L’immigrazione secondo i dati

Un fenomeno ben diverso da quello descritto dalla propaganda


Maurizio Ambrosini | 3 Novembre 2022

Mentre il nuovo governo sta cominciando una prevedibile offensiva sui temi dell’immigrazione, a partire dal rilancio della guerra alle ONG che salvano le persone in mare, è più che mai opportuno rifarsi ai dati effettivi per inquadrare il fenomeno e impostare una discussione basata su conoscenze obiettive.

Fonte principale per questo esercizio di ragionevolezza è il Dossier immigrazione, redatto e pubblicato ogni anno dal Centro studi e ricerche IDOS di Roma. È uscita nei giorni scorsi l’edizione 2022, che disegna una mappa articolata dell’immigrazione nel nostro paese. Ne riprendiamo qui alcuni elementi salienti.

 

In primo luogo, la presenza straniera in Italia rimane sostanzialmente stabile: da circa un decennio non cresce, a dispetto degli allarmi sugli sbarchi. Sono quasi 5,2 milioni i residenti stranieri regolari a fine 2021, con un’incidenza sul totale della popolazione che si attesta sull’8,8%. Dopo due anni di cali, si registra nel 2021 una leggera risalita dei soggiornanti originari di paesi extra-UE (+188.000), soprattutto per motivi familiari (nascite e ricongiungimenti) e come primo effetto della sanatoria del 2020. Ma questo incremento non sposta la tendenza complessiva: l’immigrazione è stazionaria. Lo dimostrano anche i dati relativi alla partecipazione al sistema scolastico: gli studenti stranieri, dalle scuole dell’infanzia alle secondarie di secondo grado (scuole superiori) sono 865.400 nell’anno scolastico 2020/2021, pari al 10,3% della popolazione scolastica, addirittura in leggero calo (-11.400), per effetto presumibilmente delle acquisizioni di cittadinanza da parte di un certo numero di genitori e quindi di figli. Siamo lontani dagli incrementi di 8-10 punti percentuali all’anno registrati nel primo decennio di questo secolo.

Per quasi la metà inoltre (47,6%) gli immigrati in Italia provengono da paesi europei, anzi per oltre un quarto (27,2%) sono cittadini dell’Unione Europea. L’idea che l’immigrazione consista in massicci arrivi dal Sud del mondo non trova conferma: chi arriva da più lontano è forse più riconoscibile, ma non esaurisce il fenomeno. Gli africani sono poco più di uno su cinque (22,2%), ma provengono soprattutto dall’Africa settentrionale (13,3%). Gli africani della regione sub-sahariana, ossia le persone di colore su cui si concentra un immaginario ansiogeno, se non razzista, non raggiungono il 9% sul totale degli immigrati residenti.

Gli immigrati in effetti raramente arrivano da paesi molto poveri: per emigrare occorrono risorse. La graduatoria delle principali nazionalità è eloquente: troviamo al primo posto i rumeni (1,1 milioni: 20,8%), seguiti da albanesi (433mila: 8,4%), marocchini (429mila: 8,3%), cinesi (330mila: 6,4%) e ucraini (236mila: 4,6%). Questi ultimi però sono destinati ad aumentare sensibilmente nel 2022 se i circa 160.000 rifugiati accolti nel nostro paese decideranno di rimanere.

 

L’altro dato che contraddice una certa visione dell’immigrazione si riferisce al genere: gli immigrati sono prevalentemente donne (51,2%), così come avviene in tutto il mondo, esclusa l’Africa. È confermato invece il contributo dei residenti stranieri al contrasto dell’invecchiamento della popolazione, giacché la loro età media è di 34,8 anni, contro una media di 46,5 anni per i cittadini italiani.

La ripresa post-pandemica nell’ultimo anno ha rilanciato la questione dei fabbisogni di manodopera dell’economia italiana e del contributo che gli immigrati già forniscono e potrebbero fornire in futuro. Nel 2021 gli occupati sono 2.257.000, pari al 10% dell’occupazione complessiva, al netto anche in questo caso delle acquisizioni di cittadinanza. La crescita è stata del 2,4%, ma non compensa le perdite subite nel 2020 per effetto della pandemia da Covid-19. Il 42% degli occupati stranieri sono donne, in cifre quasi un milione (949.000), occupate in maniera cospicua nei servizi domestici e di cura (38,2%), ove incidono per il 64,2% sul totale degli addetti, dunque quasi due su tre: un dato che rende evidente il nesso tra l’occupazione delle donne italiane e l’occupazione di donne straniere, che contribuiscono a rendere possibile la conciliazione tra lavoro e incombenze familiari, estese alla cura di genitori e parenti anziani.

