Come contrastare la fuga degli italiani


Fiorella Farinelli | 6 Giugno 2018

Lo studio del Politecnico di Milano sulla segregazione sociale ed etnica nelle scuole dell’obbligo della città ha suscitato pochi commenti. E nessun impatto, si direbbe, sugli orientamenti del mondo della scuola e della politica. Eppure la messa a fuoco di un fenomeno che va ben oltre il rispecchiamento negli istituti scolastici degli addensamenti abitativi di famiglie italiane svantaggiate e immigrate, racconta una realtà allarmante, presumibilmente non limitata al contesto milanese. La verità è che si tende a minimizzare perché il tema è, da più punti di vista, di quelli scomodi.

 

La sottovalutazione c’é anche sulla segregazione formativa nei percorsi post-scuola media, sebbene il loro primo segmento sia dal 2008 parte integrante del ciclo obbligatorio. Ma a determinare gli “accessi separati”, ovvero la connotazione prevalente delle popolazioni scolastiche di riferimento, in questo caso sono gli indirizzi scolastici stessi. O meglio la loro gerarchizzazione, figlia di una cultura antica e classista che si stenta a superare, con quel che ne segue. Non va bene neanche qui che più delle vocazioni e capacità individuali conti il background originario, l’essere nati o no in Italia (talora persino il genere), e però lo studio del Politecnico ha ottime ragioni per sottolineare che la partita decisiva si gioca nelle scuole primaria e media. Perché è questo il luogo educativo dedicato non solo ad assicurare pari opportunità d’istruzione ma anche a generare, se non l’uguaglianza effettiva, almeno la preziosa convinzione di avere tutti eguali diritti, e l’apertura sentimentale e cognitiva a ciò che unisce al di là delle diversità. Mentre gli accessi separati vanno in direzione opposta. La stessa in cui va il fatto che a non usufruire della scuola per l’infanzia, decisiva per l’apprendimento linguistico, sia quasi il 25% dei figli di stranieri – e di più le bambine di alcune nazionalità – contro il 4-5% degli italiani.

Tra i nodi più complicati, difficili perfino da discutere, ce ne sono di politici, connessi con le contrarietà all’immigrazione e alla sua pur indispensabile integrazione. Cui s’intrecciano gli effetti velenosi della circolare Gelmini sulla soglia del 30% di alunni stranieri per classe. Non tanto quelli diretti (la soglia è aggirabile nel caso, sempre più frequente, di stranieri italofoni nati in Italia), ma quelli indiretti. Scatenati dalla potente legittimazione istituzionale offerta alla grande paura di tante famiglie italiane per i rischi in termini di apprendimento che si correrebbero nelle classi/scuole gremite di “casi difficili”. In un clima politico diverso, quella circolare avrebbe potuto perfino innescare sensate e ordinarie intese tra istituti di regolazione delle iscrizioni (è indubbiamente più vantaggioso, anche per l’apprendimento linguistico, un equilibrio in aula tra italofoni e bilingue), ma nel fuoco delle polemiche si bruciò anche la ricerca di soluzioni concrete. Tra le reazioni al provvedimento ce ne furono, del resto, anche di troppo sopra le righe, con tante scuole che, a fin di bene ma senza riflettere sulle conseguenze, scelsero di essere le “scuole dei migranti”, incoraggiandone di fatto altre a liberarsi dalla responsabilità di accoglierli.

 

Ma la diffusa fuga degli italiani del ceto medio verso scuole “senza problemi” – e la speculare rarità di interventi di rispetto di quell’“equieterogeneità” raccomandata per la formazione delle classi – si alimenta anche di altri fattori. Il primo è il combinato disposto tra un’autonomia scolastica che in troppi casi si traduce in concorrenza tra istituti giocata sul filo delle iscrizioni, e la liquidazione formale dei bacini di utenza (aggirati anche prima, ma solo con marchingegni variamente tollerati). Una liquidazione decisa con superficialità, e talora sostenuta con lo specioso argomento secondo cui ad avvantaggiarsene sarebbero stati proprio gli studenti costretti nelle periferie più disagiate: mentre è intuitivo, e oggi provato dallo studio del Politecnico, che ad approfittare della libera mobilità sono piuttosto i ceti più forti. Il secondo fattore sta nell’intreccio tra l’inossidabile centralismo di viale Trastevere e la grande gelata, rispetto agli anni della “decentralizzazione”, che tra eccessi di regionalismo e ristrettezze finanziarie è piombata sulle competenze dei Comuni a proposito del rapporto tra scuola e territorio. Una criticità molto seria, quest’ultima, perché spetterebbe ai Comuni attivare i protocolli di accoglienza, e soprattutto progettare con gli istituti dei quartieri più difficili la qualificazione e l’arricchimento dell’offerta educativa. Il modello San Salvario di Torino, insomma, in cui anni fa fu l’alleanza tra le scuole di un quartiere multietnico e l’ente locale – mediatore di collaborazione con importanti enti culturali – a stoppare i flussi in uscita ed anzi a invertirli, restituendo prestigio e attrattività agli istituti disertati dagli italiani. Se a Milano sul white flight pesa certamente anche l’erogazione di apposite “doti” per chi sceglie le scuole paritarie, ovunque a fare la differenza sono il tempo pieno, i servizi, i campi scuola estivi, un apprendimento fatto anche di sport, musica, teatro. E poi la scuola che da multiculturale diventa internazionale, con i corsi di lingue straniere anche non comunitarie. Le piste per contrastare la segregazione scolastica sono tante, bisognerebbe lavorarci di più, in modo non episodico, non legato a singoli progetti. Chissà se ci saranno le condizioni per farlo.