L’impatto sociale della Brexit


Chiara Crepaldi | 16 Maggio 2019

Ripubblichiamo un articolo pubblicato su Welforum il 27 settembre 2018 con gli aggiornamenti legati all’evoluzione, intensa e a tratti drammatica, dell’Iter legato ai negoziati per l’approvazione dell’ipotesi di accordo tra il governo inglese e l’Europa, che ha portato, dopo 3 mesi di voti e bocciature a qualsiasi ipotesi di accordo da parte del Parlamento inglese, alla proroga della data di uscita al 31 ottobre 2019 e alla rinuncia all’uscita senza accordo.

 

Dopo quasi tre anni dal voto non si riesce ancora a capire quali saranno le effettive conseguenze sociali ed economiche e soprattutto quale sarà la sorte dei 4 milioni di persone tra cittadini europei che vivono nel Regno Unito e dei 1,2 milioni di cittadini britannici che vivono in altri paesi Ue1. Per il momento secondo la Commissione europea “Non ci sarebbero accordi specifici per i cittadini Ue nel Regno Unito, e per i cittadini del Regno Unito nella Ue» ponendo quindi grosse incertezze sulla sorte dei lavoratori europei residenti nel Regno Unito, per i quali si prospetta la fine della libera circolazione.

Negli ultimi tre anni sono stati realizzati numerosi studi relativi all’impatto sociale da attendersi in particolare in caso di mancato accordo con la UE (la cosiddetta hard Brexit). Il Parlamento britannico ha aperto una sezione del suo sito istituzionale per dare spazio ai diversi studi commissionati dalle diverse istituzioni governative relativamente agli impatti attesi in tutti i settori dell’economica e della vita sociale del paese. Tra i settori considerati vi sono quelli a cui faremo riferimento in questo articolo ovvero le politiche sociali e sanitarie, l’istruzione e l’occupazione.

 

Un primo importante tema è proprio quello dell’occupazione sia in termini generali sia in comparti specifici come quello della sanità, dell’assistenza sociale e dell’istruzione. Non ci occupiamo qui dell’impatto diretto ed indiretto sull’occupazione derivante dalla contrazione dell’economia a seguito dall’uscita dall’area di libero scambio (una perdita stimata dalla Banca Mondiale in circa il 4% del PIL), ma solo dell’aspetto più direttamente connesso al problema della cittadinanza UE, non più valido titolo di soggiorno in UK da aprile del prossimo anno.

Nel primo trimestre del 2017 nel Regno Unito i lavoratori cittadini di paesi UE27 erano quasi 2,5 milioni, vale a dire poco più del 7% di tutte le persone occupate, un terzo delle quali residenti a Londra.

Si tratta di lavoratori prevalentemente occupati in mansioni a bassa specializzazione, sebbene vi sia una forte differenziazione tra i paesi europei di prima adesione (tra cui l’Italia) e i nuovi paesi (quelli dell’Est Europa). Mentre infatti tra i primi il 41% della forza lavoro è occupata in posizioni manageriali, (percentuale ben superiore addirittura a quella degli stessi i britannici: 33%) gli europei dell’est accedono a questo livello solo nell’11% dei casi.2.

Il forte rischio a cui la Gran Bretagna si troverà esposta in caso di mancato accordo sulla libera circolazione dei lavoratori è dunque la perdita di una fascia consistente di professionisti esperti e di manager, con Londra particolarmente esposta e con un prevedibile impatto sui valori immobiliari, che già da mesi si sta avvertendo.

 

Occorre poi aggiungere che anche il mancato accesso ai fondi FSE per l’occupazione potranno portare a delle criticità non irrilevanti dato che il paese riceve 500 milioni all’anno per supportare i lavoratori nelle comunità più deprivate e remote del paese che attualmente il Governo non tutela3.

Il tema dei fondi europei è senz’altro un tema importante per l’economia britannica visto che, come riporta il Sole 24 ore, nel periodo 2014-2020 il Regno Unito può contare su 17,2 miliardi euro in arrivo dai fondi strutturali e di investimenti e 22,5 miliardi di euro dal Fondo europeo agricolo di garanzia.

