei tanti eventi che possono accadere, quali condanne penali, interruzione dell’attività lavorativa, perdita del lavoro, ecc.

La cittadinanza sociale cessa, quindi, con la cessazione della legittimazione a rimanere sul territorio nazionale. La cittadinanza giuridica, ossia l’acquisizione dello status di cittadino/a italiano/a – teoricamente un passaggio naturale della persona che è inserita in una determinata comunità territoriale di cui condivide storia, vita, esperienze quotidiane – dovrebbe essere l’elemento in grado di interrompere la disuguaglianza tra cittadini nativi e stranieri.

 

La cittadinanza dovrebbe essere l’espressione del diritto di libertà della persona di scegliere se entrare a far parte o meno di una comunità territoriale, anche dal punto di vista giuridico. In realtà, per l’attuale legislazione in materia di immigrazione, non sempre è una scelta ma spesso una necessità, per non rischiare di interrompere il diritto di permanenza, ad esempio, se si perde il lavoro o se si hanno delle condanne penali.

La legge 91/1992, cosiddetta legge Turco, ha modificato la legge sulla cittadinanza del 1912, individuando una disciplina un po’ più ampia rispetto ai modi di acquisto della cittadinanza italiana, pur conservando l’approccio molto nazionalista di privilegiare il diritto di sangue (ius sanguinis) rispetto al diritto del territorio (ius soli). Questo conferma che la cittadinanza non è ancora un diritto di libertà, di appartenenza ad una comunità territoriale, bensì un obiettivo che si può raggiungere con molti ostacoli per un cittadino straniero, che non può vantare il diritto del sangue in quanto non discendente da cittadini italiani per nascita.

Percorsi di cittadinanza

La legge 91/1992 all’articolo 1 prevede un solo caso di acquisto automatico della cittadinanza: il cittadino per nascita, figlio di madre o padre cittadini italiani. Questa regola si estende anche ai figli naturali minorenni, in virtù del diritto di parità di trattamento dei minori ed anche al minore adottato.

Rispetto ai minori vediamo, quindi, una significativa differenza. Il minore straniero, seppur nato in Italia, può diventare cittadino italiano solo al raggiungimento della maggiore età: deve aspettare non i 10 anni classici ma addirittura i 18 anni e deve esprimere la volontà di diventare cittadino italiano. L’articolo 4 della legge 91/1992 è stato oggetto, nel corso degli anni, di vari interventi della giurisprudenza perché il legislatore, nei regolamenti attuativi della legge, ha irrigidito quanto previsto dalla stessa pretendendo che il minore straniero, pur essendo nato e vissuto in Italia fino ai 18 anni, potesse scegliere di diventare cittadino italiano sono nel caso in cui avesse avuto fin dalla nascita un permesso di soggiorno e un’iscrizione anagrafica. Questo irrigidimento da parte del legislatore ha creato moltissimi ostacoli, solo in parte smussati dalla giurisprudenza e solo per una minoranza, in quanto la maggior parte dei minori non ha mai percepito di avere tale diritto.

La giurisprudenza, come detto, ha chiarito che per residenza legale si deve intendere abitare in un territorio (quella famosa appartenenza a una comunità territoriale) che non necessariamente deve trovare formalizzazione in un permesso di soggiorno e in un’iscrizione anagrafica. Nel 2013 è stata introdotta una disposizione di legge che ha reso per il minore straniero nato in Italia un po’ più semplice diventare cittadino italiano. La legge di interpretazione dell’articolo 4 della legge 91/1992 ha stabilito, infatti, che gli inadempimenti dei genitori o della pubblica amministrazione, che hanno impedito l’acquisizione del doppio requisito – permesso di soggiorno e iscrizione anagrafica – non sono imputabili al minore straniero e, perciò, non possono impedire l’acquisto della cittadinanza. Questa legge ha introdotto anche l’obbligo per i Comuni di notiziare i minori stranieri nati in Italia della possibilità di scegliere di diventare cittadini italiani; notizia che deve essere inviata almeno 6 mesi prima del compimento della maggiore età e se non viene fornita, la cittadinanza può essere scelta anche dopo il 19esimo anno di età. Questa modifica legislativa del 2013 ha in parte attenuato la grande criticità che ha impedito per molti anni ai minori stranieri nati e vissuti in Italia di diventare cittadini italiani, assoggettandoli a quella costrizione di rinnovare sempre il permesso di soggiorno e di essere sempre soggetti a un controllo sull’esistenza o meno dei requisiti per poter rimanere in Italia, correndo il rischio di essere mandati nel paese di appartenenza dei genitori anche se non l’hanno mai conosciuto.

