Le politiche dell’Unione Europea sull’immigrazione


Maurizio Ambrosini | 24 Maggio 2019

L’immigrazione è oggi una delle questioni più intricate del dibattito europeo, anche perché i rituali rimandi a Bruxelles sono contraddetti dalla volontà dei governi nazionali di mantenere il controllo del dossier. La categoria degli “immigrati” raccoglie inoltre soggetti molto eterogenei, e con una dotazione assai differenziata di status legali e di diritti. Molta confusione e difficoltà di gestione del fenomeno derivano dalla sovrapposizione e commistione di popolazioni diverse: migranti tra paesi dell’UE, che godono di diritti assai prossimi a quelli dei cittadini nazionali; immigrati da paesi esterni con permessi di lunga durata; immigrati con permessi a breve termine; immigrati altamente qualificati, che nell’UE godono di un permesso di soggiorno ad hoc, la “blue card”; rifugiati a loro volta dotati di forme diverse di riconoscimento; nonché altre categorie, come gli studenti, gli sportivi, i ministri di culto.

 

Nell’UE nel 2017, su circa 510 milioni di residenti, figuravano 38,6 milioni di stranieri. 21,6 milioni di cittadinanza non comunitaria, 16,9 milioni cittadini di un paese membro dell’UE. Contrariamente a quanto si crede comunemente, in Europa come in Italia la maggior parte degli immigrati sono comunque europei. Nel 2016, 4,3 milioni di persone si sono trasferite in un paese dell’UE, compresi quanti provenivano da un altro paese dell’Unione, con un calo di quasi l’8% rispetto all’anno precedente, mentre circa 3 milioni hanno lasciato il loro paese. Quasi un milione di persone (994.800) nel 2016 hanno acquisito la cittadinanza di un paese dell’UE.

Il fenomeno si articola in modo molto variabile tra i paesi membri: il Lussemburgo capeggia la classifica dell’incidenza sulla popolazione residente, sfiorando il 45% mentre i paesi dell’Europa Centro-Orientale si collocano al polo opposto della distribuzione, con Bulgaria, Polonia, Romania attestati al di sotto del 2%.

 

Fin dagli esordi della costruzione politica dell’Unione Europea, la libertà di movimento attraverso i confini nazionali e la possibilità di cercare lavoro in altri paesi membri sono stati considerati obiettivi-chiave dagli Stati aderenti, al pari della libertà di circolazione di beni e servizi. Il progressivo superamento degli ostacoli alla mobilità dei lavoratori e la progressiva integrazione di nuovi paesi del Sud, del Centro e dell’Est dell’Europa hanno gradualmente allargato il mercato del lavoro interno all’UE, mentre le regole relative alla protezione sociale dei lavoratori e delle loro famiglie li hanno dotati della parità di accesso ai servizi pubblici all’estero a partire dal 1971.

Lo sviluppo di un libero mercato del lavoro interno è stato promosso però in contrapposizione con una chiusura selettiva nei confronti dei lavoratori esterni. L’accordo di Schengen, stabilito nel 1990, subito dopo la dissoluzione dell’impero sovietico, è considerato la pietra angolare di questa politica.

In seguito, il Trattato di Amsterdam (in vigore dal 1999) ha istituito un quadro di comunitarizzazione delle politiche migratorie degli Stati membri. Gli accordi di Tampere (1999-2004) hanno poi fissato tre principali obiettivi: la gestione dei flussi migratori, con riguardo al controllo dei confini; l’equo trattamento dei cittadini extracomunitari, con riferimento alle procedure di ammissione sul territorio dell’UE e all’integrazione sociale; i partenariati con i paesi di origine, relativi alla dimensione esterna delle politiche migratorie.

 

L’obiettivo di una politica migratoria comune dell’UE non è stato però finora raggiunto, se non parzialmente. L’attenzione si è concentrata soprattutto sul controllo dei confini e la sicurezza. In quest’area, la cooperazione tra gli Stati membri ha conseguito risultati sostanziosi, con l’istituzione nel 2004 di un’Agenzia europea per la gestione della cooperazione nel controllo dei confini esterni dell’UE, comunemente conosciuta come Frontex, seguita nel 2011 da un Sistema europeo di sorveglianza dei confini (EUROSUR).

