Percorsi sospesi: l’impatto del Covid-19 sui minori migranti


Ivan MeiValentina Mutti | 2 Febbraio 2022

La riflessione che presentiamo nasce da una ricerca promossa da UNICEF ECARO – sezione distaccata in Italia – nel 2021, volta ad indagare le conseguenze della pandemia da Covid-19 sul benessere psicosociale e l’accesso ai servizi di salute mentale e supporto psicosociale (MHPSS) di minori stranieri non accompagnati e giovani adulti migranti soli.

Siamo partiti dalla premessa che minori migranti e giovani adulti che sono stati esposti a esperienze a volte drammatiche e a rischi di violenza nel loro recente passato, nel Paese di origine o più spesso durante il viaggio migratorio e nel Paese di transito, siano portatori di specifiche esigenze, potenzialmente aggravate dalla pandemia, e conseguentemente necessitino di una presa in carico integrata. Si è dunque indagato l’impatto della pandemia sul benessere di minori e giovani migranti, e sui servizi MHPSS ad essi dedicati, attraverso una ricerca realizzata in Lazio, Lombardia, Calabria e Sicilia che ha coinvolto minori e giovani (15-24 anni) residenti nelle strutture di seconda accoglienza, operatori dei centri e professionisti della salute mentale e del supporto psicosociale (psicologi, psicoterapeuti, neuro-psichiatri infantili, psichiatri, assistenti sociali). Sono stati realizzati interviste semi-strutturate e focus group con 91 soggetti, e sono state raccolte opinioni di 273 tra minori e giovani, operatori, professionisti e tutori volontari attraverso 4 survey online.

 

Cambiamenti

La pandemia è arrivata inaspettata anche nel mondo dell’accoglienza e ha comportato una ristrutturazione complessa dei servizi e della vita quotidiana delle comunità residenziali. Emerge una generale eterogeneità delle prassi messe in campo e delle indicazioni ricevute nei primi mesi dell’emergenza sanitaria, (norme di sicurezza, gestione dei positivi, procedure di ingresso e trasferimento di ospiti), che si sono poi successivamente strutturate.

Nelle fasi di maggiori restrizioni, anche a seconda dei territori, i ragazzi e le ragazze hanno provato rabbia, frustrazione e difficoltà ad aderire alle nuove norme, tra cui l’uso della mascherina, riportato da tutti come faticoso, a cui si sono aggiunte le preoccupazioni sul futuro e sul proprio progetto di autonomia:

 

a me piace andare in giro o anche al lavoro, quando c’era la zona rossa e non potevo uscire io mi arrabbiavo, non mi piace stare nella stanza… mi mancano i miei amici quando mangiamo insieme, uscire fuori e vedere la vita normale come prima, ora non la vedo [A., 19, Egitto, Lombardia]

 

Gli operatori intervistati hanno sottolineato come principale tratto di cambiamento prodotto dal Covid-19 la minor prossimità fisica, un’espressione simile usata anche dai terapeuti in riferimento ai colloqui da remoto, che si traduce nel non condividere più i pasti, nell’uso della mascherina e nell’assenza di corporeità nelle relazioni. Tuttavia, rispetto alle aspettative degli stessi professionisti, la convivenza durante i ripetuti lockdown nei centri di accoglienza minorili è stata gestibile e non conflittuale nella maggioranza dei casi, e ha permesso una maggior reciproca conoscenza tra ospiti e con l’équipe.

Le limitazioni sentite da ragazzi ed operatori come le più rilevanti sono state la riduzione della mobilità e della vita sociale nel territorio e il trasferimento – anche se temporaneo – della formazione online e l’interruzione di tirocini e borse lavoro. Nelle parole dei nostri interlocutori, il cambiamento più penalizzante, infatti, riguarda a dimensione formativa e delle prime opportunità di lavoro in Italia:

 

non abbiamo potuto fare più i laboratori, faccio fatica a capire le cose mentre in presenza andavamo nei laboratori e potevamo vedere e capire bene. Adesso facciamo solo la teoria. Per me è una cosa brutta [D., 18, Nigeria, Calabria]

 

La didattica a distanza, che implica possesso e familiarità con l’uso di computer e tablet, ha reso molto complesso seguire le lezioni, soprattutto per ragazzi non madrelingua che vivono in strutture dove condividono con altri la stanza, ed è emersa una generale “perdita di apprendimento”, già rilevata in larga misura tra gli studenti italiani ed europei (Mascheroni et al., 2021; Caffo et al., 2020), dovuta anche ad un apprendimento svuotato da aspetti relazionali, e alle occasioni di incontro con coetanei italiani venute a mancare.

