I Policy Highlights di Politiche Sociali /Social Policies1
Le politiche abitative, tra territorializzazione, residualizzazione e innovazione
Se possiamo dare per scontata la progressiva regionalizzazione del welfare italiano e delle politiche sociali, non da meno è il settore abitativo. Nelle politiche abitative, infatti, l’orizzonte di intervento regionale e locale ha assunto un’importanza crescente a fronte di una tradizionale modalità di azione pensata, promossa e finanziata al livello nazionale.
Certo, già in passato erano particolarmente rilevanti nell’implementazione di queste politiche gli enti gestori dell’Edilizia residenziale pubblica (Erp), a loro volta soggetti a una progressiva regionalizzazione e aziendalizzazione (su Welforum se ne è discusso qui) che ha reso maggiormente territorializzato anche il segmento più “tradizionale” del settore, quello della produzione della casa pubblica. In questo quadro è possibile intravedere una progressiva dualizzazione dell’intervento abitativo, che vede coesistere interventi tradizionali (Erp e trasferimenti monetari alle famiglie) con modelli sempre più autonomamente sviluppati ai livelli locali. Due modelli operativi separati ma interconnessi, con “vasi comunicanti” tanto al livello della governance quanto a quello delle persone beneficiarie. Questi interventi “innovativi” si caratterizzano per una maggiore attenzione all’offerta di servizi, e non solo di beni/risorse economiche, e sull’adozione di un’ottica che tende sempre più a leggere l’abitare come parte di un complesso nodo di bisogni.
L’aumento di queste forme di intervento ha accresciuto il dibattito sulle politiche abitative e di innovazione sociale urbana a livello nazionale: Urbanpromo Social Housing è arrivato alla sua dodicesima edizione e sono ormai moltissimi gli esperimenti di housing sociale, diffusi non più solamente nelle città metropolitane del nord-ovest. Urbanpromo Social housing, nello specifico è una manifestazione annuale organizzata da alcuni grandi player nazionali – da alcune delle maggiori Fondazioni di origine bancaria a Cassa Depositi e Prestiti Immobiliare sgr – dedicata all’esplorazione e discussione delle potenzialità e degli sviluppi nel campo delle politiche urbane innovative e dell’abitare sociale. Scorrerne il programma restituisce una prima idea della varietà degli attori coinvolti in questo tipo di politiche urbane e abitative innovative. A corollario di questa attenzione, vale la pena almeno menzionare la riduzione dei finanziamenti nazionali previsti per sostenere varie forme di abitare, a partire dal ruolo secondario che queste hanno nel PNRR (Caritas Italiana 2022), fino alla scomparsa dei contributi per il sostegno alla morosità incolpevole dalla Legge di bilancio recentemente discussa. Questo processo, che potrebbe anche essere descritto come una “residualizzazione” dell’intervento tradizionale (Costarelli e Maggio 2021), vede le politiche locali differenziarsi rispetto a quelle tradizionali per target (prevalentemente la cosiddetta “fascia grigia”2), strumenti di governance (la partnership pubblico-privato), modelli di finanziamento (l’ampio ricorso al social impact investing e, in generale, a finanziamenti “a progetto” e/o straordinari). L’enfasi sul “territorio locale” ha molte ricadute, in una dinamica che è anche di costruzione e definizione del territorio stesso. Tra queste ricadute, una di particolare interesse e su cui mi soffermo investe il legame fra queste politiche abitative e la costruzione della “comunità” come loro categoria cardine. Per farlo, esplorerò il caso di Torino, oggetto di una ricerca sull’emergenza abitativa che ho condotto fra il 2017 e il 2019, intervistando numerosi attori del sistema territoriale (funzionari comunali, assistenti sociali, operatori di Enti del Terzo settore) e analizzando i documenti prodotti sui vari progetti abitativi presenti in città. Nonostante le osservazioni qua riportate vadano circoscritte al caso locale in esame, mi pare colgano aspetti di interesse più ampio, capaci di indicare dinamiche riscontrabili anche in altri contesti locali nazionali, in virtù di una matrice discorsiva e di intervento diffusa.