In sintesi, gli Stati membri dell’UE non stanno perdendo il controllo sui flussi migratori, come a volte si sostiene, ma ricorrono a una combinazione di nuove misure finalizzate a porre sotto controllo l’immigrazione indesiderata. Con vari dispositivi, dall’allargamento dell’Unione alla politica dei visti, hanno manifestato la volontà di soddisfare i fabbisogni dei loro mercati del lavoro attingendo al serbatoio dell’Europa dell’Est e limitando invece severamente gli accessi dal sud del mondo.

Al contrario, la protezione dei diritti umani e l’istituzione di criteri comuni di ammissione di nuovi immigrati non hanno compiuto i medesimi progressi, avendo incontrato una fiera resistenza da parte degli Stati membri. I governi nazionali hanno difeso le loro prerogative in materia, e le istituzioni dell’UE hanno ampiamente fallito nel tentativo di stabilire regole e politiche comuni.

 

Il secondo ambito delle politiche dell’immigrazione nell’UE si riferisce all’integrazione sociale degli immigrati e all’accesso alla cittadinanza. Qui, nonostante i limiti e ritardi già ricordati, alcuni progressi sono stati conseguiti, soprattutto mediante l’adattamento delle legislazioni nazionali. Uno di questi è lo sviluppo di legislazioni tolleranti nei confronti della doppia cittadinanza, una tendenza che vede gli Stati dell’UE all’avanguardia di un processo globale, che comprende attualmente più di cento paesi del mondo. Al vertice di Tampere inoltre i governi hanno aderito al principio di riconoscere agli immigrati extra-comunitari diritti e doveri comparabili a quelli dei cittadini dell’UE, anche se questi impegni sono stati attuati lentamente e fra molte difficoltà.

Si può osservare altresì una certa convergenza negli approcci europei all’integrazione socio-culturale degli immigrati dai paesi terzi. Una nuova domanda di “integrazione civica” è diventata un tratto comune delle politiche in materia. Agli immigrati neo-arrivati è ora richiesto di frequentare corsi specifici per imparare la lingua nazionale, di acquisire una conoscenza basilare di costituzioni, leggi e vicende storiche dei paesi di destinazione, di dichiarare esplicitamente di accettare le regole delle democrazie liberali, di mostrare lealtà nei confronti del paese in cui chiedono di stabilirsi. Accordi specifici, come il “contratto d’integrazione” in Francia e in Italia, mirano a conferire una veste contrattuale a questo complesso di obblighi. Un altro aspetto dell’integrazione civica riguarda l’autosufficienza economica: gli Stati si propongono come compito principale quello di rendere gli immigrati più indipendenti dagli Stati stessi.

La convergenza delle politiche dell’UE per l’integrazione degli immigrati ha però un contrappunto più liberale: l’accordo del 2004 stabilisce anche l’impegno nei confronti dell’uguaglianza di trattamento e della non discriminazione, non solo per i cittadini dei paesi membri dell’UE, ma anche per gli immigrati extracomunitari. In sintesi, l’integrazione civica e le misure anti-discriminatorie sono i due pilastri delle attuali politiche dell’UE per l’integrazione degli immigrati.

Negli ultimi anni il fuoco dei riflettori si è però concentrato su una componente specifica e minoritaria dei fenomeni migratori, quella dei rifugiati. I naufragi e la perdita di vite umane nel Mediterraneo hanno ripetutamente scioccato le opinioni pubbliche europee. I timori di invasioni e le minacce terroristiche hanno però prevalso nel tempo, rafforzando la richiesta di chiusure e respingimenti.

