Non si metta la scuola (superiore) fra parentesi


Il ritorno generalizzato alla DAD nella scuola superiore da fine ottobre 2020 è stato improvviso, non conseguente a precisi calcoli sui dati della pandemia e alla reale presenza di focolai nelle scuole1.

 

Il DPCM del 3.12.2020 indica un organo, il tavolo di coordinamento istituito presso le Prefetture, che si assuma la responsabilità “del più idoneo raccordo tra gli orari di inizio e termine delle attività didattiche e gli orari dei servizi di trasporto pubblico”, ovvero di costruire alcune basilari condizioni a garanzia del diritto all’istruzione dei ragazzi che frequentano le scuole superiori. Si è data notizia dell’avvio del lavoro dei tavoli di coordinamento provinciale, si è annunciato il fabbisogno relativo all’incremento dei trasporti e il 28.12.2020 un provvedimento nazionale ha annunciato la riapertura al 50%. Ma lunedì 07.1.2021 si sono riaperte le aule solo in Valle d’Aosta, Toscana, Provincia Autonoma di Trento. Cosa che pare violare i diritti 3 e 34 della Costituzione come affermato da Cesare Mirabelli, Presidente emerito della consulta, in un’intervista sul Sole 24Ore del 10.01.2021 e come attestato da diverse sentenze dei TAR di Emilia Romagna e Lombardia. E che viola, aggiungiamo, il diritto all’educazione sancito all’articolo 28 della Convenzione Internazionale dei Diritti dell’Infanzia del 1989.

 

Il DPCM del 15.1.2021 ha dunque disposto la riapertura delle scuole superiori garantendo almeno il 50% fino al massimo del 75% di presenze. Il Comitato tecnico scientifico, il 17.01 ha ribadito l’importanza di tornare in classe in presenza, rimarcando gli effetti negativi che possono derivare, anche sul rendimento scolastico degli studenti, da un prolungamento eccessivo della DAD.

Di fatto, sta succedendo che il 18.1 sono tornate a scuola al 50% Piemonte, Lazio, Emilia Romagna e Molise; il 25.1 dovrebbero tornare Liguria, Umbria, Campania, Puglia; l’01.2 la Sardegna, il FVG, le Marche, la Calabria, il Veneto, mentre Sicilia, Lombardia sembra restino in DAD in quanto zona rossa mentre la Provincia Autonoma di Bolzano, anch’essa in zona rossa, riaprirà.

Nonostante la chiarezza del DPCM e del parere del CTS, permangono la negazione della partecipazione di studenti e genitori nelle decisioni che li riguardano così profondamente e il caos delle aperture e delle chiusure delle scuole a seconda delle decisioni delle singole Regioni, che sembrano essere assunte al di là di dati che sostengano l’evidenza delle scelte.

 

Si può o non si può riaprire?

Di seguito affrontiamo la questione, riassumendo alcune fra le più recenti acquisizioni scientifiche con il fine di metterle a disposizione in modo semplice e ordinato.

Lo studio di Enrico Bucci della Temple University di Philadelphia e di Antonella Viola dell’Università di Padova ha confermato che la seconda ondata di contagi non dipende dall’apertura delle scuole. Bucci sottolinea che “a fronte di 4-5 pubblicazioni che evidenziano un nesso causa-effetto tra scuola e focolai, ce ne sono decine che dimostrano l’esatto contrario”.

