Piano Nazionale per la Non autosufficienza: possibili miglioramenti?


Maurizio Motta | 24 Ottobre 2019

Nei prossimi giorni va al parere della Commissione Unificata Stato Regioni la proposta di  “Piano per la non autosufficienza 2019-2021″ con un decreto abbinato il cui obiettivo principale è di  muovere verso più solidi livelli essenziali di assistenza, pur nei limiti del Fondo per le non autosufficienze (FNA) che è l’oggetto da regolare con questo Piano. L’obiettivo è sicuramente importante, ma è proprio questa intenzione che richiede di approfondire possibili miglioramenti del Piano per dare consistenza a quell’obiettivo. Discutiamone alcuni, senza intenzioni polemiche ma per riflettere su possibili migliorie, a partire da questa considerazione: il welfare pubblico per la non autosufficienza si articola in molti segmenti spesso disarticolati, e dunque è proprio un “Piano” ciò che occorre, ma con un orizzonte ampio, che non dimentichi snodi cruciali.

Il rischio di mantenere percorsi frantumati e l’orizzonte di ricomposizione

In questo momento un disabile gravissimo o un non autosufficiente trova (semplificando un po’ forzosamente) diversi percorsi/offerte di prestazioni per supportare la permanenza assistita al suo domicilio:

  • se è malato di SLA può ricevere un contributo economico, e spesso di importo significativo, per assumere un assistente familiare (e spesso senza necessità di valutazioni in Unità Valutative Multidimensionale);
  • se ha una grave disabilità può cercare di accedere ai significativi interventi della “vita indipendente”, più o meno sperimentali;
  • possono essere attivi interventi promossi con le risorse per il “Dopo di Noi” (legge 112/2016);
  • se è anziano non autosufficiente o disabile può richiedere interventi sociosanitari di assistenza domiciliari, previsti anche dal Capo IV dei LEA (nel Dpcm 12/1/2017 n°15), previa valutazione in Unità Valutative Multidimensionali.

 

Non solo questi possono essere percorsi diversi per i cittadini, ma anche flussi finanziari separati per i governi locali del welfare. Però sono lontani dall’essere un sistema di offerte organico, e spesso per famiglie e utenti si presentano come opportunità da tentare, anche come caccia al percorso più favorevole, a seconda di ciò che è presente nel loro territorio.

È ben chiaro che l’oggetto di questo Piano per la non autosufficienza (nonostante la denominazione un po’ enfatica) è soltanto il Fondo per la Non Autosufficienza, molto limitato nell’entità.

Ma invece di pensare al Fondo solo come una risorsa (assai modesta) per finanziare i percorsi citati, perché non si coglie l’occasione di inserirli in un più unitario percorso che ricomponga le offerte per tutti i non autosufficienti, almeno per la loro assistenza al domicilio? Attenzione: qui non si vuole proporre una semplicistica omologazione, né di tagliare prestazioni; ma ricordare che  la tutela della non autosufficienza riguarda la tutela della vita quotidiana (il supporto per essere nutriti, lavati, vestiti, per poter fruire dei servizi igienici, muoversi), e poiché questi sono i livelli essenziali di assistenza da garantire, serve ricomporre gli interventi e flussi finanziari che hanno questa finalità.

Peraltro per chi è affetto da grave demenza (tipologia espressamente richiamata tra i disabili gravissimi cui è destinato il Fondo Non Autosufficienza) e chi ad esempio soffre di un severo parkinsonismo o di immobilità in esito ad un crollo vertebrale occorrono progetti individuali differenziati nel merito, ma non sistemi di accesso / valutazione / articolazione delle offerte / uso delle risorse finanziarie che siano strutturalmente diversi.

