La crisi ucraina ha impresso una svolta alle politiche dell’asilo. Ma non per tutti.


Maurizio Ambrosini | 8 Marzo 2022

Il 3 marzo l’Unione europea, di fronte alle drammatiche conseguenze della guerra in Ucraina, ha assunto una decisione che segna una svolta nelle politiche dell’asilo: ha per la prima volta attivato la direttiva 55 del 20 luglio 2001, relativa alla “concessione della protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati” e alla “promozione dell’equilibrio degli sforzi tra gli Stati membri che ricevono gli sfollati”.

 

L’innovazione delle politiche europee sembra procedere per strappi, sotto l’urgenza di crisi impreviste e sconvolgenti. Così è stato per il superamento dei dogmi relativi ai limiti della spesa pubblica e alla solidarietà europea, in risposta all’impatto economico della pandemia, e così accade ora per le regole sull’accoglienza dei profughi, di fronte agli arrivi, secondo le stime, di circa 100.000 persone al giorno, perlopiù donne, anziani e bambini, in fuga dall’offensiva russa. Va ricordato che la direttiva del 2001 non era stata attivata neppure di fronte ai consistenti ingressi di profughi dal Medio Oriente nel 2015-2016: rispettivamente 1.321.000 domande di asilo nel 2015 e altre 1.259.000 nel 2016, rivolte prevalentemente alla Germania.

 

Le innovazioni vanno confrontate con i limiti posti dalle convenzioni di Dublino, che per anni hanno bloccato ogni sforzo di revisione delle norme sull’asilo: responsabilità del primo paese sicuro per l’accoglienza dei richiedenti asilo e l’esame delle loro domande; lunghi tempi di attesa e valutazione selettiva di ogni singola istanza; impossibilità per i richiedenti asilo di spostarsi in altri paesi dell’UE e di reiterare la loro domanda; limitazioni definite dalle politiche dei singoli governi in materia di accesso al mercato del lavoro e ai vari servizi sociali.

Su tutti questi aspetti l’attivazione della direttiva del 2001 ha spazzato almeno temporaneamente i vincoli. Possiamo sintetizzare in tre punti le maggiori novità. Primo, i profughi dall’Ucraina sono esentati dall’obbligo di presentare domanda di asilo e di sottoporsi alle complesse procedure necessarie per dimostrare di essere “autentici rifugiati”. Già titolari da alcuni anni del diritto a entrare nell’UE, senza obbligo di visto, per soggiorni turistici di durata inferiore ai 90 giorni, potranno rimanere sul territorio dell’Unione per un anno, rinnovabile per altri due.

 

In secondo luogo, non dovranno fermarsi nel primo paese d’ingresso, ma potranno attraversare liberamente le frontiere interne e scegliere dove insediarsi. Potranno raggiungere parenti e amici, stabilirsi in un paese di cui conoscono la lingua, o con un mercato del lavoro più promettente, o da cui sperano di ricevere servizi migliori. Quella che sembrava un’utopia si è realizzata in poche ore. Sono state saltate a piè pari non solo le anguste regole di Dublino, ma anche il sistema delle quote tanto a lungo richieste da Italia e Grecia: quella proposta abbastanza surreale secondo cui i richiedenti asilo avrebbero dovuto essere smistati in misura proporzionale tra i diversi paesi membri,  per esempio in Finlandia o in Romania, senza poter dire una parola sul loro destino. Politica comunque attuata su numeri assai modesti, per le resistenze aperte dei paesi dell’ Europa Orientale, e più striscianti da parte di parecchi altri.

Non sono cambiate solo le norme, in senso liberale, ma anche gli sguardi e i comportamenti concreti: i paesi confinanti, arcigni difensori delle frontiere e della sovranità nazionale, hanno subito aperto le porte. I paesi dell’Europa Occidentale, verso cui presumibilmente molti si dirigeranno, si preparano ad accoglierli senza palesare le divisioni interne che su questo tema li avevano finora caratterizzati. Tra questi anche l’Italia, che conta una popolazione di circa 236.000 immigrati ucraini regolarmente residenti, più 18.000 in attesa di risposta alla domanda di regolarizzazione presentata nel 2020, quando proprio l’Ucraina è risultata la prima nazione per numero di istanze. Il fatto che l’immigrazione ucraina sia prevalentemente femminile e occupata presso le famiglie italiane, dove si prende cura soprattutto degli anziani, ne ha di fatto intrecciato le biografie con quelle dei datori di lavoro, coinvolgendoli ora nell’accoglienza sul territorio.

 

In terzo luogo, sono caduti i vincoli relativi all’integrazione sociale. I rifugiati ucraini potranno fin da subito cercare lavoro, affittare un alloggio, mandare i figli a scuola, ricevere cure mediche. Diventano subito residenti regolari a tutti gli effetti.

