La legge sulla cittadinanza ha trent’anni. E li dimostra tutti


Maurizio Ambrosini | 29 Marzo 2022

Si è celebrato nel mese di febbraio un anniversario paradossale: quello della legge 91 del ’92 che disciplina l’accesso alla cittadinanza italiana.

 

È importante anzitutto ricordare la genesi della legge. Tra l’89 e il ’90 si svolse un ampio dibattito sull’immigrazione, originato dalla legge che reca il nome del guardasigilli dell’epoca, l’esponente socialista Claudio Martelli. In quell’occasione l’Italia scoprì di essere diventata una terra d’approdo d’immigrati stranieri, di cui allora ben pochi riconoscevano la funzione economica e il rapporto con il mercato del lavoro Dal parlamento ai giornali il dibattito fu vivacissimo, anche se più preoccupato dei numeri che dei diritti dei nuovi soggiornanti. Una sanatoria generosa, come nessun’altra in seguito, accelerò il processo di apertura ai nuovi arrivati, ma  in forme disordinate e alquanto precarie.

Come effetto collaterale di quel dibattito, un sussulto di memoria intrisa di senso di colpa risvegliò l’attenzione sulle vicende degli emigrati italiani all’estero e dei loro diritti: una sorta di contraccolpo storico-politico, ed anche sentimentale. Va ricordato che il proponente della nuova legge, nel tramonto della prima repubblica, fu il parlamentare Mirko Tremaglia dell’allora Movimento Sociale Italiano, da anni attivo nella rivendicazione dei legami con gli emigranti. Con pochissime eccezioni, il parlamento lo seguì compatto: scelse di guardare al passato, riconoscendo ai figli e nipoti degli emigranti il diritto di recuperare la cittadinanza eventualmente persa, purché avessero qualche goccia di sangue italiano nelle vene, anche se non erano mai vissuti in Italia e non parlavano neppure la nostra lingua. Concesse loro inoltre il diritto di voto dall’estero e anche quello di eleggere propri parlamentari in Italia: una scelta che ha pochi paralleli a livello internazionale, e che consente a deputati e senatori eletti in Australia o in Brasile di imporre eventualmente tasse e persino restrizioni delle libertà civili a chi risiede qui, ma non agli elettori che li hanno mandati a Roma.

Andò bene anche ai cittadini dell’UE, che della cittadinanza italiana non avevano e non hanno gran bisogno: riformando un codice della cittadinanza in vigore dal 1912, e non modificato neppure dal fascismo, i legislatori italiani decisero di ridurre da cinque a quattro anni il tempo di residenza richiesto per accedere alla cittadinanza.

Buio pesto invece per gli immigrati da paesi terzi: raddoppiato con un tratto di penna, da cinque a dieci anni, il tempo di residenza, comprese le domande già presentate. Una scelta che andava in direzione contraria alle norme vigenti in molti paesi occidentali: anche escludendo Australia, Canada, Argentina, che hanno norme più favorevoli, la norma dei cinque anni valeva (e vale tuttora) in Francia, Regno Unito, Belgio, Olanda, Svezia, Irlanda, e in altri paesi, come gli Stati Uniti. Altre due condizioni aggraveranno la portata della decisione: il tempo di attesa della risposta ministeriale, che ha oscillato tra i due e i quattro anni, e il potere discrezionale che il ministero degli interni si è attribuito e che successive sentenze hanno ribadito. In questo modo, come è accaduto, un lieve incidente d’auto o la mancata presentazione di una denuncia dei redditi possono indurre al diniego. Un po’ migliore risultò soltanto la sorte dei figli nati e sempre vissuti in Italia, senza allontanarsi per più di quattro mesi, neppure in tenera età: a 18 anni, e fino ai 19, possono richiedere la cittadinanza con una procedura amministrativa più semplice e spedita.