Dunque sarebbe utile che un Piano per la non autosufficienza almeno muovesse verso la previsione per tutte le forme di gravissima disabilità e di non autosufficienza di un processo uniforme, che preveda (pur con tutti gli adattamenti opportuni):

  • punti di accesso facilitati e capaci di informazione organica;
  • una valutazione multidimensionale che identifichi un bisogno assistenziale, che sia poi abbinato ad un massimale di spesa, crescente a disabilità crescenti, il quale contenga risorse sia sanitarie che sociali, cioè un budget di cura da trasformare nell’intervento domiciliare più adatto alla persona in quel momento;
  • un progetto di aiuto domiciliare che consenta scelta tra più opzioni.

 

Si può obiettare che il Piano per la Non Autosufficienza attuale ha (per mandato normativo) solo il compito di regolare i 550 milioni di Euro del Fondo per le Non Autosufficienze. Ma proprio qui è il nodo: se questo resta l’unico obiettivo di riordino, l’effetto del Piano è di fatto soltanto di destinare le modeste risorse del FNA a percorsi e canali esistenti, che restano frantumati. La non autosufficienza meriterebbe invece una strategia di pianificazione più ampia, che necessariamente deve riguardare anche altri contenitori normativi e offerte del welfare.

 

Se si condivide che un “Piano per la non autosufficienza” dovrebbe assumere un respiro ampio, non forzatamente limitato all’uso del FNA, merita richiamare almeno altre due azioni di ricomposizione:

  • evitare che il progetto Home Care Premium ogni anno attivato dall’INPS continui ad essere un flusso finanziario episodico ed “a bando”, con risorse mirate solo ai dipendenti pubblici, pensionati del settore o loro familiari; ed a generare interventi che vanno costruiti poi in parallelo rispetto all’ordinario sistema di interventi.
  • Superare almeno la criticità più evidente dell’indennità di accompagnamento, che consiste nell’obbligo del fruitore (o dei familiari) di usare solo denaro, e dunque mette in crisi le famiglie senza questa capacità, cioè proprio le più fragili. Anche senza null’altro cambiare andrebbe previsto che il sistema consentisse ai fruitori dell’indennità di ricevere o denaro o prestazioni, ossia inserendola nel budget di cura che si può tradurre in interventi.

Quali contenuti devono avere i livelli essenziali e gli interventi? E il rapporto con i LEA?

Tre snodi sul punto paiono rilevanti:

1) Il Piano propone con enfasi (a pag. 10) come prestazione fondamentale da garantire quale livello essenziale un “assegno di cura e per l’autonomia”. Ma ciò che serve per una efficace assistenza al domicilio, non è solo “denaro alla famiglia per retribuire badanti”. È invece un sistema che offra la scelta tra diverse possibilità di intervento, da adattare alla persona e alla sua rete familiare:

  • assegni di cura per assumere lavoratori di fiducia (ma anche con supporti per reperirli e/o per gestire il rapporto di lavoro, ove la famiglia non sia in grado e lo desideri);
  • contributi alla famiglia che desidera assistere da sé;
  • buoni servizio per ricevere da fornitori accreditati assistenti familiari e soprattutto pacchetti di altre prestazioni (pasti a domicilio, telesoccorso, ricoveri di sollievo, piccole manutenzioni);
  • operatori pubblici (o di imprese affidatarie) al domicilio;
  • affidamenti a volontari.

Se la prestazione che diventa livello essenziale è solo l’assegno di cura, inteso come contributo alla famiglia, ne deriva che tutti i disabili/non autosufficienti che non hanno familiari con piena capacità di gestire in modo autonomo l’assegno (e quindi di assumere e gestire in proprio assistenti familiari) sono condannati a non poter avere sostegni al domicilio. E si pensi ai moltissimi anziani che hanno solo familiari anch’essi anziani.

