3.3. Proposte per l’attuazione del PNRR in sanità: aree d’intervento


Facendo seguito al nostro precedente articolo pubblicato su welforum.it, in cui abbiamo illustrato la nostra proposta per la governance e il riparto nell’ambito del PNRR1, presentiamo di seguito le nostre proposte sulla progettazione organizzativa ed operativa delle dieci diverse aree di intervento individuate nell’ambito del PNRR. Le proposte, presentate in modo organico nel documento completo, sono qui organizzate in quattro diversi ambiti tematici: sanità pubblica, rete ospedaliera, territorio e skill mix.

 

Sanità pubblica

All’interno del primo capitolo della missione salute, il PNRR riporta che entro la metà del 2022 sarà predisposto un “nuovo assetto istituzionale per la prevenzione in ambito sanitario, ambientale e climatico, in linea con l’approccio “One-Health”. L’urgenza di questa riforma deriva da un certo disallineamento tra il carico di malattia prevenibile per ogni fattore di rischio e l’effettiva offerta di attività di prevenzione per gli stessi rischi. In effetti, le risorse dedicate agli stili di vita insalubri (fumo, cattiva alimentazione, eccesso di alcolici, vita sedentaria,…) sono drasticamente inferiori a quelle impiegate nella vigilanza ambientale, lavorativa e alimentare, che determinano un minore impatto sugli esiti di salute dei cittadini. In sostanza, i Dipartimenti di Prevenzione si concentrano sulla vigilanza e prevenzione individuale, lasciando spesso in secondo piano le determinanti di salute e le interdipendenze tra salute e le altre politiche pubbliche. A questa incoerenza di fondo si aggiunge anche una sostenuta eterogeneità interregionale in termini di architettura istituzionale, dotazioni, sistemi operativi e risultati conseguiti. L’eterogeneità si estende anche alla dotazione di risorse umane, con quantità e competenze estremamente difformi e dipendenti più da allocazioni storiche che da scelte agite. Se consideriamo, ad esempio, la copertura degli screening tumorali per mammella, cervice uterina e colon retto, troveremmo un’ampia variabilità, tra alcune regioni con copertura completa ad altre in cui soltanto un cittadino eleggibile su tre ha sostenuto questi esami.

 

Proporzione di persone che hanno effettuato test di screening per mammella, cervice uterina e colon retto
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Fonte: Sperimentazione Nuovo Sistema di Garanzia su dati 2018

 

Occorre ridefinire un modello di prevenzione che espliciti il ruolo dei Dipartimenti di Prevenzione e quello dei laboratori di secondo livello, identificandone responsabilità e compiti in termini di investigazione, misura, vigilanza e promozione della salute. Il dimensionamento di queste strutture dovrà essere programmato identificando i ruoli manageriali e tecnici necessari, così come dovranno essere finanziate infrastrutture tecnologiche (incluse data wharehouse regionali) per il monitoraggio di rischi (biologici, fisici, chimici ed ergonomici) e per l’investigazione epidemiologica, anche in un’ottica di riequilibrio delle capacità disponibili. Il funzionamento del modello dovrà essere valutato in termini di output e impatti, sia riguardo la prevenzione individuale – misurando, ad esempio, il tasso di copertura vaccinale o quello degli screening – sia riguardo la promozione della salute – favorendo stili di vita salubri e ambienti che li facilitino. In questo senso, si dovrà favorire il coinvolgimento di tutti i portatori di interessi, con logiche di governance, per promuovere la salute delle comunità secondo la strategia della Salute in tutte le politiche.

 

Rete ospedaliera

Il secondo capitolo della missione salute identifica una misura di “aggiornamento tecnologico e digitale”. Due degli investimenti inclusi in questa misura riguardano proprio le infrastrutture materiali e le dotazioni tecnologiche.