Dati confermati dal Rapporto dell’Istituto superiore di sanità del 30.12.2020, che, a p. 21, conclude:

“Allo stato attuale delle conoscenze le scuole sembrano essere ambienti relativamente sicuri, purché si continui ad adottare una serie di precauzioni ormai consolidate quali indossare la mascherina, lavarsi le mani, ventilare le aule, e si ritiene che il loro ruolo nell’accelerare la trasmissione del coronavirus in Europa sia limitato. L’esperienza di altri Paesi, inoltre, mostra che il mantenimento di un’istruzione scolastica in presenza dipende dal successo delle misure preventive adottate nella comunità più ampia. Quando sono in atto e ampiamente seguite misure di mitigazione sia a scuola che a livello di comunità, le riaperture scolastiche pur contribuendo ad aumentare l’incidenza di Covid-19, causano incrementi contenuti che non provocano una crescita epidemica diffusa. La revisione della letteratura suggerisce che date le previsioni secondo cui le misure di distanziamento sociale potrebbero dover essere adottate ancora per molti mesi, c’è un urgente bisogno da parte di tutti i Paesi di identificare le modalità più idonee per riportare in sicurezza gli studenti alla didattica in presenza”.

 

Sappiamo che, come è naturale che sia, gli studi scientifici non sono univoci nelle conclusioni. Ma tre punti almeno risultano evidenti.

 

Il primo: la situazione è complessa e richiede soluzioni complesse. Sono necessari volontà politica, capacità amministrative e gestionali, impegno intersettoriale per riportare gli studenti in presenza nelle scuole superiori. Istituti Comprensivi e scuole secondarie hanno lavorato sodo per costruire le condizioni per una didattica in presenza “sicura”. Essendo però mancata un’efficace e innovativa organizzazione dei trasporti, degli orari e dei tracciamenti, oltre che della stessa didattica, questo non è stato sufficiente.

 

Il secondo: le scuole superiori in molte Regioni sono state “chiuse” intorno al 20 febbraio 2020 e mai più riaperte fino alla ripresa del nuovo anno scolastico, a fronte di molti altri esercizi, come ad esempio i bar, che hanno visto lunghi periodi di apertura. Per i ragazzi delle superiori, se le lezioni in presenza riprenderanno l’uno febbraio, significa poco più di un mese di presenza in quasi 12 mesi: un tempo davvero inaudito in un’età della vita cruciale per costruire la propria identità nel necessario dialogo con le realtà esterne alla famiglia. L’impegno di moltissimi insegnanti nella didattica a distanza (o, più propriamente, didattica dell’emergenza) ha fatto la differenza, garantendo la possibilità per gran parte degli studenti di continuare a studiare e a formare competenze. Un’integrazione ragionata e misurata della DAD nelle pratiche didattiche in presenza speriamo si trasformi in un lascito importante di questa pandemia. Il tempo è però ora diventato troppo lungo per metodologie pensate per integrare l’insegnamento in presenza e non sostituirlo: la scuola non è solo luogo di trasmissione e formazione di conoscenze, ma soprattutto luogo essenziale di promozione umana, tramite la costruzione di contesti relazionali in cui sperimentarsi attraverso il confronto con un insieme eterogeneo di persone, saperi ed esperienze.

 

L’urgenza di reimmergersi nella realtà di corpi che si incontrano si fa sentire per tutti i ragazzi, e soprattutto per coloro la cui famiglia fatica a trovare le risorse per garantire un contesto educativo e protettivo. Ai genitori si chiede di essere al contempo madri, padri, amici, insegnanti e compagni di giochi e attività sportiva, nel tentativo di dare risposta ai diritti dei bambini e dei ragazzi all’educazione, al tempo libero, al gioco, all’apprendimento, allo sport. Ma i genitori non educano da soli, e soprattutto non educano se lasciati soli. Sono molteplici gli allarmi delle associazioni di pediatri che denunciano i rischi connessi a questo isolamento prolungato: scorrette abitudini alimentari, assenza di attività motoria, ripiegamento su se stessi, abuso di tecnologie, deprivazione educativa, ecc.

L’Associazione Culturale Pediatri2 scrive: “Per tutti, tranne quei pochi che possono vantare una buona dotazione tecnologica in casa e genitori in grado di accompagnarli nelle lezioni e nei compiti, si sta accumulando un ritardo educativo, che per la maggioranza (secondo i dati prodotti dalle indagini di Save the Children e di Sant’Egidio, almeno 6 su 10) è molto rilevante (e non può essere nascosto dietro i pur doverosi sforzi di didattica a distanza).