Il contenuto delle prestazioni da far diventare livello essenziale non deve dunque essere una sola prestazione (l’assegno di cura come denaro alla famiglia) bensì il vincolo a mettere in opera l’intera gamma di opportunità prima elencata, anche se offrire solo denaro alle famiglie è la modalità più comoda per il sistema dei servizi, che non implica grandi impegni organizzativi. Peraltro attivare un mix di opzioni è l’unico modo per dare davvero reale concretezza ai principi della libera scelta dell’utente e della personalizzazione degli interventi, che pure il Piano più volte richiama (ad es. a pagina 18).

2) Ciò che serve diventi un “livello essenziale” non è solo un set di prestazioni; è invece un “sistema delle cure” che il non autosufficiente abbia garanzia di trovare. E questa non è una frase retorica o “ad effetto”, ma ha un significato molto concreto e preciso, che è quello di dare natura di livello essenziale (e relativo vincolo di messa in opera) a tutti i passaggi cruciali della filiera di interventi:

  • punti di primo accesso che non si limitino ad avviare gli interventi sanitari e sociosanitari, ma che siano capaci di informare (in un unico luogo, senza costringere l’utente a peregrinare tra più sedi) sull’intera gamma delle opportunità per i non autosufficienti, dalle agevolazioni per i trasporti a quelle fiscali o per la riduzione delle barriere architettoniche;
  • valutazioni multidimensionali efficaci
  • piani individuali fondati sulla scelta di una gamma di prestazioni, a partire da un budget di cura crescente per crescenti esigenze assistenziali

Ma questi non possono essere oggetti del sistema che un Piano si limita ad enunciare; se si desidera diventino livelli essenziali il Piano deve esplicitare il modo con cui devono funzionare e almeno alcuni standard essenziali, come i tempi di attesa massimi per i cittadini.

3) Non è né corretto né utile sostenere che gli interventi di tutela della vita quotidiana al domicilio per i disabili e non autosufficienti devono essere interventi solo del comparto socioassistenziale (comuni e servizi sociali), e non anche di competenza del SSN, per almeno tre ragioni:

  • I LEA già prevedono (agli articoli 30 e 34 del Dpcm n° 15/2017) l’inserimento in strutture residenziali di disabili e anziani non autosufficienti con metà del costo a carico del SSN; costo che copre non le spese strettamente sanitarie o le azioni di professioni sanitarie ma, appunto, tutte le prestazioni di tutela della vita in RSA. Dunque perché non deve accadere lo stesso nell’assistenza domiciliare (che tra l’altro costa molto meno di un posto in RSA), analogamente prevedendo che l’assistenza di tutela sia in parte a carico del SSN?
  • Dove questo è accaduto (ad esempio in Piemonte col concorso finanziario negli interventi sociosanitari domiciliari) l’offerta ai non autosufficienti diventa più consistente. Garantire a un disabile gravissimo o a un anziano non autosufficiente poche ore settimanali di assistenza tutelare al domicilio serve ad evitare il ricovero solo per le famiglie che possono aumentare (e di molto) queste ore con proprie risorse, ed è inutile per le altre con meno risorse proprie.
  • Già accade (e da tempo) che vi siano spese del SSN per funzioni di tutela non consistenti in attività sanitarie o di professioni sanitarie. Ad esempio gli stessi LEA prevedono il rimborso delle spese di trasporto ai centri dialisi per i nefropatici cronici (art. 55 del Dpcm n° 15/2017), oppure i servizi psichiatrici erogano anche sostegni monetari ai pazienti per il loro progetto terapeutico di vita.

 

Dunque un riordino delle offerte per la non autosufficienza non può limitarsi a orientare le poche risorse del Fondo Non Autosufficienza: deve anche introdurre nei LEA più cogenti impegni di spesa del SSN per concorrere all’assistenza domiciliare tutelare. Peraltro se non si sviluppa questo impegno del SSN, sull’assistenza domiciliare ai disabili e non autosufficienti tutto l’intervento domiciliare di tutela si attua soltanto o se è coperto dal FNA (che è troppo limitato) o se vi sono impieghi di spesa sociale delle singole regioni e/o comuni (col rischio di casualità localistica ed enormi difformità, che pure il Piano evidenzia) o si scarica sulle famiglie. Ma questo scenario è troppo lontano da un sistema di livelli essenziali.