Le dotazioni tecnologiche sanitarie sono in sovrannumero (160% rispetto alla media europea pro capite – fonte: Corte dei Conti 2017), obsolete (79% di indice di obsolescenza nel 2017 – fonte: Cergas, Rapporto OASI 2019, cap.13), sottoutilizzate (1,4 differenza nel numero di esami orari in Emilia-Romagna tra la Risonanza Magnetica più utilizzata e quella meno utilizzata – Fonte: Ministero della Salute 2017). I piani regionali di rinnovamento della dotazione tecnologica non devono limitarsi alla mera sostituzione di ciò che è obsoleto ma occorre introdurre macchinare nuovi e innovativi, riducendone il numero e aumentandone l’utilizzo medio.

Per quanto riguarda la rete ospedaliera, il PNRR parla di ospedali “sicuri e sostenibili”, concentrando gli interventi sugli adeguamenti delle strutture dal punto di vista antisismico. Eppure, la rete ospedaliera necessita di ulteriori interventi, di natura trasformativa, diversi a seconda del dimensionamento degli stabilimenti. Per quanto riguarda gli ospedali di piccole dimensioni, nel 2017 la rete ospedaliera italiana contava 170 ospedali poli-specialistici per acuti che, pur non essendo in aree “disagiate”, avevano un bacino di utenza minore di 80.000 abitanti e meno di 20.000 accessi annui appropriati al Pronto Soccorso (fonte: Cergas, Rapporto OASI 2020, cap.9).

 

Rete ospedaliera per tipologia di struttura
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Questi stabilimenti, per la maggior parte pubblici, privi di legami funzionali con altri presidi della rete e localizzati in aree suburbane, hanno in media 79 PL per 7 reparti e, per le prestazioni monitorate dal DM 70/2015 (fatta eccezione per gli interventi di frattura del femore), in meno di un caso su tre rispettano sia gli standard di esito che di casistica (fonte: Cergas, Rapporto OASI 2020, cap. 9). L’investimento in queste strutture non può che essere legato al raggiungimento della massa critica necessaria a raggiungere la competenza clinica e quindi gli standard di casistica ed esito. È possibile ipotizzare la creazione di équipe professionali itineranti, la messa in rete dei piccoli ospedali promuovendo logiche di specializzazione su determinate vocazioni, o, infine, logiche di accorpamento o riconversione in strutture territoriali, riducendo quindi anche i costi fissi e concentrando le dotazioni tecnologiche.

Per quanto riguarda i grandi ospedali, invece, le problematiche sono differenti. Innanzitutto, è da notare la vetustà dei fabbricati – l’indice di obsolescenza nel 2017 è dell’83% (fonte: Cergas, Rapporto OASI 2019, cap. 13) – ma ad essere obsoleti sono i modelli logistici, che comportano elevati costi di manutenzione e gestione. Si pensi soltanto alle duplicazioni delle strutture laboratoriali in alcuni grandi poli ospedalieri o ai costi di trasporto all’interno dell’ospedale per strutture estese su molti padiglioni. Nel frattempo, sono cambiati i volumi e i mix produttivi, con i PL che hanno progressivamente perso la loro centralità produttiva, determinata da altre variabili (criteri di ingresso, case mix, volumi di attività ambulatoriale, ecc.). Inoltre, a fronte di un allineamento sulla soglia di 3 PL ogni 1000 abitanti per acuti, permane una certa divergenza sulla soglia di 0,7 PL per non acuti. Infine, la concentrazione in strutture hub ha avuto velocità diverse, con il Sud Italia che ancora manca di un numero sufficiente di grandi ospedali.

 

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Fonte: Google maps

 

È imperativo seguire un nuovo paradigma nell’ammodernamento di queste strutture, accorciando il ciclo di vita economico delle strutture ospedaliere, per poterle adeguare rapidamente ai nuovi modelli organizzativi, con l’obiettivo di una vita utile delle infrastrutture inferiore ai 30 anni. L’obiettivo è di aumentare la flessibilità delle strutture, anziché investire in capacità di riserva, di concentrare la casistica, di aumentare la produttività, di ridurre i costi a parità di interventi. Le direttrici del cambiamento trasformativo, con cui realizzare questi obiettivi sono:

  • l’adozione di logiche di piattaforma e condivisione dei fattori produttivi;
  • l’aumento della rilevanza dell’attività ambulatoriale;
  • l’accorciamento dei percorsi di cura, con la logica del paziente al centro;
  • l’adozione di un modello di ospedale che sia funzionale per il territorio (orizzontale) ma anche di alta specialità (verticale);
  • l’aumento della sostenibilità e la riduzione degli impatti ambientali.