Altri studi autorevoli impressionano per le evidenze che portano sugli effetti delle chiusure scolastiche sulla crescita dei ragazzi. Ne citiamo solo uno, che riporta dati ineludibili sull’aumento dell’anoressia nervosa, ma avremmo potuto scegliere fra molti.

Lo Statement del Royal College of Paediatrics and Child Health (RCPCH) riassume quanto Agenzie internazionali, Gruppi accademici e Società scientifiche hanno prodotto in studi e rapporti che hanno motivato note di grande allarme da parte di autorevolissime fonti provenienti dai diversi campi della scienza e della cultura: “Mentre le conseguenze cliniche dirette del Covid-19 in età pediatrica sono rare, gli effetti indiretti della pandemia, (fra cui la prolungata chiusura delle scuole e il conseguente passaggio alla DAD, n.d.r.) possono essere catastrofici per i bambini, con un considerevole peggioramento della salute e aumento della mortalità”.

S. Vicari segnala l’aumento degli accessi al pronto soccorso per tentativi di suicidio e di autolesionismo (Vicari, Di Vara, 2020), mentre l’AIFA rileva l’aumento dell’utilizzo degli antidepressivi nell’anno 2020 rispetto al 2019. Si moltiplicano le segnalazioni da parte di genitori e insegnanti sul fatto che, anche in quella minoranza di ragazzi che ha avuto accesso alle tecnologie e al supporto familiare, si rendono sempre più evidenti “cali di attenzione e indisponibilità alle attività finalizzate all’apprendimento”, oltre a aumento dei suicidi, delle forme depressive, dei ritardi nell’apprendimento, nell’indebolimento delle reti e dei rapporti sociali, ecc. Il Centro Studi del Consiglio nazionale dell’Ordine degli psicologi in accordo con il Ministero dell’Istruzione, ha realizzato un’indagine focalizzata sull’ascolto della voce degli adolescenti, i quali dichiarano, in grande maggioranza, che “l’impossibilità di andare a scuola porta soprattutto stress, noia, fatica”.

Senza scuole e senza attività sportive si è creato un fenomeno di deprivazione culturale ed educativa istituzionalizzato, che, come messo in luce anche dal rapporto di Ipsos-Save the Children , può avere effetti di lungo periodo sull’apprendimento e, più in generale, sulla dispersione scolastica, colpendo in misura maggiore le fasce di popolazione più svantaggiate e aumentando la forbice tra chi ce la farà e chi probabilmente finirà tra i “dispersi dell’educazione”.

 

Il secondo punto riguarda, dunque, il difficile equilibrio da trovare fra la necessità di proteggere gli adolescenti, così come tutto il vasto mondo adulto che ruota intorno alla scuola, dal contagio, e la necessità di proteggere gli stessi adolescenti dagli effetti sullo sviluppo prodotti dalle limitazioni dei contatti sociali necessarie a contenere il contagio. La maggior parte delle ricerche mette comunque in evidenza che “l’impatto delle chiusure è minimo sui contagi, enorme sul nostro domani: si sta sacrificando il nostro futuro in nome di un dubbio rischio del presente”3.

 

Il terzo punto riguarda la condizione in cui l’Italia è entrata nella pandemia: nel nostro Paese il tasso medio di abbandono scolastico fra i 18 e i 24 anni è del 13,5 % nel 2019, ben al di sopra della media UE del 10,2 % (dato Istat) soprattutto considerando che in alcune Regioni arriva al 35%, e una percentuale del 24% di giovani di età compresa tra i 15 e i 29 anni non studia e non lavora (i cosiddetti Neet), rispetto a una media del 13% dei paesi dell’area OCSE, con una popolazione che è fra le più vecchie al mondo.

