Lavoratori con disabilità: un’espulsione annunciata


Pietro Barbieri | 31 Dicembre 2020

Il Presidente di Confindustria lancia l’allarme: almeno un milione di posti di lavoro a rischio. L’associazione mentale corre subito a tutti coloro che sono impegnati in settori particolarmente colpiti dall’emergenza Covid: commercio, turismo, ristorazione, trasporti, tempo libero in genere, ma anche manifattura e tanti altri ambiti su cui il lockdown pesa enormemente complice la compressione della domanda interna, ma anche di quella estera, e per l’enorme difficoltà di recuperare i livelli precedenti.

Si ragiona per aree merceologiche; più di rado si riflette in modo trasversale considerando le condizioni individuali dei lavoratori ossia il loro stato di salute, il loro quadro clinico magari, oppure la disabilità che interessa direttamente loro o loro familiari.

Ma la vita reale, le contiguità familiari o di relazioni, anche l’ordinaria frequentazione dei social restituiscono con schietta desolazione questo mondo sotterraneo e prevalentemente ignorato.

 

Decine, centinaia, migliaia di casi che messi assieme ricompongono un puzzle di profili reali, l’identikit dei primi ad essere colpiti duramente, nel silenzio assordante e nell’approssimazione degli interventi nella Fase 1, nella Fase 2 e, verosimilmente, nella Fase 3.

Una lavoratrice madre: “Mi era stato detto che lunedì 1° giugno sarei rientrata al lavoro, lasciandomi alle spalle, per ora, la cassa integrazione. Beh. Ripensamento…, su 17, sono la sola e con ruolo di responsabilità ad essere stata lasciata a casa ancora in cassa integrazione. Sarà un caso che lo hanno fatto con me? Usufruisco della legge 104 per mio figlio. Nel privato garanzie pari a zero … spero diversamente nel pubblico”.

Un lavoratore: Oggi l’azienda mi informa che fino a luglio non posso lavorare a causa della mia invalidità”.

Un’altra lavoratrice: “Avrei bisogno di sapere se gli immunodepressi possono rientrare al lavoro. Sono molto confusa.”

E ancora: “Da un mese e mezzo tento di capire come, da lavoratore con leucemia, posso accedere alle tutele che, a parole, questo Governo mi ha promesso.” “In azienda mi hanno pregato di non rientrare: non vogliono responsabilità penali, non voglio rogne con Inail. Mi hanno spedito a visita dal medico aziendale. Non so cosa sarà di me …”.

 

Va detto a chiare lettere, sono tutti lavoratori facilmente identificabili: persone con disabilità anche grave, con patologie croniche o a rischio. Vi si aggiungono i lavoratori, spesso, troppo spesso, donne che sono anche caregiver familiari. Identificabili dalle aziende, dalle amministrazioni, dall’Inps, dall’Inail che del loro status sanno tutto.

 

Il puzzle di infinite tessere è, a volerlo, ben visibile.

Su lavoro e disabilità non ha brillato questo Governo producendo norme non certo chiare, non certo facilmente applicabili, non certo attente e con molti coni d’ombra.  Sicuramente ampiamente migliorabili.

 

Nella Fase 2 cosa accadrà ai lavoratori? Lasciando insoluti i coni d’ombra della Fase 1, prevale una nuova narrativa: quei lavoratori sono fragili, vanno protetti, vanno tenuti lontani dai luoghi di lavoro, a prescindere.

Ma l’intento, su cui è agevole raccogliere consenso, si traduce in misure non certo di garanzia: condizioni di malattia (pseudo ricovero) ma ancora di più, e si veda sul punto il decreto “Rilancio”, la verifica dell’inidoneità alle mansioni che comporta che l’azienda non può occupare il lavoratore e non è tenuta a retribuirlo. Il decreto “Rilancio” eccezionalmente esclude, per ora, il licenziamento.

Col decreto “agosto” (legge 13 ottobre 2020, n. 126) si hanno alcune evoluzioni: si posticipa la scadenza il 15 ottobre 2020 e contestualmente si prevede che quei lavoratori di norma siano collocati in smart working. Ribaltando completamente l’assioma precedente, il lavoratore con disabilità è al pari degli altri ricollocabile e quindi degno di essere considerato produttivo. È un’inversione concettuale totale. Allo stesso tempo, mentre l’art. 26 è prescrittivo, questo per la sua brevità rischia di tradursi in un indirizzo.

 

Nonostante le modifiche apportate dall’art. 87 del “Cura Italia”, continua a permanere l’incertezza sul comporto. Apparentemente per i lavoratori con disabilità e con immunodepressioni delle pubbliche amministrazioni, l’assenza ex art. 26 non verrà computata nel periodo di comporto. Ma non per tutte le PA. Soprattutto non per le aziende private. La distinzione è piuttosto sospetta. Sembrerebbe strizzare l’occhio ad una logica antica, quella di trent’anni fa: la PA ha doveri solidaristici e il privato no. Ergo, il lavoro di una persona con disabilità appartiene al grande tema della solidarietà, non della produzione. Sostanza nemmeno liberista se stiamo a John Rawls. Potremmo dire che si tratta di un modello di pensiero ottocentesco, la carità agli ultimi.