 

Territorio

La pandemia ha reso evidenti alcuni aspetti fortemente critici del nostro SSN soprattutto in termini di assistenza territoriale, aspetti che rischiano di essere notevolmente aggravati dalla crescente domanda di cure dovuta a fattori demografici (si stima un aumento del 57% di over 75 nei prossimi 50 anni), epidemiologici (è previsto un incremento di 1,4 milioni di cronici nei prossimi 5 anni) e sociali (in 10 anni aumenteranno di circa 1,4 milioni le famiglie unipersonali, che già oggi compongono il 31% della popolazione europea e il 33% di quella italiana). Per porre rimedio alle rilevanti disparità territoriali che ancora caratterizzano il nostro Paese e per potenziare i servizi di prossimità, nell’ambito della Missione Salute il PNRR indica come prima riforma da attuare il rafforzamento dei servizi territoriali, da un lato agendo a livello infrastrutturale, tramite la costruzione di nuovi Ospedali e Case di Comunità, dall’altro sostenendo l’assistenza domiciliare attraverso lo sviluppo efficiente della telemedicina. Benché riteniamo questi due elementi di estrema importanza, pensiamo che debbano essere inseriti in una cornice strategica ampia, con una visione di insieme complessiva su ciò che oggi è necessario cambiare, rafforzare, ripensare in ambito di assistenza territoriale.

 

Per questo abbiamo sviluppato cinque proposte organiche che guardano al territorio da diverse prospettive, cercando di coglierne l’elevata complessità e differenziazione tra i vari sistemi regionali. Con più di 24 milioni di pazienti cronici in costante aumento, è oltremodo necessario rafforzare la presa in carico della cronicità attraverso una chiara definizione del modello di servizio, specificando la missione, le funzioni specifiche e i ruoli dei diversi “nodi” coinvolti (poliambulatori ospedalieri, casa della salute, MMG, ambulatorio specialistico territoriale, OSCO). È poi necessario assicurare lo sviluppo di una funzione di presa in carico clinica che faccia da raccordo unitario per il paziente e ne diventi punto di riferimento (ruolo che può essere alternativamente svolto da MMG, specialista convenzionato, specialista ospedaliero, a seconda dello stadio di patologia). Al responsabile della presa in carico clinica occorre aggiungere un case manager della cronicità, ovvero una figura che faciliti l’attraversamento della filiera dei servizi, che controlli e sostenga la compliance, che attivi la medicina di iniziativa. La condizione attuativa essenziale affinché si configuri una presa in carico della cronicità efficace è la messa a disposizione di un’infrastruttura digitale e di piattaforme tecnologiche interoperabili che rendano facile e immediata la condivisione delle informazioni tra i professionisti e le strutture coinvolte e l’azione di case management proattivo. Questo risulta essere fattore abilitante essenziale anche e soprattutto nel campo dell’assistenza domiciliare: coerentemente con quanto esposto nel PNRR, crediamo sia fondamentale potenziare il ruolo dell’assistenza a domicilio, integrandola anche con le politiche sociali e di welfare. Quindi riteniamo sia necessario non solo un maggiore ricorso alla telemedicina e utilizzo di strumenti di salute digitale (FSE primo fra tutti), ma anche l’istituzione di un Fondo unico per la Long Term Care, in modo riunire in un unico centro di responsabilità tutte le risorse dedicate ai servizi alla persona non autosufficiente (risorse INPS, del SSN e degli enti locali). È necessario infine professionalizzare e organizzare in società o cooperative di servizi l’assistenza erogata dalle badanti. Nell’ambito dell’assistenza al domicilio, soluzioni complementari e di modifica radicale del setting di azione possono essere le forme di co-housing o housing sociale, in modo da permettere ai fragili o soggetti a rischio di rimanere autosufficienti tramite adattamenti delle condizioni abitative (es. domotica, condomini con servizi condivisi, etc.).