Il modello delle residenze temporanee collettive: “social housing” e comunità a Torino
Il modello delle “residenze temporanee collettive”– pur non esaurendo certo il novero degli interventi abitativi innovativi potenzialmente sviluppati dai livelli locali – si presta a essere analizzato come caso esemplificativo, in virtù dell’enfasi discorsiva molto accentuata cui è soggetto e del riferimento alla logica dell’inclusione attiva che lo caratterizza. L’utilizzo che viene fatto del termine “comunità” ci dice di un concetto ambivalente, che è contemporaneamente referente e volano dell’intervento abitativo: ci si aspetta che quest’ultimo “produca” comunità e al tempo stesso che esso sia “favorito” dalla comunità.
Le residenze temporanee collettive (spesso chiamate, non senza ambiguità, social housing) sono luoghi nei quali soggetti destinatari di sostegno abitativo possono transitare per un periodo non superiore a diciotto mesi, mentre attendono il collocamento in un alloggio Erp o la possibilità di accedere a un’altra sistemazione sul mercato privato della locazione (calmierato a vario titolo). In alcuni casi queste residenze sono destinate anche ad altri tipi di utenza, configurandosi così come spazi di social mix. Queste iniziative permettono di mostrare l’espansione della governance urbana, essendo spesso finanziate e prodotte a partire da risorse pubbliche (comunali, regionali, a valere su finanziamenti progettuali specifici), del privato a finalità sociale (soprattutto Fondazioni di origine bancaria) e del privato stricto sensu (fondi di investimento), e gestite da vari Enti del terzo settore in collaborazione con i servizi sociali territoriali.
Nel caso di Torino le residenze temporanee collettive si sono sviluppate a partire dai primi anni 2000 in via sperimentale, diventando in un secondo momento (indicativamente 2006-2015) uno degli assi privilegiati di intervento. Attualmente, le residenze temporanee collettive presenti sul territorio sono più di 25, fra coabitazioni giovanili e condomini solidali aperti a vari target, vere e proprie residenze temporanee (“social housing”), residenze temporanee dedicate ai soli nuclei in emergenza abitativa. L’iniziativa “Io abito social” mappa 55 esperienze di vario tipo. Le residenze possono avere modelli organizzativi, di finanziamento, di gestione interna variegati, e anche le dimensioni possono variare sensibilmente, arrivando a offrire fino ai 122 appartamenti di sharing.
All’interno di questa varietà e complessità, vale la pena sottolineare alcuni tratti comuni, a partire dall’utenza. Questa viene infatti individuata principalmente attraverso tre figure-tipo: il city user, la fascia grigia e la multi-problematicità. Il primo gruppo si caratterizza per un bisogno abitativo contingente, relativamente slegato dal reddito disponibile. Soggetti che abiteranno la città per periodi limitati di tempo per studio o lavoro, particolarmente importanti nei progetti di abitare sociale ai fini della sostenibilità economica delle strutture. Il secondo gruppo viene tendenzialmente individuato in quei soggetti che hanno una mancanza di reddito congiunturale, effetto della crisi occupazionale o di quella pandemica. Sono soggetti che non presentano forti dimensioni di vulnerabilità se non quelle strettamente legate alla mancanza di lavoro. Proprio per questo motivo rappresentano il target ideale per la costruzione di progetti che hanno a che fare con il potenziamento delle competenze e con la riqualificazione occupazionale. Infine, la multi-problematicità: una categoria che, nella grande eterogeneità, si caratterizza per la presenza di molteplici “fragilità”, dalla carenza cronica di occupazione alle problematiche di salute, dalle difficoltà relazionali a quelle genitoriali/educative. In questo gruppo vediamo spesso soggetti e nuclei già in carico ai servizi sociali territoriali, provenienti da percorsi di povertà, carriere abitative frammentarie (che non escludono fasi di homelessness), sfratti in corso, e così via.
