La disuguaglianza è per sempre. L’immobilità in Italia


Se gli indicatori con cui si misura la disuguaglianza economica registrano un aumento vuol dire – ed è banale – che le distanze economiche tra le persone sono aumentate.

Questo è quanto è avvenuto in Italia, e non solo, negli scorsi decenni per quello che riguarda i redditi delle famiglie e delle persone e, in modo marcato, per quella importante componente dei redditi complessivi rappresentata dai redditi da lavoro. Guardando soltanto a questi redditi e con riferimento all’universo dei lavoratori dipendenti privati risulta – dati INPS – che tra il 1982 e il 2017 l’indice di Gini (l’indicatore più usato per misurare la disuguaglianza) delle retribuzioni annue lorde è cresciuto del 24%, passando da 0,34 a 0,42. Un aumento davvero notevole date le caratteristiche dell’indicatore.

 

Ma per comprendere a fondo le disuguaglianze, i meccanismi che le generano, la loro accettabilità e anche il modo in cui si potrebbero correggere non ci si può limitare, come troppo spesso avviene, a sottolineare che le disuguaglianze sono aumentate. Lumi per acquisire essenziali conoscenze a questo riguardo può darli la risposta alla domanda: anno dopo anno, i ricchi e i poveri sono sempre gli stessi o le posizioni in alto e in basso nella scala dei redditi sono occupate da individui diversi? È evidente che se gli indicatori di disuguaglianza segnalano un peggioramento ma, al contempo, le posizioni individuali nella scala dei redditi vengono ‘rimescolate’, c’è ragione per considerare meno grave quel peggioramento. In breve, la mobilità nelle posizioni individuali contribuisce ad alleviare l’impatto negativo della disuguaglianza sulla giustizia sociale, e su tutto ciò che ne consegue.

 

Rispondere a quella domanda richiede di disporre di dati adeguati e questo non è facile o, almeno, finora non è stato facile. Utilizzando dati longitudinali (ovvero dati che consentono di osservare continuativamente gli stessi individui nel corso degli anni) è possibile oggi acquisire qualche utile conoscenza di queste dinamiche. E, come mostra una ricerca in corso di Subioli e Raitano, anche osservando gli stessi individui per un non breve periodo (ben 11 anni), la quota di individui che cambiano posizione nel corso del tempo è limitatissima (il coefficiente di correlazione fra la posizione iniziale e quella finale è intorno all’80%) e ha mostrato una tendenza a diminuire negli ultimi decenni. Se ne può desumere che le disuguaglianze crescenti indicano, sostanzialmente, un ampliamento delle distanze ‘permanenti’ tra i medesimi individui. Il trascorrere del tempo non permette, quindi, di bilanciare quelle distanze, anzi in qualche modo le aggrava se non altro perché disuguaglianze cumulate, anno dopo anno, crescono e al termine del ciclo di vita possono essere enormi.

 

Ma il problema della persistenza delle posizioni di vantaggio o svantaggio si accentua ulteriormente se si allarga l’orizzonte dell’analisi passando ad esaminare la dinamica della disuguaglianza dei redditi non all’interno di una generazione ma tra una generazione e l’altra. La questione è quella della trasmissione intergenerazionale delle disuguaglianze cioè, sostanzialmente, quanto incidono le origini familiari sul gradino che si occupa nella scala dei redditi e, più specificamente, se il gradino che i figli occupano nella scala dei redditi della propria generazione è tendenzialmente lo stesso di quello che occupavano i loro genitori.

I dati di cui si dispone indicano che in Italia l’influenza delle origini familiari è molto forte, cioè i figli (e le figlie) tendono a occupare gli stessi gradini che occupavano i loro genitori e ciò implica che le disuguaglianze che c’erano nella generazione precedente, tra i genitori, tendono a riprodursi tra i figli nella generazione successiva. Ciò vale per i redditi da lavoro dei figli e ancora di più per i redditi complessivi considerando che la ricchezza, da cui dipendono i redditi da capitale, si trasmette facilmente da una generazione all’altra. Guardando ai soli redditi da lavoro, il più utilizzato indice di disuguaglianza intergenerazionale – l’elasticità intergenerazionale β che misura quanto della distanza dei redditi fra i genitori persista fra i figli – è pari a circa 0,5, uno dei valori più alti registrati fra i paesi occidentali.

Si può sottolineare che qui non è cruciale, malgrado la sua evidente importanza, se i figli guadagnino più o meno dei rispettivi genitori. A questo si fa normalmente riferimento quando si parla di ascensore sociale e considerare quest’ultimo bloccato vuole sostanzialmente dire che i figli hanno redditi inferiori o comunque non superiori a quelli dei propri genitori. Il punto è importante ma non meno importante è la questione che qui interessa: indipendentemente dal fatto che guadagni più di suo padre, Lucio (Lucia) guadagna più o meno di Paolo (Paola), il cui padre guadagnava più del padre di Lucio? Se Lucio, e molti altri di famiglie non benestanti, guadagnano meno di Paolo, e di molti altri di famiglie benestanti, vuol dire che la disuguaglianza si trasmette; e questo dovrebbe essere, di per sé, un problema.

