Le famiglie italiane tra insicurezza economica e capacità di cura


Remo Siza | 23 Novembre 2020

Numerose ricerche hanno rilevato come la pandemia e le misure di contenimento che sono state adottate hanno profondamente cambiato le condizioni di vita delle famiglie italiane. Queste ricerche – alcune realizzate da istituti ufficiali di rilevazione, altre da organizzazioni private o di terzo settore – evidenziano i cambiamenti intervenuti nel reddito delle famiglie, nei consumi, nell’occupazione, la crescita delle disuguaglianze, della povertà educative e alimentari.

 

Rapporti e indagini di Eurofound, dell’Istat e della Banca d’Italia evidenziano che gran parte delle famiglie italiane ha subito una notevole riduzione del proprio reddito e dell’orario di lavoro. La Banca d’Italia in un suo recente rapporto (2020) rileva che la quota di nuclei che dichiarano di aver subito dall’inizio della pandemia un calo del reddito, è pari al 30 per cento con un miglioramento rispetto al dato della rilevazione di aprile-maggio, mesi nei quali la riduzione del reddito aveva interessato circa la metà delle famiglie. La crisi economica ha colpito maggiormente le famiglie appartenenti ai quinti più bassi della distribuzione del reddito da lavoro. Nel Rapporto annuale e nei successivi rapporti trimestrali, l’Istat (2020) evidenzia che, rispetto al secondo trimestre 2019, il numero di occupati scende di 841 mila unità: calano soprattutto i dipendenti a termine (-677 mila, -21,6%) e continuano a diminuire gli indipendenti (-219 mila, -4,1%). Dal lato dell’offerta di lavoro, nel secondo trimestre del 2020 il numero di persone occupate subisce un ampio calo in termini congiunturali (-470 mila, -2,0%).

Numerose organizzazioni di volontariato (Caritas, Fondazione Banco Alimentare, Action Aid) osservano che la richiesta di beni alimentari è raddoppiata in questi mesi. Il 45% delle persone che richiedono beni essenziali sono persone che non si sono mai rivolte alla Caritas negli anni precedenti.

 

Il complesso di queste ricerche, di rigore metodologico molto differente, delinea una riduzione del reddito delle famiglie italiane molto diffuso e una crescita della povertà.

Nel dibattito pubblico emergono letture di questi dati per molti aspetti riduttivi, rappresentazioni della società italiana che inevitabilmente sollecitano determinate risposte pubbliche minimali di supporto economico, giustificano la radicalità di alcune azioni di protesta e orientano verso alcuni gruppi sociali la spesa pubblica.

Però, forse è necessario iniziare a definire strumenti e schemi concettuali che ci aiutino a cogliere le reali tendenze della società italiana, a ricomporre le informazioni che abbiamo raccolto in questi mesi, a fornire ipotesi interpretative.

 

La distinzione fra tre “zone di coesione sociale”, che Robert Castel (2019) introduce in un suo saggio molto noto, può essere utile. Questo autore individua:

  • una “zona di integrazione” caratterizzata da contratti di lavoro a tempo pieno, relativa stabilità delle relazioni sociali, benefici di welfare adeguati;
  • una “zona di vulnerabilità”, la zona cioè dell’insicurezza economica e sociale, del lavoro temporaneo e mal retribuito, di insufficienti protezioni di welfare e di fragilità delle relazioni primarie;
  • e, infine, la “zona della disaffiliazione” o dell’esclusione (esclusi stabilmente dal mercato del lavoro, grave deprivazione materiale, fragilità delle relazioni primarie e perdita di buona parte delle tutele sociali).

 

Le ricerche citate della Banca d’Italia, dell’Istat e di alcune associazioni di volontariato ci fanno pensare che la crisi ha ridotto la zona della integrazione, ma soprattutto, ha ampliato a dismisura la zona della vulnerabilità. Una parte dei gruppi sociali vulnerabili, la cui dimensione numerica è ancora difficile da individuare, sta scivolando verso la terza “zona di disaffiliazione” e della povertà.