In base all’impianto discorsivo sottostante a questo tipo di interventi, poiché l’inserimento nelle residenze non è sempre volontario né frutto di una specifica scelta di vita, la comunità diventa uno strumento che deve essere stimolato, “fatto lievitare” dal personale che gestisce il progetto. Diventa dunque importante la capacità degli operatori di costruire relazioni di fiducia con i destinatari dell’intervento, con una vera e propria presa in carico dei casi maggiormente bisognosi e lo stimolo alla partecipazione degli altri. Questo restituisce una dimensione del lavoro dei gestori sociali come lavoro relazionale e di cura, rivolto sia ai singoli soggetti/nuclei, sia al collettivo più ampio dell’inquilinato nel suo complesso. Del resto, nel corso delle interviste realizzate a operatori e operatrici del Terzo settore attivi a Torino in questo tipo di politiche, è emerso come questi legami possano finire per eccedere i tempi progettuali, trasformandosi in una presa in carico forse leggera, ma persistente. Mi è stato raccontato in molte occasioni di legami che superano la durata dell’inserimento nel social housing. Questo permette di sottolineare che, anche se l’obiettivo del percorso avviato con queste persone dovrebbe essere il raggiungimento dell’autonomia, non sempre i vincoli temporali dei progetti sono sufficienti. Capita anche che a questa autonomia da raggiungere faccia da contraltare la richiesta di “mettersi in gioco”, di mostrare un certo livello di proattività e una concreta volontà di uscire dalla situazione “sfortunata” nella quale ci si trova. Questo può essere letto come parte di quel più ampio processo di trasformazione delle politiche sociali contemporanee, che trova due delle sue chiavi di lettura nell’individualizzazione degli interventi e nella responsabilizzazione dei beneficiari (Rossi 2017).
Social housing: una comunità “individualizzante” di “gente che passa”?
Per concludere, l’osservazione di questi spazi peculiari del welfare contemporaneo permette di illustrare l’importanza che assume il concetto di comunità, uno strumento investito di una funzione «sia organizzativa che “pedagogica”» (Olagnero 2018). Da una parte, questi interventi propongono una comunità “transitoria”, che cercano di attivare e sviluppare nel breve arco della permanenza nelle residenze attraverso una continua enfasi sulla ricostruzione di un tessuto sociale sfilacciato; questa impostazione può avere notevoli risvolti positivi rispetto all’attivazione e all’inclusione sociale di nuclei in situazioni complicate, favorendo lo sviluppo di competenze e la formazione, la costruzione di legami deboli e l’accumulazione di capitale sociale, con ricadute che potenzialmente si estendono oltre la durata progettuale. Dall’altra, proprio perché l’opportunità per avviare un percorso di autonomia si svolge all’interno di una finestra temporale contingentata, è forte il richiamo alla responsabilità individuale, con il risultato che sovente quella che viene veicolata è un’idea di società centrata sull’individuo, sulle risorse personali e sulla responsabilità soggettiva a fronte di problemi collettivi, marcando così una distanza da una visione più propriamente comunitaria. Per questo motivo, il termine “sfortuna” deve essere integrato dalle virgolette: si tratta infatti di una lettura che rischia di colpevolizzare e attribuire il peso della povertà sugli stessi soggetti poveri, relegando in secondo piano le disuguaglianze sociali ed economiche strutturali. Rimane inoltre sempre aperto il rischio che questi progetti abbiano ridotte ricadute a lungo termine, proprio alla luce di quel portato residuale che le politiche abitative tradizionali hanno assunto, non permettendo ai destinatari degli interventi l’approdo a una casa sicura e stabile.
- L’articolo che segue sintetizza alcuni degli esiti principali di un lavoro pubblicato sul numero 3/2022 di Politiche Sociali/Social Policies, rivista edita dal Mulino e promossa dalla rete ESPAnet-Italia. Per maggiori dettagli e citazioni: Frangioni, T., Una «comunità di gente che passa»? Social housing e comunità a Torino, in «Politiche Sociali/Social Policies», 3/2022, pp. 539-556.
- La “fascia grigia” individua quella categoria di persone che hanno delle difficoltà a sostenere un canone di locazione ai prezzi di mercato, ma che contemporaneamente non sono abbastanza deprivate da avere un rapido accesso alle graduatorie Erp. Chiaramente, i confini di questo gruppo, che non ha una vera e propria definizione amministrativa, sono sfumati e contestuali da territorio a territorio.