L’inclusione e le sue implicazioni (I parte)

Dialogo intorno all’inclusione sociale e a ciò che ne consegue


A cura di Claudio Castegnaro | 13 Settembre 2022

Claudio Castegnaro propone qui la prima parte1 della sua intervista a Riccardo Morelli, referente dell’Unità Zonale Disabilità dell’Ambito Territoriale Sociale di Garbagnate Milanese; Area Fragilità, Servizi e Sviluppo, Azienda Speciale Consortile Comuni Insieme e membro del coordinamento della Rete Immaginabili Risorse2  

Cosa possiamo intendere per “inclusione”?

Inclusione è un termine complesso, con sfaccettature diverse. Forse oggi abusato e, quindi, a rischio di perdita di senso. Cosa intendo per inclusione? Cito Cristina Palmieri che dice molto bene che per inclusione possiamo intendere le esperienze che permettono di riconoscere e valorizzare le differenze presenti nelle nostre comunità3. L’inclusione è, dunque, una pratica, un’esperienza (non una teoria) fondamentale per rendere le nostre comunità meno frammentate, più coese. Ha a che fare con il contesto, con le differenze di cui ciascuno di noi è portatore e, in particolare, con le nostre fragilità. Il pensiero che ho maturato nella mia pratica professionale e nella rete di Immaginabili Risorse, fonte dalla quale attingo a piene mani nell’articolazione delle riflessioni che seguiranno4, è che le fragilità abbiano diritto di cittadinanza nei contesti poiché sono un decisivo fattore di umanizzazione delle nostre comunità5. Ci  mettono nelle condizioni di sperimentare autenticamente modalità di convivenza diverse. Le differenze e le fragilità che abitano nelle nostre comunità servono a queste ultime perché attraverso l’incontro con esse cresca la possibilità e la capacità di sperimentare convivenze possibili senza cedere a dinamiche espulsive e segreganti. Una comunità inclusiva è una comunità più coesa e più equa, nella quale tutti vivono meglio.   Questo è un cambio di prospettiva: siamo solitamente propensi a pensare alle fragilità nella logica della “cura”, ossia della normalizzazione, mentre l’invito è quello di passare alla logica del “prendersi cura”, ovvero del “cambiare con” le persone fragili con cui conviviamo e che, in ultima analisi, noi stessi siamo. Lavorare per l’inclusione è una cosa che, di norma, ci trova tutti d’accordo. Chi dice: “io lavoro per l’esclusione”? I problemi emergono poi nei fatti. Per scongiurare questa “schizofrenia” tra il dichiarato e l’agito è importante considerare le implicazioni del lavoro per l’inclusione sul piano organizzativo, professionale e della sostenibilità dei servizi. Se il nostro lavoro è effettivamente per l’inclusione dovranno esserci delle ricadute, dei riverberi, anche su questi tre livelli. L’inclusione richiede coerenza.   Sul piano organizzativo, è inclusiva un’organizzazione che al suo interno riconosce e valorizza le differenze. Non è credibile un’organizzazione che al suo interno non faccia così e dichiari di lavorare per l’inclusione nelle comunità. Serve che le nostre organizzazioni sostengano i loro membri nella riflessività e nel lavoro sul senso. Un’organizzazione è inclusiva verso l’esterno se al suo interno allestisce contesti che permettano ai suoi membri di farsi domande, ossia contesti con un basso livello di giudizio. Fare esperienza diretta dell’inclusione è il primo passaggio necessario agli operatori per poter agire per l’inclusione. Sono le organizzazioni che devono creare le condizioni perché ciò avvenga.   