 

In questa svolta così innovativa, almeno due problemi rimangono aperti e un paio di preoccupazioni si profilano all’orizzonte. Anzitutto, la stessa direttiva introduce una dimensione, voluta a quanto sembra dai governi dell’Europa Orientale e accolta dagli altri senza troppe proteste: la regolamentazione liberale qui illustrata vale per i cittadini ucraini, non per i cittadini di paesi terzi residenti in Ucraina e  in fuga a loro volta dalle bombe russe. Vari esponenti governativi e mass-media africani hanno già denunciato discriminazioni alle frontiere: file diverse, tempi di attesa diversi, aiuti di livello diverso, in base all’origine e al colore delle persone da accogliere. L’UE, con le norme emanate il 3 marzo, lascia ora ai governi nazionali la possibilità di scegliere se applicare anche agli sfortunati cittadini di paesi terzi le medesime regole adottate per i rifugiati ucraini, oppure sottoporli alle normali procedure per l’accesso al diritto di asilo: un tortuoso e occhiuto percorso burocratico in cui districarsi non è mai facile e l’esito imprevedibile.

 

Il secondo problema è comparativo. Le misure straordinarie di accoglienza valgono solo per i profughi dalla guerra in Ucraina, non per tutti gli altri. Degno di nota in modo particolare il caso polacco: braccia aperte agli ucraini, ma respingimenti crudeli un po’ più Nord, ai confini con la Bielorussia, per i profughi che arrivano dal Kurdistan iracheno, definiti come “un’arma ibrida” nelle mani del torvo autocrate di Minsk. A quanto pare, agli occhi dei legislatori europei come a quelli dei loro elettori, alcune guerre sono peggiori di altre, e alcuni profughi sono più meritevoli di protezione di altri. Come se in Siria o in Iraq non siano stati commessi bombardamenti indiscriminati, violenze ai danni dei civili e crimini di guerra paragonabili a quelli in atto ora in Ucraina. Se andiamo al di là della commozione che in questo momento suscita la tragedia ucraina, riesce difficile individuare i criteri di questa distinzione: è la vicinanza geografica? La percezione di una comune appartenenza europea? Oppure la religione? O peggio, la razza? La direttiva poteva essere l’occasione per una revisione complessiva delle politiche dell’asilo, ma questo almeno finora non è avvenuto. È passata la linea di un’eccezione rispetto a norme che nel loro insieme rimangono immutate. Per gli altri rifugiati continueranno a valere le convenzioni di Dublino e tutto il pesante apparato che ne disciplina la selezione.

 

Anche per i rifugiati ucraini almeno un paio di preoccupazioni si profilano. La prima si  riferisce alla natura delle emozioni, che hanno di fatto guidato la svolta di Bruxelles. Le emozioni per loro natura non durano a lungo, forse soprattutto quelle positive. Si è già visto in Germania nel 2015, quando la ventata di solidarietà e la grande mobilitazione a favore dei rifugiati si sono dissolte in pochi mesi. Qualcosa del genere è avvenuto in Italia, con il repentino cambiamento dell’atteggiamento di gran parte dell’opinione pubblica nei confronti delle ONG impegnate nei salvataggi in mare: da eroi a vice-scafisti, e addirittura pirati. Non è andata molto bene neppure ai profughi (o agli aspiranti profughi) dall’Afghanistan: in agosto, alla caduta di Kabul, sembrava che ne volessimo accogliere decine di migliaia, alla fine ne sono stati ammessi pochissimi, senza che nessuno protestasse.

Dunque oggi la domanda è: quanto durerà la mobilitazione di questi giorni? Quanto reggerà alla prova delle inevitabili difficoltà dell’integrazione di persone che nemmeno si sono preparate a emigrare, e che chiederanno servizi e aiuti di vario genere? Chi oggi generosamente si dichiara disponibile ad accoglierli in casa propria, per quanto tempo sarà disposto a farlo?

 

La seconda preoccupazione ha natura pubblica. Nessuno per ora si è posto il problema dei costi dell’accoglienza, a partire da quella abitativa, nonché dell’accesso ai vari servizi sopra richiamato. Le contrapposizioni tra profughi stranieri e poveri italiani sono state accantonate. Facile prevedere che tra non molto la questione riemergerà. L’UE dovrebbe fin da ora disegnare un piano straordinario di aiuti per i paesi e le città che stanno accogliendo i profughi ucraini, compensando almeno in parte i costi che sosteranno.

 

La svolta è importante, ha rimesso in discussione diversi aspetti delle politiche dell’asilo che apparivano inscalfibili: dal primo paese sicuro ai vincoli alla mobilità. Soprattutto, ha ridato smalto a un’immagine dell’Europa come culla dei diritti umani. Ma il processo è ancora da completare, a vantaggio dei rifugiati di tutte le guerre, e da consolidare in norme sagge e durature.