 

Un altro modo per ottenere la cittadinanza italiana è il matrimonio: a seguito di matrimonio con un/una cittadino/a italiano/a, la persona straniera può chiedere di acquisire la cittadinanza italiana a determinate condizioni. Anche questa è una previsione che risente molto del discorso pubblico , tanto che nel corso degli anni è stata soggetta a modifiche restrittive, che hanno aumentato i requisiti necessari per poter diventare cittadini italiani. Attualmente bisogna essere sposati da almeno 2 anni o, se residenti all’estero con il coniuge italiano, da almeno 3 anni. Tali termini sono dimezzati in presenza di figli. Secondo il legislatore, infatti, la nascita di figli confermerebbe che il matrimonio non è strumentale. È una norma che parte dal presupposto che i matrimoni misti siano fatti per frodare la legge e per diventare “abusivamente” cittadini italiani. In questa ottica si pone anche la recente modifica alle disposizioni previste dagli articoli 5, 6, 7 e 8 della legge 91/1992 effettuata con il primo Decreto sicurezza 113/2018, che ha eliminato dalla legge la previsione secondo cui il/la cittadino/a straniero/a che ha sposato un/una italiano/a acquisiva la cittadinanza decorsi 2 anni dalla presentazione della domanda di cittadinanza, anche se il Ministero non aveva dato alcuna risposta, con l’eccezione dei casi in cui lo Stato oppone(va) ragioni di pubblica sicurezza, Cioè, decorsi 2 anni la cittadinanza non poteva più essere negata. Tale previsione era stata spesso utilizzata perché la macchina amministrativa, molto lenta e farraginosa, nella maggior parte dei casi impediva di definire il procedimento nei 2 anni previsti. Il Decreto sicurezza non solo ha raddoppiato il termine per la conclusione del procedimento da 2 a 4 anni, ma ha pure eliminato il diritto alla cittadinanza a fronte del silenzio del Ministero. Questo sempre nella logica di disincentivare e creare ostacoli all’acquisizione della cittadinanza italiana.

 

L’altro modo classico di acquisto della cittadinanza è quello per residenza. Normalmente questo avviene dopo 10 anni di residenza e titolarità di permesso di soggiorno, in quanto il regolamento continua a chiedere la doppia regolarità. In alcuni casi – e qui emerge la prevalenza dello ius sanguinis – i termini sono dimezzati: gli stranieri discendenti da cittadini italiani per nascita possono, infatti, chiedere la cittadinanza italiana dopo una residenza di 3 anni. Al contrario, se la persona che non ha nessun legame di sangue con la stirpe italica, deve aspettare 10 anni, e poi altri 4, per diventare (forse) cittadino italiano. Gli stranieri maggiorenni adottati, gli apolidi e i rifugiati devono aspettare 5 anni di residenza, i cittadini comunitari 4 anni. Il cittadino comunitario è l’unico che può esprimere un diritto di scelta perché non ha effettive preclusioni in quanto la cittadinanza europea esprime già una parità di condizione.

In ogni caso, qualsiasi domanda di acquisto della cittadinanza deve aspettare almeno 4 anni prima di avere una risposta.

Una forma di resistenza all’ingresso di nuovi cittadini la si trova nell’articolo 14 della legge 91/1992 che disciplina la sorte del figlio minore di colui che diventa cittadino italiano, affermando che la cittadinanza acquisita dal genitore si estende anche al figlio minore convivente. Questo esclude, da un punto di vista formale, chi non convive, come le coppie separate. Anche su questo aspetto sta partendo un positivo orientamento giurisprudenziale che declina il concetto di convivenza non nel senso della coabitazione materiale, ma nel senso della convivenza affettiva e delle relazioni che un genitore ha con il figlio, indipendentemente da dove esso viva.

 

Cittadinanza e Decreto Sicurezza

Arriviamo così al Decreto sicurezza 113/2018 che ha smantellato tutto il sistema di accoglienza, aggravando la condizione della persona richiedente asilo. Questo decreto – che per la verità ha generato molta insicurezza – come già detto ha raddoppiato il termine di definizione del procedimento dai 2 anni precedenti – in realtà mai rispettati – a 4 anni. Il legislatore del 2018 ha, quindi, pensato di formalizzare questo difetto di incapacità e disorganizzazione della pubblica amministrazione alzando per legge il termine di conclusione del procedimento. Il decreto ha, inoltre, aumentato la tassa per la presentazione della domanda da 200 euro a 250 euro e ha introdotto l’obbligo di dimostrazione del test di lingua. Questo vale per tutte le cittadinanze, sia quelle per matrimonio sia quelle per residenza, ad eccezione dei minori. Il test di lingua richiede una certificazione pari al livello B1 del quadro europeo. Sono esentati i titolari di permesso di lungo soggiorno e, siccome hanno dato prova di essere “bravi cittadini stranieri”, coloro che hanno sottoscritto l’accordo di integrazione al cui interno c’è anche l’apprendimento linguistico con livello B2. Oggi si sta creando una criticità rispetto ai titolari di permesso di soggiorno UE (“Ps UE”) perché nella prassi le prefetture stanno distinguendo tra diversi tipi di permessi di lungo soggiorno: quelli acquisiti prima del 2011 – anno in cui è stato introdotto il test di lingua per l’acquisizione del “Ps UE” – e quelli acquisiti dopo tale data. Al di là di quello che dicono le circolari e i funzionari delle prefetture, bisogna sempre avere a mente quello che dice la legge, in quanto la circolare è solo una prassi applicativa che non è fonte di legge. L’articolo 10, comma 2 della Costituzione impone di disciplinare la condizione giuridica di cittadino straniero per legge: se la legge parla di esenzione del test linguistico per i titolari di “Ps UE” non ha importanza quando e come questo sia stato acquisito perché in sé certifica un radicamento sul territorio, che poi è la finalità stessa dell’acquisizione del test di lingua.