Il Rapporto Pisa 2020 dell’Ocse mette in rilievo che, nel parametro Istruzione universitaria, l’Italia è ultima (19.6%), battuta solo dal Messico (18.3%). Il primato nel parametro spesa per leducazione ($ spesi per studente universitario e per l’educazione nella prima infanzia) spetta al Lussemburgo con 48.907$, mentre l’Italia si colloca al 26esimo con 11.257$, molte posizioni dopo Spagna, Francia, Germania, Regno Unito, ecc. Osservando il coefficiente di Gini, che misura i livelli di uguaglianza e disuguaglianza, l’Italia sprofonda al 26eiesimo posto fra i 40 paesi presi in esame. In sintesi: l’Italia è ultima in quasi tutte le classifiche, ma è prima per il numero di giorni di chiusura della scuola, e non solo di quella superiore, dall’inizio della pandemia (Cordini, Caciagli, 2020).

La letteratura converge nel dimostrare che ogni dollaro speso in educazione, in particolare nei primi anni di vita, consente di recuperare 7 dollari di PIL4. La correlazione tra disinvestimento in educazione e stagnazione economica è ampiamente riconosciuta (Bianchi, 2020). Purtroppo, l’Italia è uno dei pochi Paesi che non ha avviato indagini nazionali sulle perdite degli apprendimenti durante la pandemia, come invece hanno fatto Olanda, Francia, USA, ecc., i quali, dati alla mano, sono in grado oggi di dimostrare i danni sull’apprendimento che la didattica a distanza ha creato. Nonostante questo, il Rapporto sul Mercato del lavoro e la contrattazione 2020 del Cnel afferma che “lo scarso investimento pubblico sulle nuove generazioni (in particolare la parte che va efficacemente a rafforzare la loro formazione e l’inserimento solido nel mondo del lavoro) è il principale nodo che vincola al ribasso le possibilità di crescita italiane, da sciogliere prima ancora che sul piano del rapporto tra giovani e lavoro, su quello più alto del ruolo delle nuove generazioni nel modello di sviluppo del Paese. Se non si inverte questa tendenza non solo si pregiudicano le prospettive economiche del Paese, ma si rischia di alterare in profondità il patto fra le generazioni che è un elemento costitutivo dell’assetto sociale, della sua equità e stabilità”.

 

Il terzo punto è dunque che l’Italia non è un paese che possa permettersi questo disinvestimento: i Paesi che hanno realizzato negli ultimi anni forti investimenti sulla scuola, in questo frangente di emergenza, hanno chiuso tutto per non chiudere le scuole e nessuno di essi ha tenuto a casa gli studenti delle superiori per quasi un anno, come sta invece accadendo in Italia, anche a fronte di numeri di contagi ben più alti. Quei Paesi, inoltre, stanno pensando di chiedere ai più anziani lo sforzo di stare in casa per poter vaccinare, dopo il personale sanitario, il personale scolastico e il personale dei servizi essenziali.

Se l’Italia è entrata così debole nell’emergenza sanitaria, il problema non è la pandemia. Non stiamo pertanto sostenendo di tornare a scuola, pensando che tornare alla scuola ante Covid sia la soluzione. L’emergenza sanitaria è anche un “rivelatore” di inadeguatezze storiche che potrebbe produrre una straordinaria occasione per ripensare la scuola dalla A alla Z, interrogando tante pratiche didattiche obsolete, aprendo la scuola al territorio, collocando finalmente la didattica disciplinare in una prospettiva autenticamente educativa, ecc.

Ma la pandemia sta causando dei danni aggiuntivi che rischiano di travolgerci. Continua il Rapporto Cnel: “La necessità di chiudere le scuole nel corso del 2020 ha costretto a garantire l’istruzione con strumenti nuovi, coerenti con la didattica a distanza (…) ma ne ha ridotto complessivamente la qualità e ha esposto ad una forte crescita del rischio di dispersione scolastica. Con la conseguenza di inasprire non solo le diseguaglianze generazionali ma anche quelle sociali”. Riaprire o non riaprire è quindi innanzitutto una questione di giustizia sociale, di prevenzione della dispersione, di futuro, di coesione sociale.