 

Ma c’è di più, in altro articolo lo stesso decreto agosto impone una condizione per accedere allo smart working per un lavoratore con disabilità o immunodepressione: la compatibilità con la prestazione che nel combinato disposto con l’art. 83 del decreto Rilancio, comporta l’azzeramento delle ore contrattuali e quindi dello stipendio. Infatti in quel decreto, sotto la disciplina della sorveglianza sanitaria, fa un salto in là verso l’espulsione del lavoratore. Si parla esplicitamente di inidoneità. Lo stigma di improduttività del lavoratore con disabilità e immunodepressione diventa certificabile come inidoneità e quindi ragione di espulsione. Ennesima conversione del legislatore. Di fronte a corpose obiezioni, verbalmente viene asserito di inidoneità temporanea. È sottointeso, non scritto. E questa non è una mera pruderie linguistica. È sufficiente la prescrizione del medico competente (dell’azienda) per essere fuori dal posto di lavoro senza retribuzione. Nonostante la possibilità di ricorso, di fatto è un licenziamento sotto mentite spoglie: nelle statistiche finisce come prepensionamento o giù di lì. Invisibili anche ai dati Istat.

 

Allo stato, per un lavoratore con disabilità o con immunodepressione, è conveniente essere trattato come gli altri, ovvero con la cassa integrazione, piuttosto che in questo groviglio inestricabile che, si può affermare, sotto la falsa espressione della protezione malcela una vera e propria trappola. Eppure l’Unione Europea ha messo a disposizione ben 17 miliardi col Fondo Sure per proteggere i lavoratori senza discriminazione alcuna. L’Europa è più madre che matrigna in questa fase: i vincoli non sono più l’austerity, Maastricht eccetera, ma i diritti e le condizioni materiali delle persone. L’emblema è la battaglia sul vincolo dello Stato di Diritto per ricevere le risorse del Next Generation EU, un programma più ampio dello stesso Piano Marshall.

 

Si sta tornando indietro di decenni con una rapidità inimmaginabile, cambiano i linguaggi, gli stilemi, i luoghi comuni e, fatalmente, le strategie e gli esiti. Il lavoratore con disabilità, con malattie croniche, con esisti da patologie oncologiche è tornato a essere considerato improduttivo, un fardello, un corpo estraneo e la sua presenza in azienda una forma di solidarietà che il sistema delle imprese non si può certo permettere nella più grande crisi del Dopoguerra.

 

Non sarà indolore. L’espulsione dal mercato del lavoro di tutti costoro produrrà povertà difficilmente colmabile o recuperabile. Già di per sé la condizione di salute rappresenta il secondo indicatore di rischio di impoverimento, che abbinato all’esclusione sistematica dalla produzione di reddito ingenera una insanabile situazione. Essa rischia di avvitarsi su se stessa e confinare in un ghetto di strabordante assistenzialismo centinaia di migliaia di persone. Ioannis Vardakastanis, presidente del European Disability Forum, lo dice a chiare lettere: non si tratta di combattere per l’inclusione, ma per non essere esclusi. Secondo Istat i lavoratori con disabilità impiegati sono il 31,3% del totale. Pochi rispetto alla media europea, 50,8% secondo Eurostat. Eppure si tratta di non vedere anche quelli espulsi dal mercato del lavoro, non di promuovere l’inclusione del 70% escluso da decenni.

 

È un grido d’ allarme. Rosso.

Esistono forze sociali e politiche, opinion maker e operatori dei media nel Paese capaci di cogliere la gravità di questo dramma annunciato. Ecco, a loro va una forte esortazione a farsi carico del dramma sociale a cui si sta assistendo contribuendo a rompere il silenzio.

A fianco della catastrofe di intere filiere produttive, delle crisi aziendali vecchie e nuove, c’è da aggiungerne un’altra, questa: riguarda persone con una loro dignità, con la loro voglia di restare aggrappate ad un posto di lavoro che ha un significato non solo di sostentamento, con il loro concreto rischio di essere definitivamente estromesse dal mondo produttivo.

Puntiamo un faro in quella direzione: non riduciamo tutto alla fatalità di un destino immutabile. A partire dalla revisione di norme che possono apparire come protettive ma finiscono invece per essere lo strumento per il colpo letale. La protezione dobbiamo costruirla nei luoghi di lavoro, non in luoghi altri che escludono, impoveriscono e sono insostenibili.

Muoviamoci subito, prima che quell’espulsione annunciata sia irrimediabile. Nel frattempo una domanda sarebbe da porre al Presidente di Confindustria: in quel milione di posti a rischio ha conteggiato anche i lavoratori con disabilità?