In assenza di dati sulle variazioni dell’incidenza della povertà e sulla base di molte ricerche realizzate in questi mesi (Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla Famiglia 2020; Santinello et al. 2020; Giaccardi e Magatti 2020; Censis 2020), la situazione appare più fluida e non caratterizzata da una estesa mobilità verso la povertà di una parte considerevole delle classi medie. La società italiana ci appare caratterizzata dalla presenza di molte posizioni sociali instabili e precarie, non solo da povertà e ricchezza, e le dinamiche di mobilità verso l’alto o verso il basso sono, malgrado la crisi, rallentate da istituzioni e relazioni sociali.

 

In questi mesi non stiamo assistendo ad un “collasso” dei tre pilastri dell’integrazione sociale che ci consentono di affrontare i nuovi e i vecchi rischi sociali: il lavoro, la famiglia e le relazioni informali, il welfare. Indubbiamente negli ultimi vent’anni, le capacità inclusive e di supporto di queste tre sfere di vita si sono ridotte sensibilmente, in ciascuna sfera sono cresciuti i rischi piuttosto che le risorse disponibili (Esping-Andersen 2000): pensiamo quanti rischi sono cresciuti nell’ambito della famiglia, nelle condizioni lavorative, in un sistema di welfare sempre meno inclusivo (Siza 2020).

La pandemia ha invertito buona parte delle tendenze alla progressiva erosione di queste tre sfere di vita.

In primo luogo, ha invertito tendenze che sembravano irreversibili verso una progressiva privatizzazione del welfare e una riduzione delle prestazioni e di contenimento dei costi, l’utilizzo esteso della condizionalità nell’erogazione delle prestazioni. In questi mesi, le risorse del welfare sono cresciute notevolmente nel settore sanitario, nell’istruzione con effetti nel lungo periodo; le politiche sociali hanno ora una maggiore capacità protettiva e inclusiva, seppure privilegino quasi esclusivamente interventi passivi di supporto al reddito.

 

In secondo luogo, si sono sensibilmente attenuati processi radicali di individualizzazione, valori e stili di vita, che negli anni scorsi hanno minato i rapporti reciproci di sostegno e cura e la capacità delle famiglie di far fronte a rischi vecchi e nuovi. La famiglia in questi mesi ha manifestato una elevata e crescente capacità di affrontare la crisi, di creare rapporti di cura e di supporto tra i suoi membri e nell’ambito del vicinato, nuove forme di socialità e di aiuto reciproco, nella costruzione di nuove forme associative.

 

In terzo luogo, la pandemia ha, invece, peggiorato ulteriormente le criticità storiche del mercato del lavoro italiano: crescono i lavori scarsamente retribuiti, il lavoro sommerso, i contratti a breve termine.

Gli impatti altamente differenziati della pandemia su queste tre sfere della vita stanno creando una pluralità di condizioni di vita: forme di precarietà lavorativa assistita, di deprivazione economica vissute meno individualmente come condizione collettiva e con il supporto di relazioni primarie che la crisi ha rafforzato. Condizioni di vita che in molti casi sacrificano la dignità delle persone e delle famiglie, ma che spesso riescono a “trattenerle” evitando a molti di loro la caduta in forme severe e persistenti di povertà.

 

Questo articolo è una sintesi dell’intervento presentato al XLIV Convegno dell’Associazione italiana di Epidemiologia, Tavola rotonda: L’epidemiologia per le politiche di contenimento.


Commenti

Effettivamente sarebbe molto utile avere la quantificazione (magari con un grafico) della dimensione delle tre aree prima e dopo la crisi connessa al COVID-19.

La ringrazio, in realtà i dati sono disponibili ma è necessario fare un lavoro non semplice. In un convegno avevo indicato alcuni dati confrontando la situazione attuale a quella dell’Italia degli anni Ottanta, ma ero un lavoro molto approssimativo (ho ancora le slide). Per fare i conti giusti ci vuole tempo e competenze statistiche adeguate