Sul piano professionale, nel tempo i  servizi hanno di fatto ricevuto una delega dalla collettività a gestire i “casi”. Certamente, se pensiamo a come storicamente la nostra società si è rapportata alle persone con disabilità, possiamo affermare che i servizi siano una risposta di civiltà. Un tempo le persone con disabilità venivano nascoste. Questo innegabile progresso si è tramutato, ad oggi, nel progettare e costruire luoghi sostanzialmente separati rispetto alle comunità. Si sono costruite, cioè, realtà artificiali enucleate dalle comunità nelle quali il compito della custodia è di solito ben soddisfatto, ma che proteggono/separano le persone con disabilità da un rapporto autentico con la realtà, il più vero e reale setting educativo. Possiamo, rispettosamente, affermare che i nostri centri, le nostre comunità, le nostre residenze, hanno comunque nel loro esistere una certa dimensione segregante. Questa dimensione risponde certamente ad esigenze di protezione, ma anche alla necessità del contesto di essere rassicurato rispetto alle differenze rappresentate dalle persone con disabilità, per molti versi spiazzanti.   Prendiamo, ad esempio, alcuni Centri Diurni per persone con disabilità. Se li osserviamo bene, appaiono realtà senza tempo in cui ogni giorno si ripete uguale al precedente. Viene spontanea una domanda: quella collocazione è la miglior soluzione possibile per la persona con disabilità? Se lo era, ad esempio, 30 anni fa, continua ad esserlo anche ora? E se non lo è più, perché quella persone è ancora lì? Spesso operiamo come esperti, detentori della tecnica giusta, alimentando l’illusione della cura (non del prenderci cura) e contribuendo a costruire realtà, come detto, artificiali o, ancora meglio,  “realtà levigate”6, senza spigoli. Ecco il regno della cronicità, del tempo che si ripete uguale a sé stesso. Così, con il nostro lavoro, contribuiamo ad evitare  il confronto tra fragilità e comunità. Quant’è bella e possibile, perfino per le persone con disabilità, l’idea del tempo come “kairos”, tempo delle opportunità!   Occorre spezzare la delega delle comunità ai servizi rispetto alla gestione delle fragilità. Per farlo è necessaria una certa dose di trasgressione da parte degli operatori. Dovrebbero agire, cioè, per riportare alla luce il valore delle fragilità, accompagnando le comunità a sfruttarne il, comunque ed in qualche misura disturbante, potenziale evolutivo. Per me è vitale, oggi, chiedermi: cosa producono i servizi? Questa è una domanda che ho sentito varie volte fare a Franca Manoukian7 che è un riferimento per me. Mi domando spesso: cosa produco? La cultura dei servizi, in special modo in Lombardia (scusate, questo inciso tornerà più volte…), è molto centrata sulle prestazioni. Certo, le prestazioni servono, ma sono uno strumento, non il fine. A mio modo di vedere, ciò che di più prezioso io posso produrre con il mio lavoro è “comunità”, posso lavorare per costruire “noi”. Questo è possibile se il mio lavoro si traduce nell’allestire contesti di vita che permettano il nascere di questi “noi”, nel connettere i contesti che allestisco per  poi lasciarli andare.   Viceversa, in un sistema dei servizi centrato sulla prestazione e la custodia vi è il rischio per ogni operatore di diventare “specialista dell’assistenza”. Certamente possiamo affermare che i servizi esistono perché esiste la fragilità, ma, nel regno della tecnica e della prestazione, corriamo il rischio di cadere nel paradosso per cui abbiamo bisogno di fidelizzare le persone con disabilità adattandole ai nostri standard organizzativi, abbiamo bisogno di “utentizzarle” per garantirci il lavoro e per garantire la sopravvivenza delle nostre organizzazioni. Inoltre, così lavoriamo affinché la società, le nostre comunità, stiano tranquille, senza interferenze, senza il disturbo di differenze poco comprensibili nell’immediato. Penso, ad esempio, alle persone con sindromi dallo spettro autistico, sempre più presenti nelle nostre comunità. Per esse si moltiplicano i metodi disponibili (es. ABA, TEACCH, TMA, Superability, ecc…ecc…), che sono attraenti, perché richiamano il tema della cura. Spesso sono un valido supporto, ma alla lunga, alla fine delle fasi di vita dedicate specialmente alla riabilitazione, lasciano soprattutto (oltre a portafogli vuoti) strascichi di solitudine ed isolamento difficilmente recuperabili, che indurranno il sistema dei servizi a continuare a generare risposte iper-specialistiche e sempre più distinte dal mondo reale. Dunque, come operatori che agiscono nella logica dell’inclusione, siamo chiamati a facilitare il rapporto tra comunità e persone con disabilità, uscendo dalle comfort zone comunque rappresentate dai nostri servizi.   