L’interruzione dei tirocini è stata inoltre vissuta come una grossa perdita, data la centralità attribuita al lavoro dai ragazzi che, come è noto, sono nella maggior parte dei casi guidati dal desiderio di inviare rimesse alle famiglie di origine e orientati dalla stessa modalità operativa dell’accoglienza a costruire un progetto di autonomia che deve prendere forma allo scadere della minore età.

 

Adattamenti

Vivere nelle comunità di accoglienza con i pari e passare i periodi di isolamento in una dimensione collettiva sembra presentarsi come un fattore di protezione rispetto all’emergere di un disagio importante: ragazzi e ragazze migranti hanno esplicitato, durante i focus group, che si sentivano fortunati nell’aver vissuto il lockdown con altri coetanei, o comunque ridimensionato la gravità della situazione pandemica rispetto ad altre esperienze vissute altrove:

 

sono riuscito a studiare in questi mesi, ho imparato anche un po’ di italiano, è stato utile stare al centro, poi i ragazzi qua scendono e giochiamo, non ci sentiamo come se siamo in corona [B., 17, Bangladesh, Sicilia]

 

L’esperienza migratoria in sé, che si configura anche come un processo di acquisizione di competenze, ha permesso ai ragazzi e alle ragazze migranti di affrontare con maggior risorse gli imprevisti e l’insicurezza generati dalla pandemia (Coope et al., 2020; Akbar e Preston, 2019): emerge una significativa capacità di affrontare l’insicurezza, di relativizzare le difficoltà e un’abitudine a mantenere relazioni intime a distanza. La possibilità di restare in contatto tramite il telefono e Internet con il Paese di origine, con amici nei Paesi di transito, o ancora con connazionali in Italia, è stata cruciale. Il telefono è stato un grande protagonista nella pandemia, a differenti livelli: come risorsa per mantenere i propri legami, strumento per conoscere e approfondire nuovi argomenti, ma anche come ostacolo alla ripresa di una routine. Oltre al telefono, anche la fede e la preghiera per i ragazzi incontrati durante la ricerca sono stati uno strumento importante per superare i momenti di difficoltà, come raccontato da ragazzi e terapeuti:

 

la fede li ha aiutati molto, a rimanere concentrati, a mantenere un legame con il Paese di origine e a pensare ad una sorta di prospettiva, prima o poi ne saremmo usciti e sarebbe andato tutto meglio [S., psicologa, Calabria]

 

Preoccupazioni

Oltre alle preoccupazioni per i propri familiari nei Paesi di origine e al timore di non riuscire ad inviare rimesse, il “rimanere indietro” rispetto alle occasioni occupazionali rimane una preoccupazione importante, insieme al rinvio di udienze in Tribunale e di interviste presso le Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale, nonché la difficoltà di reperimento dei documenti nei Paesi di origine che hanno vissuto a loro volta lockdown nazionali e chiusure di uffici:

 

la gente ha perso molta libertà, anche la mia vita è cambiata, il corona fa sentire triste, io sono stressato dall’attesa dei documenti e perché non riesco trovare lavoro e ho bisogno di soldi [B., 16, Afghanistan, Calabria]

 

La pandemia – nel suo provocare una situazione “in sospeso” – ha quindi avuto ripercussioni sulla vita di ragazzi e ragazze migranti che, oltre ai cambiamenti vissuti dal resto della popolazione, hanno sofferto dell’interruzione di tutte quelle attività volte all’inclusione sociale e soprattutto alla costruzione dell’autonomia economica, occupazionale e abitativa, che è centrale per il percorso fuori dal mondo dell’accoglienza, e che, nonostante la buona capacità di adattamento, può avere ripercussioni di notevole importanza sul loro benessere psicologico, sociale e sulla salute mentale.

 

Servizi online

La maggior parte dei servizi MHPSS ha ristrutturato le sedute online o in una forma mista: si è trattato quasi sempre di video-chiamate in cui erano presenti il terapeuta, l’utente e un mediatore culturale, quando necessario o disponibile. La digitalizzazione del percorso terapeutico è stata vissuta come una necessità per “testimoniare la nostra presenza” (C., psicoterapeuta, Lazio), più che come un’opportunità per sperimentare un modello di intervento diversamente accessibile e di eguale beneficio. Sia ragazzi che terapeuti raccontano di preferire le sedute in presenza, dove la comprensione linguistica è più facile e immediata.

I limiti maggiori si sono riscontrati nella qualità della connessione Internet, la familiarità con il mezzo tecnologico e la possibilità di avere uno spazio con le necessarie condizioni di riservatezza e silenzio. La maggior parte dei professionisti concorda col dire che le difficoltà maggiori si sono riscontrate nell’instaurare nuove relazioni di supporto, mentre con coloro che erano già presi in carico e con cui si era già avviata una relazione il trasferimento da remoto è stato meno problematico. Più in generale, emerge il timore di non riuscire a contenere eventuali reazioni emotive a distanza, rischiando di orientare il supporto verso una dimensione più circoscritta e di minor impatto.