 

C’è da considerare poi più nello specifico il tema dei lavoratori nel comparto della sanità e dell’assistenza sociale, composta in modo significativo da lavoratori UE (tra il 5.5 e il 6.5%). Un approfondimento condotto su 2.000 medici stranieri ha portato a stimare in circa il 60% coloro che intendono lasciare il paese a seguito della Brexit. La strategia che il Ministro della Sanità  sta iniziando a mettere in campo è quella di individuare nuovi canali di accesso di staff medico-infermieristici da altre parti del mondo, a scapito evidentemente dei lavoratori europei, tra i quali gli italiani sono molto presenti (circa 6.000 nella sola sanità pubblica) 4.

I lavoratori europei nell’ambito dei servizi sociali sono stimati in circa 95.000, la maggior parte dei quali addetti alla cura alla persona. Nelle bozze di accordo si sta provando a negoziare un periodo di transizione durante il quale la situazione per i lavoratori di questo comparto possa rimanere invariata. L’accordo tuttavia non è stato ancora firmato5. Parallelamente al problema dei lavoratori si profilerà necessariamente quello delle persone bisognose di assistenza che rischieranno di trovarsi privi della necessaria assistenza e cura.

 

Anche l’accesso alle prestazioni sanitarie tra Regno Unito e UE diventerà difficoltoso. In assenza di un accordo i cittadini europei e quelli britannici residenti in Europa non avranno più accesso alle cure in regime di reciprocità e, secondo lo studio citato dal Parlamento britannico diventerà molto difficile per i cittadini britannici con malattie croniche e con disabilità spostarsi in Europa6.

Dal punto di vista della sanità vengono evidenziate anche possibili importanti criticità sulla disponibilità di farmaci:  il più difficile accesso alle cure antibiotiche per esempio secondo la Banca Mondiale avrà un impatto significativo in termini di “aumento della morbidità e della mortalità, con un aumento del carico sui sistemi sanitari, della povertà e con pesanti perdite all’economia globale”  anche perché il problema non andrà a toccare solo i cittadini ma anche gli allevamenti animali e l’agricoltura7. Ci si aspetta inoltre che il costo dei farmaci possa crescere consistentemente soprattutto per i farmaci nuovi, che non potranno più godere dell’approvazione dell’EMA, ma dovranno duplicare il percorso di validazione ed approvazione, rendendo il Regno Unito un mercato probabilmente meno attrattivo, ma anche per i farmaci tradizionali che dovranno sottostare a controlli di frontiera, tariffazioni e tassazioni ad hoc, con rischi di lunghi stop alle frontiere8.

 

Il settore dell’istruzione superiore è considerato una delle grandi industrie del Regno Unito tanto che contribuisce per 73 miliardi di sterline all’economia del Regno Unito. Una stima un po’ datata (2011) descrive in quasi 10 miliardi di sterline il contributo degli studenti stranieri all’economia britannica considerando solamente le rette scolastiche e le spese di mantenimento nel paese. Gli studenti europei che studiavano presso istituzioni scolastiche britanniche nel 2015 erano circa 125.000 potendo beneficiare delle stesse tasse di iscrizione previste per gli inglesi, situazione che evidentemente si modificherà in assenza di un accordo.

Gli studi condotti dal governo britannico stimano anche un impatto consistente sul mondo accademico e della ricerca. I ricercatori europei impiegati in università del Regno Unito sono più di 30.000 e in molte università del paese le posizioni di assistenti e post-dottorato sono coperte anche fino al 50% da cittadini UE. ll settore beneficia fortemente dell’appartenenza all’UE grazie alla libera circolazione del personale e degli studenti e l’accesso ai finanziamenti per la ricerca. Per il settore dell’istruzione e della formazione ci si attende dunque un forte impatto dalla Brexit: in caso di mancato accordo il Regno Unito perderà i fondi per la ricerca derivanti dai programmi europei, tra i quali in particolare Horizon20209, rischiando di portare ad una fuga dei professori europei in altri paesi UE. Il Regno Unito inoltre uscirà dall’Erasmus, con una ricaduta significativa sia per gli studenti britannici che perderanno questa importante opportunità di crescita (e l’Italia per altro è tra le mete più scelte dai giovani inglesi), che per quelli europei in arrivo in UK (circa 31.000 ogni anno- dato 2015) che non potranno più accedere alle rinomate università britanniche per il loro periodo di studio all’estero10.