Collegando questo discorso al precedente si può dire, semplificando, che i figli dei più poveri iniziano la loro carriera lavorativa più tardi, guadagnano salari o stipendi più bassi rispetto ai figli dei più ricchi e la distanza tende a persistere per il resto della loro vita. Queste differenze, queste eterogeneità, andrebbero tenute ben presenti quando si parla, come normalmente accade, in modo indistinto dei giovani e dei loro problemi, come se fossero un tutto omogeneo.

 

I meccanismi che permettono tutto ciò sono molteplici e non possono essere qui approfonditi, ma va sottolineato che la trasmissione delle disuguaglianze di reddito fra genitori e figli non dipende unicamente dal fatto che, in media, i figli dei più ricchi conseguono un titolo di studio più elevato. Il ruolo svolto dall’istruzione nel processo di trasmissione intergenerazionale delle disuguaglianze naturalmente è molto importante ma non spiega tutto. A parità di titolo di studio, chi proviene da contesti familiari più svantaggiati percepisce redditi da lavoro più bassi, e questo vale anche per i laureati (si veda ad esempio questo nostro contributo). Sono quasi certamente i figli dei più poveri a ingrossare la fila dei laureati (circa il 40%) che in Italia guadagnano meno di quanto guadagna il diplomato mediano (si veda questo nostro articolo). E ancora, l’elasticità intergenerazionale β si riduce a solo 0,4 (un valore ancora molto elevato), quando viene calcolata a parità di titolo di studio dei figli (e quindi si depura dal suo calcolo il fatto che, in media, i figli dei più abbienti studiano di più). La conclusione minima è che il mercato del lavoro remunera caratteristiche che posseggono i figli dei più ricchi e che non si acquisiscono sistematicamente con l’istruzione.

 

Individuare queste caratteristiche è tutt’altro che agevole, ma sarebbe estremamente importante sotto il profilo sia dell’equità sia dell’efficienza, per comprendere meglio il reale funzionamento del mercato del lavoro. A parità di istruzione, il premio salariale per chi proviene da origini migliori potrebbe essere dovuto ad abilità ‘non osservabili’ di cui sono maggiormente dotati i figli dei benestanti, che più facilmente beneficiano di istruzione di migliore qualità, di attività extra-scolastiche e più facilmente possono sviluppare soft skills (capacità di comunicare, attitudine al problem solving e al lavoro d’equipe, etc.) che ampi segmenti del mercato del lavoro apprezzano. Ma potrebbe dipendere anche dai diversi vantaggi che derivano dall’appartenenza a gruppi sociali più influenti. La mancanza di dati adeguati non consente di stabilire con certezza l’importanza relativa di questi due fattori e la tendenza prevalente, quando ci si pone il problema, è di attribuire alle abilità non osservabili il premio familiare aggiuntivo rispetto a quello derivante dall’istruzione, in coerenza con una visione del mercato del lavoro come luogo in cui vengono premiate le abilità e che non concede spazio a privilegi basati sulle connessioni sociali. Le nostre analisi non danno conforto a questa interpretazione; al contrario, portano alla luce una serie di indizi che rendono plausibile la tesi che le origini familiari in Italia contino, e non poco, perché le connessioni sociali vengono apprezzate anche nei mercati, soprattutto in quelli meno competitivi.

 

Le fonti della disuguaglianza intergenerazionale contano, quindi, per valutare l’efficienza dei meccanismi di mercato. Ma, anche tralasciando questo aspetto, le implicazioni delle evidenze qui richiamate per la valutazione, sotto il profilo della giustizia sociale, delle disuguaglianze sono rilevanti. Ad essere violata è l’eguaglianza delle opportunità – non solo quella dei risultati – che, al di là di problemi non lievi che sussistono a definirla, è un caposaldo del pensiero liberale (quello vero) ed è anche l’argomento da molti considerato tra i più convincenti a favore della democrazia.

Naturalmente, il problema è tanto più grave quando più ampie sono le distanze tra i gradini. Se Lucio resta dietro Paolo ma i loro ‘gradini’ sono vicini è certo meno grave del caso opposto in cui i gradini sono distanti e magari la distanza tende anche ad ampliarsi nel tempo. Ora in Italia il caso che si configura è quello più grave e questa sembra, peraltro, essere una regolarità: i paesi nei quali la disuguaglianza si trasmette più facilmente da una generazione all’altra sono anche i paesi nei quali la disuguaglianza è più elevata. E il fenomeno è reso ancora più preoccupante dal fatto che spesso, in Italia, Lucio e quelli come lui (ma non Paolo e quelli come lui) perdono, in buon numero, terreno rispetto ai propri genitori.

La disuguaglianza in una società immobile ha significati e conseguenze rilevantissimi che non dovrebbero essere sottovalutati. La disuguaglianza permanente – nel corso della vita e fra generazioni successive – è un male diverso dalla disuguaglianza temporanea, e ciò vale anche per la povertà. Le ragioni per contrastarla appaiono anche più forti di quelle che possono opporsi alla disuguaglianza come tale. E gli strumenti per farlo hanno una loro specificità. Richiedono di guardare ai meccanismi, oltre quelli dei lasciti ereditari patrimoniali, che permettono a una generazione di trasmettere vantaggi e svantaggi non meritocratici alla generazione successiva.

In breve occorre rendere il più possibile i destini individuali indipendenti dalla culla in cui si è nati, rispetto alla quale non si può vantare il merito (o il demerito) di averla scelta.