 

La domanda posta all’inizio: “Si può o non si può riaprire?” è dunque mal posta.

La domanda “ben” posta, generativa di buone pratiche, è: “Quali sono le strategie da implementare per poter riaprire?”. Le differenze fra gli Stati, anche solo a livello europeo, sulle aperture delle scuole rendono evidente che non si apre quando ci sono pochi casi, ma quando si fa una scelta politica che considera l’istruzione un diritto sociale da garantire in ogni frangente, a prescindere.

La Politica non può limitarsi a constatare le difficoltà rispetto al ritorno in aula e a rimandarlo in attesa che la curva dei contagi cali. La curva dei contagi è altalenante e la situazione si incupisce ogni giorno a causa delle diverse varianti del virus, della diversità delle misure, della diversa disponibilità dei vaccini e dei diversi livelli di tenuta dei sistemi sanitari regionali. Per non far perdere anche questo intero anno scolastico agli adolescenti occorre una strategia forte e urgente, condivisa tra ministeri, regioni e enti locali, in grado di strutturare le condizioni per implementare procedure efficaci perché queste oggettive difficoltà possano essere superate. Come quella che alcune regioni, ad esempio la Toscana, pare stiamo mettendo in atto, a dimostrazione della fattibilità della cosa. In Inghilterra, dove, dal punto di vista dei contagi, si registra la situazione più grave del nostro Continente, le scuole sono state aperte fino a Natale. Ora sono chiuse fino al 4.2 e sempre aperte per i bambini e i ragazzi più vulnerabili e per i figli dei lavoratori essenziali. Quindi non sono mai state chiuse del tutto.

“É difficile, i casi aumentano, non si può riaprire”, si è detto e così è stato fatto.

“Siccome è difficile, occorre un’assunzione aggiuntiva di impegno e responsabilità per costruire le condizioni organizzative necessarie alla riapertura”, dobbiamo rispondere.

 

Non si dica che non si riapre per i troppi casi. Non si riapre perché sono mancate, nonostante i fondi messi a disposizione, volontà politica e impegno intersettoriale. Rifacendoci allo spirito delle parole del Presidente della Repubblica del 31.12.2020:

“Non siamo in balìa degli eventi. Ora dobbiamo preparare il futuro. Non viviamo in una parentesi della storia. Questo è tempo di costruttori. I prossimi mesi rappresentano un passaggio decisivo per uscire dall’emergenza e per porre le basi di una stagione nuova”.

 

La Politica dovrebbe rendere conto di cosa sta facendo, giorno per giorno, per rendere possibili le riaperture indicate dal DPCM del 15.01.2021. Come ricercatori di una Università pubblica condividiamo la responsabilità nella costruzione di quel bene comune che è l’educazione e siamo pronti a mettere a disposizione conoscenze e competenze per affrontare le sfide di questo tempo. Un tempo grave, che chiede, lo riconosciamo, di assumersi la responsabilità di decisioni complesse senza avere sotto controllo tutte le variabili che possono influire sulla bontà di queste stesse decisioni. Ma il tempo è questo e ogni ulteriore ritardo avrà conseguenze pesanti sulla crescita dei più giovani e il futuro di noi tutti: “Non sono ammesse distrazioni”. Non si metta la scuola fra parentesi5.

  1. Questo articolo è frutto di una riflessione condivisa all’interno di LabRIEF (Laboratorio di Ricerca e Intervento in Educazione Familiare) dell’Università di Padova, a cui hanno partecipato, oltre agli autori firmatari dell’articolo, D. Moreno Boudon, A. Bello, K. Bolelli, M. Ius.
  2. ACP, Lettere M&B, 5/2020
  3. A. Viola, Corriere della Sera, 17.01.2020
  4. Heckman, Raut, 2016; Unicef Report Card n. 15, 2018
  5. Ndr: Su questo tema rimandiamo anche all’articolo, da poco uscito su welforum.it, di Cecilia Guidetti