 

Per inquadrare la questione, va ricordato che in realtà, secondo i dati prodotti dall’UNHCR (2018) l’85% dei rifugiati internazionali (circa 23 milioni nel 2017) trova accoglienza in paesi del terzo mondo. L’Europa ne accoglie il 13%. L’unico paese europeo che compare tra i primi dieci paesi di accoglienza di rifugiati è la Germania, collocata peraltro dietro il piccolo Libano. La percezione dell’opinione pubblica e dei mass-media è però un’altra, e la politica si deve misurare con questa.

Come è noto, il pilastro delle politiche dell’UE sull’asilo è rappresentato dalle convenzioni di Dublino, in cui si prevede che il primo paese d’ingresso dei richiedenti asilo deve identificarli, fornire loro la necessaria assistenza e valutare la loro istanza di protezione internazionale. Le convenzioni sono rimaste in piedi, mentre la strategia di ricollocazione varata nel 2015 è sostanzialmente fallita (solo 13.000 ricollocati) ed è stata abbandonata. Di conseguenza l’UE insieme ai governi nazionali ha compiuto nel 2016 una sorta di rovesciamento delle politiche sul fronte dell’accoglienza dei rifugiati. Sotto la regia tedesca, ha firmato un controverso accordo con la Turchia per bloccare gli arrivi dalla Siria, riprendendo una politica non nuova di esternalizzazione dei confini.

A dispetto delle critiche degli attori umanitari, l’UE e i governi nazionali hanno replicato la medesima politica nella gestione degli arrivi dall’Africa, prima con il Niger e poi con la Libia. In modo particolare il nostro governo con l’accordo del marzo 2017 con Tripoli, il riarmo della guardia costiera libica, le azioni contro le ONG impegnate nei salvataggi in mare, i finanziamenti alle autorità locali dei porti d’imbarco, ha riproposto il vecchio ruolo della Libia come guardia di confine esterna a protezione del nostro paese contro arrivi indesiderati. Se il successo di questa politica si misura in termini di volume di arrivi, indubbiamente questa strategia per ora si è dimostrata efficace. Dimostra tra l’altro che non era in atto nessuna invasione, se è stato così facile bloccarla. Se i criteri si allargano alla protezione dei diritti umani, il bilancio diventa più fosco.

In termini sintetici, l’UE nei prossimi anni sarà chiamata ad assumere scelte politiche impegnative su tre tematiche. La prima è quella delle condizioni di ingresso, con particolare riferimento all’immigrazione per lavoro. Attingere nell’Europa dell’Est non sarà più sufficiente, anche perché le carenze di manodopera stanno manifestandosi anche lì. La Germania ha ribadito il proprio ruolo-pilota nell’autunno 2018 varando un’apertura per gli immigrati dotati di certificati di formazione professionale, ossia con qualifiche medio-basse.

 

La seconda tematica riguarda l’integrazione degli immigrati insediati sul territorio dell’UE. Qui malgrado i progressi nell’ambito dei diritti sociali i ritardi sono particolarmente evidenti, come pure le resistenze degli Stati membri a cedere sovranità su questioni che hanno a che fare con l’identità nazionale, la storia e la rappresentazione delle comunità politiche. Un’UE più integrata e socialmente coesa non potrà però evitare di porsi questioni come quelle di una maggiore armonizzazione dei criteri di naturalizzazione e di accesso al voto locale, soprattutto nei riguardi delle seconde generazioni di origine immigrata.

 

La terza grande arena di discussione concerne la questione dell’asilo e coinvolge la solidarietà interna all’UE. Le convenzioni di Dublino sono da tempo in discussione, e la soluzione dell’esternalizzazione dei controlli e dell’accoglienza non risponde agli standard di civiltà giuridica che l’UE rivendica con orgoglio. L’idea della flessibilità nell’attuazione dei principi di solidarietà e di tutela dei diritti umani sostenuta dai paesi del gruppo di Visegrad (ma in modo più opaco anche da altri) sta ingenerando un paradosso potenzialmente distruttivo per il progetto europeo: siamo in presenza di un’Unione rigidissima in materia di regole economiche, dalle banche alle quote latte, ma molto elastica e in fin dei conti pressoché silente quando sono in gioco diritti umani fondamentali.