 

Quali discrezionalità regionali?

Il tema si lega al contenuto dei livelli essenziali/diritti da garantire, perché è cruciale individuare quali aspetti non devono essere definiti solo dalla discrezionalità locale, in quanto per i cittadini sono costitutivi dei livelli essenziali cui possono accedere; pena accettare un sistema nel quale i livelli essenziali nazionali sono solo criteri generali, ma poi la sostanza del diritto esigibile e dei servizi fruibili è di fatto definita dalle scelte regionali. Peraltro la discrezionalità regionale (a meno che si voglia per forza arrivare a “livelli essenziali regionali”) dovrebbe riguardare soltanto quegli aspetti e meccanismi che davvero possono dipendere da conformazioni territoriali.

Sul tema la bozza di Piano non pare adeguata, perché (a pagina 9 e 11) constata che molti snodi cruciali sono attualmente definiti dalle Regioni, ma poi nulla prevede per muovere verso maggiori uniformità. Ad esempio: la precisazione della platea dei fruitori, l’uso del Fondo Non Autosufficienze solo per chi non riceve altre prestazioni locali oppure come risorsa per le prestazioni esistenti, il percorso di accesso e i criteri di priorità per ricevere interventi, la considerazione della condizione economica dei fruitori e la loro compartecipazione, la gamma di prestazioni e il loro valore minimo.

Ma concepire questi criteri (davvero determinanti per definire che cosa davvero i cittadini possono ricevere) come componenti dei livelli essenziali da garantire in tutto il Paese, implica farne oggetto di più precisa regolazione nazionale, senza eluderli. Per riprendere uno dei rischi di discrezionalità locale, non ha nessun senso prevedere che interventi che si desidera siano livelli essenziali possano essere offerti solo tramite bandi aperti in finestre temporali limitate1

Si è detto sopra che un riordino del welfare per la non autosufficienza deve anche prevedere contenuti minimi dei passaggi cruciali della filiera che percorre l’utente (ad esempio per i punti di accesso, per i volumi e i tempi delle prestazioni da garantire, per il modo di articolare l’assistenza domiciliare). Merita ricordare che non è vero che non si possono prevedere standard organizzativi in norme nazionali: già lo fanno ad esempio i LEA2; e dare concretezza ai livelli essenziali nazionali anche prevedendone vincoli nel modo di organizzarli non è una lesione dell’autonomia regionale, ma una garanzia per i cittadini.

 

Cosa è l’integrazione sociosanitaria

La bozza di Piano se ne occupa a pagina 17, ma il tema meriterebbe questi approfondimenti:

  • prima di integrare è utile introdurre precisazioni sulle competenze (anche finanziarie) del sistema sanitario e di quello sociale. Ossia, come già evidenziato, rafforzare nei LEA l’uso di risorse del Fondo Sanitario Nazionale (come LEA e non come opzione “extra LEA”) nel concorrere al budget di cura per gli interventi di tutela della vita quotidiana al domicilio (anche se non sono svolti da operatori sanitari), analogamente a quanto già i LEA prevedono per gli interventi residenziali.
  • Se il tema dell’integrazione sociosanitaria non vuole essere trattato solo come esortazione o generico auspicio, occorre un dispositivo normativo che introduca meccanismi ineludibili su almeno due aspetti: la governance locale (ad esempio prevedendo che Aziende Sanitarie ed Enti gestori dei servizi sociali siano vincolate ad assumere accordi di programma che dettaglino i relativi impegni nella messa in opera della rete per la non autosufficienza), gli snodi della rete che devono essere ovunque attivati, assegnando loro natura di livello essenziale.