 

In questi trent’anni altri paesi hanno modificato il proprio codice della cittadinanza, con oscillazioni derivanti dalle alternanze dei partiti al governo e mescolando liberalismo e cautele, ma in senso complessivamente più favorevole agli immigrati e soprattutto ai loro figli. È vero che il diritto di suolo incondizionato, in conseguenza della mera nascita sul territorio nazionale, è stato abbandonato in tutti i paesi d’Europa che lo prevedevano: l’ultimo è stato l’Irlanda. Non piace l’idea dell’automatismo, e si rischia un inconveniente che acquista rilievo nei paesi d’immigrazione recente: i figli più grandi hanno più probabilità di essere nati all’estero, quelli più piccoli in Italia, trovandosi così avvantaggiati rispetto ai maggiori. Per altri aspetti però le norme sono state ammorbidite. In Germania, paese storicamente molto rigido in materia, è stata introdotta nel 2000 una riforma che adotta il diritto di suolo, sebbene condizionato a una residenza regolare di almeno otto anni  di uno dei genitori. In Spagna per chi nasce nel paese basta un anno per acquisire la cittadinanza, così come agli sposi di cittadini spagnoli. In Francia si applica il doppio ius soli: i figli nati in Francia da genitori nati anch’essi in Francia sono riconosciuti come cittadini alla nascita. Acquista inoltre la cittadinanza con la maggiore età chi è nato in Francia e vi ha risieduto abitualmente per un periodo, continuo o discontinuo, di almeno 5 anni, dall’età di 11 anni in poi: una norma più favorevole di quella italiana. Due anni di studi universitari in Francia sono inoltre sufficienti per accedere alla cittadinanza, riconoscendo così l’importanza dell’educazione.

Nel Regno Unito vige un diritto di suolo quasi puro: accede alla cittadinanza il figlio di un cittadino non britannico residente nel Regno Unito a tempo indeterminato; oppure, se il genitore acquisisce la cittadinanza o un permesso di residenza, il figlio la ottiene presentando una richiesta entro il diciottesimo anno di età; oppure ancora se, minorenne, avendo avuto residenza nel Regno Unito per i dieci anni successivi alla nascita.

Interessante infine il caso greco: gli immigrati possono accedere alla cittadinanza dopo aver frequentato sei anni di scuola in Grecia. La norma rappresenta un precedente per lo ius culturae che si vorrebbe introdurre in Italia.

Complessivamente, dopo che Spagna, Germania e Grecia hanno adottato norme più liberali, l’Italia è il paese che si trincera dietro le regole più restrittive dell’Europa Occidentale in materia di cittadinanza.  I nostri legislatori appaiono attanagliati da tre paure. La prima è quella del confronto con una concezione della cittadinanza legata all’eredità ottocentesca della nazione: “una d’arme, di lingua, d’altare/ di memorie, di sangue e  di cor”, come la definiva esemplarmente Alessandro Manzoni nell’ode Marzo 1821.  In altri termini, suscita resistenze l’idea che si possa essere italiani con la pelle nera, gli occhi a mandorla, il velo, il turbante, o comunque con un cognome strano e difficile da pronunciare. Per molti l’identità nazionale rimane basata sul sangue, come nella legge del ’92, e rivolta sostanzialmente al passato. La seconda è la paura di un uso ideologico dell’argomento, ossia delle urla di chi farà campagna elettorale contro ogni liberalizzazione in materia di cittadinanza. La terza paura, forse prevalente in questi ultimi anni, riguarda un’invasione che non c’è mai stata, ma che ha alimentato l’idea di imbarcazioni cariche di donne incinte che verrebbero a partorire in Italia per garantire ai figli il diritto di cittadinanza.

 

Per favorire un dibattito informato, vediamo invece come ha funzionato la legge vigente.  In primo luogo la popolazione immigrata da una decina d’anni non cresce più in maniera significativa, e rimane attestata poco sopra i cinque milioni di persone. È composta oggi prevalentemente di famiglie, con oltre un milione di minori e 877.000 studenti nelle scuole di vario ordine e grado.