 

La terza proposta riguarda la rete ambulatoriale, che ad oggi risulta altamente frammentata (15 strutture ogni 100.000 abitanti), con una capacità produttiva ridotta (80 prestazioni/gg di media), poco integrata con la specialistica di secondo livello, favorendo quindi il ricorso diretto all’ospedale. Per questi motivi, consideriamo fondamentale agire su più fronti: innanzitutto ridurre e concentrare le strutture ambulatoriali territoriali, dotandole di maggiori spazi, tecnologie, aumentandone non solo il portafoglio di attività, ma anche il grado accessibilità al pubblico (orari e giorni di apertura più estesi ad esempio). In questo senso, sarà fondamentale capire all’interno della rete territoriale il ruolo e la funzione che verranno assegnati alle Case di comunità messe in rete con gli ambulatori specialistici territoriali. Si potranno determinare fusioni infrastrutturali o, all’opposto, coordinamenti funzionali, che determineranno concezione della Casa della Salute più disperse e reticolari.

 

Elemento cardine dell’assistenza territoriale è rappresentato dalla Medicina Generale la cui rilevanza strategica è stata riconfermata dalla pandemia da Covid19. Dai dati nazionali risulta un’elevata eterogeneità in termini di modelli organizzativi e assistenziali adottati per l’erogazione dell’attività di MG (cfr. Figura X): a parte le regioni del Centro, l’attività dei MMG continua ad essere erogata singolarmente, in studi con ridotta apparecchiatura tecnologica e con scarsa disponibilità in termini di orari e giorni di apertura per i pazienti. In questo senso, pensiamo sia fondamentale stabilire a livello uniforme, su tutto il territorio nazionale, degli standard minimi in termini infrastrutturali e di apparecchiature tecnologiche sui quali misurare la performance dei diversi sistemi regionali, significativamente superiori a quelli attuali. La riprogettazione degli spazi da dedicare alla MG deve avere due obiettivi primari: da un lato garantire una maggiore integrazione tra MMG e tra MMG e altre figure professionali (come PLS, medici di continuità assistenziale, professioni sanitarie, etc), dall’altro permettere la condivisione agevole delle tecnologie, ma anche del personale infermieristico e di supporto amministrativo, beneficiando così di economie di scala.

 

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Fonte: Rapporto OASI, 2019

 

Risulta infine necessario per il SSN nel suo complesso produrre un sistema di conoscenza che classifichi a livello nazionale i centri di cure primarie secondo diverse variabili: la gamma dei servizi offerti, le tecnologie disponibili nei centri, gli orari di apertura al pubblico, etc. In questo modo, sarà possibile conoscerne l’entità, la distribuzione sul territorio e conseguentemente calcolarne il tasso di copertura rispetto al bisogno espresso dalla popolazione di riferimento.

 