Una delle criticità dei LEA nel Dpcm n° 15/2017, riguardo alla non autosufficienza, consiste nel fatto che per i diversi interventi normati dal Capo IV (ed in particolare quelli domiciliari) ci si limita a prevedere che quelli sanitari ”…sono integrati da interventi sociali”. Costruire livelli essenziali sulla non autosufficienza, come il Piano si propone, implica dunque anche chiarire con più precisione “quali” interventi sociali vanno integrati con quelli sanitari e sociosanitari, ed in quali contenitori organizzativi.

 

La valutazione della non autosufficienza: per favore non una nuova scala!

In più parti la bozza di Piano evidenzia come obiettivo quello di giungere a strumenti di valutazione della non autosufficienza con due caratteristiche:

  • fondati sulla misura della mancanza di autonomia, e non sulle menomazioni o le patologie. Ma il testo del Piano introduce una nuova scala valutativa, costruita sui carichi di cura del care giver, e la scelta è assai problematica per più motivi: produrrebbe nuovi impegni e percorsi (defatiganti sia per i servizi che per gli utenti), e non aggiungerebbe conoscenze alla valutazione multidimensionale: al di là delle scale in uso questo tipo di valutazione è nata per essere finalizzata a “valutare le riduzioni di autonomia delle funzioni della vita quotidiana”, allo scopo di “individuare i compiti di cura da attivare”. Ma non ha senso introdurre una scala mirata a misurare solo la seconda di queste componenti, troppo generica senza la prima; né ha senso affiancare una nuova scala alle altre, che già si propongono di appunto valutare le limitazioni e non le patologie, perché si produrrebbero evidenti sovrapposizioni di funzioni indagate. Se il problema consiste nel fatto che le scale multidimensionali attuali (ad esempio usate in UVMD o UVG) non colgono abbastanza la seconda componente, ne va ricercata una maggior efficacia, ma evitando l’aggiunta di percorsi e strumenti valutativi paralleli. Il Piano espone (a pag. 16) percorsi di possibili ricomposizione degli strumenti valutativi, ma in modo non adeguato ad evitare il rischio di proliferazione confusiva di strumenti aggiuntivi
  • uniformi sul piano nazionale. L’obiettivo è tanto più importante in quanto si consideri come la modalità della valutazione della non autosufficienza non può che essere una componente dei livelli essenziali da garantire, visto che ne deriva tutto il percorso assistenziale. Ma il testo del Piano, pur dando conto della varietà di scale valutative in uso nelle diverse regioni, nulla dice su come muovere per uniformarle, mentre la diversità degli strumenti in uso è decisamente immotivata da evidenze scientifiche o da differenze reali dei territori, e molto spesso dipende unicamente dalle preferenze dei professionisti che li hanno proposti alle Regioni, o dal desiderio di non cambiare i sistemi informativi delle valutazioni.

 

Nell’incontro dell’11 ottobre scorso con CGIL, CISL e UIL nazionali, il Ministro della Salute Speranza ha annunciato l’obiettivo di una “legge sulla non autosufficienza”. E’ molto importante che il tema entri nell’agenda politica, ma altrettanto che le azioni consistano nel riordino di molti snodi del sistema attuale, anche usando diversi contenitori normativi, dei quali alcuni in costruzione, come il Patto della Salute, la revisione dei LEA, i ddl sui contributi ai care giver.

  1. Mi permetto di rinviare su questo tema all’articolo M. Motta “Governare tramite bandi, o governare?”, pubblicato in questo sito nell’aprile 2018
  2. Il Dpcm n° 15/2017 ad esempio prevede vincoli su prestazioni sanitarie da garantire precisando sia tempi massimi e procedure operative (ad esempio la presa in carico dei nuovi nati entro il primo mese di vita),  sia volumi certi (continuità assistenziale dell’assistenza sanitaria di base per l’intera giornata tutti i giorni della settimana, strutture semiresidenziali per persone con disturbi mentali e con dipendenze patologiche “…attive almeno 6 ore al giorno per almeno 5 giorni la settimana”).