In generale si verifica una concentrazione dei lavoratori stranieri in pochi settori: esclusi dall’impiego pubblico e raramente accettati nei lavori da colletti bianchi anche nel settore privato, sono invece sovrarappresentati in agricoltura (18% degli occupati, contro una media del 10%, come si è visto sull’occupazione complessiva), nelle costruzioni (15,5%), negli alberghi e ristoranti (15,3%). Complessivamente più di sei su dieci sono impiegati in occupazioni operaie o non qualificate (63,8%, contro il 31,7% degli italiani, dunque il doppio), mentre soltanto il 7,8% svolge un’occupazione definibile come qualificata (per gli italiani il dato è del 37,5%). Di conseguenza, si registra uno spreco di capitale umano: quasi un terzo dei lavoratori immigrati (32,8%) risulta sovraistruito (contro un già alto 25% per gli italiani), ossia dispone di un titolo di studio di livello superiore alle mansioni che gli vengono richieste. Ancora più serio è il divario per le donne, tra le quali la distanza tra istruzione e occupazione interessa il 42,5%, contro il 25,7% per le italiane. Le condizioni di lavoro penalizzanti sono rivelate anche da un’incidenza del 18,2% sul totale degli infortuni sul lavoro.

Un parziale rimedio allo schiacciamento verso il basso della condizione occupazionale degli immigrati deriva dal passaggio al lavoro indipendente, che rappresenta il principale canale di mobilità sociale per i lavoratori stranieri, come è avvenuto a lungo per le classi popolari italiane. Qui la crescita è continua, anche se rallentata dalle difficoltà economiche del paese: nel 2021 i titolari d’impresa nati all’estero hanno raggiunto la cifra di 643.000 unità, pari al 10,6% del totale, con un lieve progresso rispetto al 2020 (+ 1,8%). Edilizia e piccolo commercio sono i principali settori: per esempio nei mercati all’aperto gli immigrati sono ormai la maggioranza degli operatori, sostituendo progressivamente gli italiani che si ritirano e non hanno eredi che proseguano l’attività.

Quasi 400.000 stranieri sono tuttavia disoccupati, per l’esattezza 379.000, in maggioranza donne (199.000). Nonostante le condizioni di bisogno e l’esclusione da ammortizzatori sociali come il reddito di cittadinanza, per il quale occorrono come è noto dieci anni di residenza continuativa, neanche per gli immigrati l’incontro tra domanda e offerta di lavoro si verifica in modo fluido e immediato. Per esempio, anche le donne immigrate con figli in Italia hanno problemi di conciliazione, persino maggiori di quelli che incontrano le donne italiane, perché raramente dispongono della risorsa-nonni nelle vicinanze. Pertanto, mentre accettano lavori che implicano la coabitazione con i datori se sono qui da sole, difficilmente li possono accettare se hanno figli da accudire. Così pure la mobilità sul territorio, relativamente agevole quando i lavoratori stranieri sono in Italia da soli, diventa più complicata quando sono accompagnati dalle famiglie, in cui magari l’altro coniuge ha trovato un qualche tipo di occupazione, oppure i figli si sono inseriti a scuola, oppure la famiglia dispone di una sistemazione abitativa accettabile e non facilmente sostituibile.

 

Tra i temi politici non eludibili si riproporrà quindi quello delle quote d’ingresso dei lavoratori stranieri non provenienti da paesi dell’UE. Nel 2021 con il decreto-flussi uscito a fine anno il governo Draghi aveva aumentato dopo diversi anni il numero d’ingressi di lavoro autorizzati, portandoli a 69.700 unità. Ma le domande dei datori di lavoro sono state il triplo (215.000), e quelle per lavoratori non stagionali addirittura il quintuplo (111.000). Il sistema inoltre funziona male: le procedure d’ingresso sono lente e farraginose, finendo con il non riuscire a mettere a disposizione delle imprese i lavoratori nel momento in cui servirebbero.

C’è da sperare che invece di concentrare l’attenzione sugli sbarchi e sulla piccola quota dei richiedenti asilo tratta a terra dalle navi delle ONG, il governo Meloni affronti seriamente questi colli di bottiglia, che rischiano di indebolire un sistema economico già in difficoltà per le conseguenze della guerra in Ucraina e i rincari dell’energia e delle materie prime. Vorremmo auspicare che la politica ascoltasse l’economia e non si lasciasse guidare da condizionamenti ideologici.