Il Decreto sicurezza ha previsto che i nuovi requisiti – il test di lingua e la durata del procedimento –si applichino anche ai procedimenti in corso, dichiarando retroattiva la legge. Questo crea diverse problematiche poiché a partire dal 5 dicembre 2018 stanno fioccando le inammissibilità di domande presentate prima, senza il requisito del test di lingua. Queste inammissibilità, peraltro, non arrivano più tramite un sistema certificato di conoscibilità (raccomandata o PEC) ma tramite e-mail che invita la persona ad andare sul portale del Ministero dell’Interno per una eventuale comunicazione di inammissibilità. Si tratta di un procedimento amministrativo diverso da quello delineato dalla legge 241/1990. Dunque, ancora una volta la creazione arbitraria di un diritto speciale per le persone straniere.

Un’altra criticità è relativa al fatto che nelle comunicazioni di inammissibilità deve essere fatta la comunicazione di preavviso di rigetto, a cui prima l’interessato poteva reagire mandando una memoria per spiegare il perché non ritiene giusto l’avviso di rigetto. Oggi questo non è più possibile: sono inammissibilità secche che comportano l’archiviazione della pratica. Su questo si svilupperà un notevole contenzioso, e confidiamo che la giurisprudenza ritenga tale prassi totalmente illegittima. A questo si aggiunge il problema di inammissibilità delle domande nuove per mancanza di un qualche requisito, per la quale viene subito mandata via e-mail la comunicazione di inammissibilità e a cui è impossibile rispondere – anche tramite avvocato – poiché la risposta, non avendo uno specifico numero di protocollo, viene rigettata dal sistema di posta elettronica del Ministero. Tutto questo impedisce di interloquire con la pubblica amministrazione, che diventa padrona assoluta senza rispettare l’articolo 96 della Costituzione.

Un altro aspetto di criticità è la retroattività del raddoppio del termine di definizione del procedimento. Se è un termine che si applica ai procedimenti di naturalizzazione – cioè quelli per residenza – è un po’ più incerta l’illegittimità di questa retroattività, mentre molto più critica è la parte che riguarda le domande di acquisto della cittadinanza per matrimonio presentate prima della riforma del 2018 e per le quali era già decorso il termine biennale, passato il quale la cittadinanza non poteva più essere negata. In questi casi non può applicarsi il nuovo termine procedimentale di 48 mesi perché si tratta di un diritto che, secondo la vecchia normativa, era già stato acquisito con il decorso del biennio. Anche questo aspetto indurrà, presumibilmente, un contenzioso.

 

L’ultimo elemento da analizzare è quello della revoca della cittadinanza. In tal senso il Decreto sicurezza ha introdotto un ossimoro rispetto alla cittadinanza: il cittadino straniero può, una volta superati tutti gli ostacoli sin qui accennati, diventare cittadino italiano ma poiché non è nato italiano ma lo è diventato, lo Stato può revocare la cittadinanza se compie dei reati gravi, come quelli che hanno a che fare con il terrorismo. Si tratta sicuramente di reati gravi, ma è singolare che si possa pensare di revocare la cittadinanza. Questo vale sia per il minore straniero nato in Italia che ha esercitato il suo diritto di diventare cittadino italiano al compimento del 18esimo anno di età, sia per il coniuge straniero non nato italiano, sia per il residente da 10 anni non nato italiano. Si tratta di una condizione sempre sospesa. Vi sono, quindi, notevoli sospetti di illegittimità costituzionale per contrasto con l’articolo 22 della Costituzione, che vieta la revoca della cittadinanza per motivi politici. I reati previsti dal Decreto sicurezza hanno delle motivazioni che – e questo non vuol dire giustificare o legittimare il progetto alla base di quei reati – sono per definizione politiche. Ci sono fortissimi sospetti di incostituzionalità anche perché la possibilità di revoca futura incentiva lo stato di apolidia, in contrasto con quanto previstodalla Convenzione di New York del 1961.

 

È chiaro, quindi, che tutti questi interventi sulla cittadinanza esprimono una netta ostilità del legislatore nei confronti della popolazione straniera. Forse, proprio a causa di questa ostilità istituzionale, risulta necessario riflettere e cercare di appoggiare sempre di più le riforme in materia di cittadinanza discusse nel corso degli anni, che potrebbero consentire di riportare il tema della cittadinanza dalla sfera pubblica e politica alla sfera dei diritti di libertà della persona.