L’ultima proposta a tema territorio riguarda le strutture intermedie, che ad oggi nel nostro SSN soffrono di una duplice criticità: l’offerta presenta un grado di elevatissima eterogeneità tra i contesti regionali e le vocazioni delle diverse tipologie di strutture (Ospedali di comunità, riabilitazione, lungodegenza, RSA, hospice, etc.) spesso non possiedono confini definiti, ma anzi rischiano di sovrapporsi. Mancano una reale integrazione con gli altri setting assistenziali e un sistema di incentivi efficiente che spinga specialisti e MMG a collaborare con queste strutture. Nel PNRR viene dedicata una linea di intervento ad hoc agli Ospedali di Comunità, prevedendo di costruirne 381 entro il 2026. Fondamentale secondo noi risulta non tanto l’ampliamento tout court della rete di offerta, quanto definire bene la vocazione degli OSCO come setting alternativi all’ospedalizzazione, in particolare per anziani fragili. In secondo luogo, bisogna favorire una reale convergenza della dotazione di strutture intermedie tra i contesti regionali, incentivando il riequilibrio territoriale, definendo al contempo standard infrastrutturali e di organico e misure di esito che valutino la performance e gli outcome di salute. Le strutture intermedie risultano efficaci se ben interpretano il loro ruolo di “ponte” tra il domicilio e l’ospedale, pertanto devono essere poste in rete con gli altri setting assistenziali, affinché l’integrazione nella filiera dei servizi di assistenza sia effettiva. Risulta infine fondamentale dotare queste strutture delle adeguate strumentazioni in ambito digitale, stabilendo inoltre la disponibilità di teleconsulto e telemonitoraggio come criterio di accreditamento, in modo da incentivarne la presenza e l’utilizzo. È importante infine notare come queste strutture siano il setting ottimale per attivare programmi di skill-mix: la responsabilità manageriale e di gestione in particolare dell’equipe infermieristica è infatti un elemento da coltivare ed incentivare per una maggiore efficacia dell’attività di assistenza.

 

Skill mix

La formazione e la creazione di competenze può avere un ruolo centrale nell’accompagnamento verso il cambiamento di skill mix tra medici e professionisti sanitari che si rende necessario considerando i nuovi bisogni assistenziali, evidenziati dai trend demografici ed epidemiologici, bisogni che possono essere soddisfatti da professionisti sanitari e case manager. In particolare, riteniamo sia opportuno accompagnare questo processo attraverso le seguenti attività:

  • ripensare un cambio di ruoli nella presa in carico dei pazienti che valorizzi sia i medici sia le professioni sanitarie.
  • favorire il cambio di competenze: i nuovi ruoli assegnati devono essere accompagnati da processi formativi che preparino medici e professioni sanitarie ai ruoli ad essi assegnati.
  • ridisegnare i processi di erogazione dei servizi sanitari, tenendo conto del progresso tecnologico, della multicanalità dei percorsi nonché dei nuovi ruoli e competenze assegnate e medici e infermieri.
  1. Il PNRR è un documento di alta visione e di allocazione di importanti risorse di investimento per il SSN che devono garantire valore entro 5 anni, per ottenere l’effettivo riconoscimento finanziario da parte della EU e giustificare l’aumento del debito per le generazioni future. La partita attuativa è, quindi, solo iniziata e durerà 5 anni: un tempo breve in cui occorre definire la progettazione esecutiva per ogni misura, costruire pianificazioni regionali, attuare le politiche nelle singole aziende sanitarie locali. Il successo non può allora considerarsi scontato, richiedendo grande coesione di intenti, da perseguirsi con un forte impegno finalizzato a creare convergenze e collaborazione istituzionale. Nell’ottica descritta, un gruppo di studiosi, appartenenti a sei università di economia, management e politiche sanitarie, hanno ritenuto di confrontarsi sul tema, ed esperire il tentativo di trovare una convergenza di visioni sul futuro del SSN (e del suo ruolo nelle politiche economiche e sociali del Paese), da consegnare alla valutazione delle istituzioni e al dibattito scientifico. In particolare, il gruppo è formato Eugenio Anessi Pessina e Americo Cicchetti per l’Università Cattolica; Federico Spandonaro, Barbara Polistena e Daniela D’Angela per l’Università di Tor Vergata; Cristina Masella per il Politecnico di Milano; Giuseppe Costa per l’Università di Torino; Sabina Nuti, Federico Vola e Milena Vainieri per la Scuola Superiore Sant’Anna; Amelia Compagni, Giovanni Fattore, Francesco Longo, Michela Bobini, Francesca Meda, Claudio Buongiorno Sottoriva per l’Università Bocconi. Questa spontanea iniziativa ha permesso di elaborare delle proposte attuative sulla governance e sul riparto del PNRR, sull’autonomia e i vincoli per le regioni e le loro aziende, sullo sviluppo dei fattori abilitanti e sulla progettazione organizzativa ed operative delle diverse missioni del PNRR.