 

Limiti

L’emergenza Covid-19 sembra aver acutizzato alcune criticità pre-esistenti del sistema di accoglienza e di quello dei servizi MHPSS, tra le quali l’assenza di un meccanismo strutturato di identificazione del disagio psicologico e di invio ai servizi specializzati e la scarsa pianificazione di attività con finalità psicosociali all’interno delle strutture di accoglienza, che potrebbero avere una funzione preventiva e di supporto.

Anche tra gli interlocutori della ricerca, la dimensione più riconosciuta dei servizi MHPSS è rappresentata dal colloquio individuale realizzato da psicologi, psichiatri, assistenti sociali. In misura minore si citano le attività di sostegno al mantenimento delle relazioni con la famiglia di origine o le attività di espressione nel gruppo (laboratori, gruppi di parola): quest’ultima tipologia di supporto psico-educativo, esplicitamente rivolta alla condivisione delle emozioni, all’elaborazione della dimensione del viaggio, oltre che alla risoluzione di conflitti tra ospiti, sembra essere meno presente, sia nelle narrazioni degli operatori che in quelle dei ragazzi. Questo elemento sembra rispecchiare un approccio “culturale” secondo cui il colloquio individuale, e il suo specifico setting, risulta la forma privilegiata di supporto psicologico, mentre l’importanza e la pianificazione di attività di gruppo con finalità psicosociali e funzione preventiva sembra meno presente. In alcuni casi, invece, viene valorizzata la figura dello psicologo “di comunità”, che non eroga il servizio tramite uno sportello o in una struttura esterna, ma affianca gli operatori nelle strutture e sostiene il processo di identificazione delle vulnerabilità.

Guardando al sistema nel suo complesso, una questione centrale è rappresentata dai meccanismi di coordinamento e invio che governano o dovrebbero governare i vari livelli di presa in carico: dallo sbarco alla prima accoglienza, dalla prima accoglienza alla seconda, dalla struttura ai servizi specializzati esterni, e così via. Nel quadro di questa scarsa standardizzazione, e di attribuzione a figure che non necessariamente sono formate e competenti in materia di identificazione del disagio, il rischio è di segnalare solo chi ha comportamenti di difficile gestione nella comunità e trascurare invece problematiche meno emergenti ma altrettanto serie.

Infine, una questione importante riguarda le specificità culturali dell’utenza di minori e giovani migranti, che necessita di strumenti, dispositivi e percorsi di cura adeguati al background migratorio: un approccio di tipo etnoclinico o etnopsichiatrico e la presenza di mediatori culturali formati anche in campo psicologico e psicosociale è fondamentale per la buona riuscita della presa in carico, ma poco diffusa a livello territoriale.

 

Raccomandazioni

A partire dalle evidenze generate dalla ricerca, si sono elaborate alcune raccomandazioni operative rivolte al mondo dell’accoglienza e a quello dei servizi territoriali specializzati, tra le quali:

  • rafforzare i servizi di supporto psicosociale di base interni alle strutture di accoglienza, erogabili anche da personale qualificato non specialistico, come forma di prevenzione e supporto individuale e di gruppo;
  • promuovere la formazione degli operatori delle strutture di accoglienza in tema di salute mentale e supporto psicosociale nonché percorsi di supervisione;
  • organizzare occasioni regolari di incontro tra i servizi specializzati territoriali e gli enti gestori attivi nel sistema dell’accoglienza per promuovere la conoscenza delle figure specialistiche, i servizi offerti e le modalità di richiesta di supporto;
  • offrire un supporto clinico per coloro che mostrano un disagio psicologico con strumenti e modalità attenti alle specificità culturali e adatti a costruire una relazione e una presa in carico di utenza con background migratorio;
  • rafforzare la formazione, il ruolo e la presenza dei mediatori culturali nei servizi MHPSS sia interni che esterni alle strutture di accoglienza, adeguatamente formati sulle tematiche psicosociali e integrati all’interno dell’équipe multi-disciplinare;
  • costruire una risposta dei servizi specializzati da remoto o in modalità mista, strutturando spazi, strumenti e accorgimenti di rapida attivazione;
  • strutturare linee guida per il supporto online per tutte le figure che erogano supporto da remoto;
  • favorire la conoscenza tra i minori e giovani migranti di canali di supporto online, complementari a quelli in presenza;
  • sostenere la transizione all’età adulta e lo strumento del prosieguo amministrativo, soprattutto per chi ha compiuto la maggiore età in questo biennio di pandemia.