Una popolazione di queste dimensioni produce ogni anno, per evoluzione naturale e progressiva anzianità di residenza, un consistente numero di candidati alla cittadinanza. Non appare molto giustificato lo sconcerto di chi solleva il problema di un numero di naturalizzazioni annue che colloca l’Italia tra i primi paesi in Europa: sono l’effetto combinato di una popolazione immigrata di oltre cinque milioni di persone e di un insediamento ormai consolidato, per i più superiore ai dieci anni.

Le acquisizioni di cittadinanza sono state 112.523 nel 2018, 127.001 nel 2019, 132.736 nel 2020. Si è trattato in quest’ultimo anno del 26,4 per 1.000 stranieri residenti. Per valutare se siano tanti o pochi bisogna considerare l’ampia platea dei candidati eleggibili. Di certo un paese democratico può stabilire norme sfavorevoli, ma non può impedire che a un certo punto i residenti stranieri possano coronare l’aspirazione a diventare cittadini.

 

In secondo luogo, un numero considerevole di neo-cittadini si serve del nuovo passaporto per compiere una nuova emigrazione verso paesi più promettenti, con il Regno Unito in cima alla lista: 228.000 nel decennio 2010-2019, su un totale di 898.000 (Dossier immigrazione 2021): all’incirca uno su quattro. Sta emergendo una nuova concezione dell’acquisizione di cittadinanza: in un mondo sperequato, in cui disporre di un passaporto forte conferisce dei diritti di mobilità attraverso i confini altrimenti inarrivabili, la naturalizzazione spesso non serve per insediarsi stabilmente, ma per spiccare il volo verso altre destinazioni.

 

In terzo luogo, come dimostra un’analisi pubblicata sul sito Neodemos, non è scontato che la maturazione dell’anzianità richiesta inneschi la presentazione della domanda di accesso alla cittadinanza. Sono ben 1,1 milioni i residenti stranieri che vivono in Italia da oltre 15 anni, ma non hanno acquisito la cittadinanza. Per vari motivi preferiscono mantenere la cittadinanza del paese di origine, o non vedono particolari vantaggi nella naturalizzazione. La possibilità di accedere all’impiego pubblico sarebbe uno di questi, ma presumibilmente interessa poco a degli adulti maturi che non hanno compiuto i loro studi in Italia e magari non dispongono di un’elevata conoscenza dell’italiano scritto. Anche questo sbocco riguarda soprattutto le nuove generazioni. Ricordiamo che la mancanza della cittadinanza li penalizza, oltre che sul piano simbolico ed emotivo, in termini di costruzione della propria identità, anche sul piano pratico: della partecipazione a esperienze di studio all’estero, della pratica di sport agonistici, e specialmente dell’accesso al lavoro, dove molti datori, compreso lo Stato, richiedono il possesso della cittadinanza italiana.

 

Tra le proposte sul tappeto, merita un cenno la più innovativa: la concessione della cittadinanza a chi ha concluso con successo un ciclo di studi in Italia. Si guarda alla scuola come alla fucina della cittadinanza. Esperienze di socializzazione con i compagni italiani si saldano con l’apprendimento della lingua italiana colta, della letteratura, della storia, delle norme fondamentali della Costituzione. La proposta risponde all’obiezione nei confronti di una cittadinanza ottenuta senza meriti, per nascita o per semplice residenza: si premia chi ha studiato ed è arrivato al traguardo. Ha però il punto debole di lasciare indietro chi fallisce negli studi o abbandona per i più diversi motivi. Servirà  comunque anche un dispositivo che consenta a un certo punto di diventare italiani per residenza, pure a chi non ha studiato.

 

Abbiamo bisogno di declinare l’identità nazionale al futuro, dando spazio alle nuove energie che possono ringiovanire un paese invecchiato e ripiegato su se stesso: valorizzando l’apporto dei nuovi italiani, che già sono qui e crescono in questo paese.