Il piano della sostenibilità è un tema poco trattato. Il modo in cui un servizio viene pagato ha delle ripercussioni sul tipo di lavoro che svolgerà? Io credo di sì. Credo che la coerenza necessaria per agire per l’inclusione riguardi anche come i servizi stanno in piedi. In tutta franchezza, ritengo che difficilmente un servizio che funziona basandosi esclusivamente sulla logica dell’appalto possa operare in modo autentico, prevalente e profondo nella direzione dell’inclusione. Avere un corrispettivo certo e stabile nel tempo è un’esigenza organizzativa comprensibile, ma che, se soddisfatta con le tradizionali modalità, rappresenta un ostacolo difficile da superare verso la dinamicità necessaria ad agire per riconoscere e valorizzare le differenze. Quello che accadrà, tutt’al più, è che nell’organizzazione si creeranno due binari: uno prevalente, pagato con la certezza dell’appalto, ed uno secondario, sperimentale. Rette parallele che difficilmente si incontreranno e che genereranno tensioni nell’organizzazione e tra gli operatori. La modalità di remunerazione dei servizi maggiormente coerente con l’inclusione è invece quella che permette una maggiore connessione, anche da questo punto di vista, tra comunità e servizio. E’ vero che le rette vengono pagate con il denaro della fiscalità generale, ma, soprattutto nel nostro paese, questa viene percepita come una connessione debole tra comunità e servizio. Per essere meno vaghi, questo passaggio può essere possibile facendo in modo che la natura e lo sviluppo dei servizi sia esso stesso il frutto del riconoscimento e della valorizzazione da parte delle comunità delle differenze che lo abitano. La co-progettazione, non tanto e non solo intesa qui come procedura amministrativa, è la strada maestra. Una co-progettazione nella quale, alla pari, partecipino tutti gli attori coinvolti.   In pubblicazione nei prossimi giorni su Scambi di Prospettive, e nel prossimo numero (4 – Autunno 2022) di Prospettive Sociali e Sanitarie, la presentazione, firmata dalla redattrice di PSS Patrizia Taccani, del recente volume di Celestina Del Carro e Riccardo Morelli, L’inclusione sociale delle persone con disabilità ai tempi del Covid. Tracciare nuove rotte nella tempesta, Maggioli Editore, Sant’Arcangelo di Romagna, 2021.

  1. La seconda parte è stata pubblicata successivamente su welforum.it
  2. Immaginabili Risorse è una rete informale composta da circa 100 tra cooperative sociali, associazioni, aziende consortili, sanitarie e enti locali del nord Italia. Suo scopo è la promozione della cultura dell’inclusione e la diffusione di buone prassi che sostengano la presenza delle persone con disabilità nelle nostre comunità in quanto cittadini che contribuiscono alla loro costruzione. Si veda www.includendo.net.
  3. C. Palmieri, “Disabilità e inclusione: una proposta pedagogica”, in C. Del Carro, R. Morelli (a cura di), L’inclusione sociale delle persone con disabilità ai tempi del Covid, Maggioli, Santarcangelo di Romagna, 2021, p. 113.
  4. Per approfondire lo sviluppo delle riflessioni all’interno della Rete di Immaginabili Risorse potete partecipare al IV convegno nazionale della Rete, si veda qui.
  5. Si veda R. Morelli, “La fragilità come vaccino comunitario”, Scambi di Prospettive, 9 ottobre 2020
  6. Si veda su questo Byung-Chul Han, La salvezza del bello, Nottetempo, Milano, 2019
  7. Psicologa sociale e tra i fondatori dello Studio APS.