 

Non meno importante è infine il tema delle pensioni, seppure si tratti di un ambito di specifica competenza degli stati membri. Si tratterà di capire come si arriverà ad un accordo sulle posizioni previdenziali dei lavoratori stranieri e transfrontalieri perché attualmente, come parte dell’UE, il Regno Unito fa attualmente parte di un sistema di coordinamento dei diritti previdenziali per le persone che si spostano all’interno dell’UE.

 

Un ultimo interessante aspetto, recentemente sollevato da FEANTSA11, è relativo all’accesso alla casa per i cittadini europei, che potrebbe diventare particolarmente problematico: ai sensi della legge sull’immigrazione del 2014 i cittadini dell’UE hanno, attualmente, automaticamente il diritto di affittare proprietà nel Regno Unito e secondo la Residential Landlords Association (RLA), il 66% dei cittadini dell’UE residenti nel Regno Unito risiede in alloggi privati in affitto. Il problema è che i proprietari immobiliari non sanno se potranno rinnovare i contratti dei propri affittuari cittadini dell’UE dopo Marzo 2019 e nessuna chiarificazione è arrivata dal Governo in proposito. Sembra infatti che ai proprietari verrà richiesto di verificare l’immigrant status dei propri affittuari cosa che potrebbe comportare procedure complesse, a fronte delle quali, essi potrebbero preferire affittare a cittadini britannici.

In assenza di precisi accordi sui molti fronti osservati la Gran Bretagna, che stava attraversando fino allo scorso anno un periodo di particolare benessere, grazie alla riduzione ai minimi storici del tasso di disoccupazione (il più basso dal 1975 ad oggi e pari alla metà di quello del 2011) e con la metà dei beneficiari di sussidi di disoccupazione rispetto al 2011, potrebbe rapidamente trovarsi in una situazione di grave criticità economica, sociale, occupazionale, con rilevanti impatti sull’evoluzione del paese in termini di ricerca, innovazione e sviluppo, senz’altro ben oltre le previsioni fatte probabilmente troppo frettolosamente da coloro che hanno portato il paese al disastroso referendum del 2016.

  1. Fonte: Il Sole 24 Ore
  2. Fonte: Employment of other EU nationals in the UK, 3 August 2017
  3. Fonte: European Social Fund, 4 April 2018
  4. Fonte: Leaving the EU: health and welfare of UK citizens and residents 23 March 2018 e Effect on the NHS of the UK leaving the EU 21 March 2018
  5. Fonte: Leaving the EU: health and welfare of UK citizens and residents 23 March 2018
  6. Fonte: Brexit: reciprocal healthcare, 28 March 2018
  7. Fonte: Leaving the EU: antimicrobial resistance, 7 August 2018
  8. Fonte: The impact of Brexit on the pharmaceutical sector, 17 May 2018
  9. Fonte: Exiting the EU: challenges and opportunities for higher education
    Education, 25 April 2017 e Impact of exiting the EU on higher education, 15 December 2016
  10. Fonte: The future of the Erasmus+ Scheme after 2020 20 June 2018
  11. Fonte: Tratto da www.independent.co.uk

Commenti

Un paper certo documentato. Rimango però perplesso,quando viene solo valutato cioè che il Regno Unito perderebbe a non aver più accesso ai fondi comunitari, ma non cioè che risparmierebbe a non contribuirci più. Come molti testi macro-economici, non tiene conto delle disugualianze sociali, territoriali, generazionali, che hanno generato ieri ed impattano oggi sulla Brexit hard o soft che sia. Infine, il Regno Unito non è mai stato completamente dentro l’Europa (opting out, trattativa Cameron), probabilemtne non sarà mai completamente fuori?