Prove di welfare condizionale nelle misure di sostegno al reddito


Matteo D'Emilione | 28 Agosto 2018

Il tema della condizionalità e delle sanzioni ad essa connesse sono questioni ancora poco dibattute a livello domestico. Eppure, da qualche anno è possibile rintracciare più di un indizio che sembra guidarci verso una prova certa: il nostro sistema di welfare ha deciso di adottare l’approccio condizionale come base, almeno formale, della sua implementazione. Prima di affrontare la questione su un piano etico, di efficacia e di sostenibilità cerchiamo, dunque, di focalizzare sinteticamente l’attenzione su alcuni aspetti connessi all’attuazione delle (nuove) misure di contrasto alla povertà e delle (nuove) misure di sostegno in caso di disoccupazione.

 

Un primo aspetto interessante si ritrova nel passaggio dalla Carta acquisiti sperimentale (CAS) attuata nelle dodici aree metropolitane tra il 2013 e il 2015 e l’attuale configurazione del Reddito di inclusione (REI): da un sintetico articolo dedicato alla condizionalità (art. 7 del Decreto interminsteriale del 10 gennaio 2013) si passa, oggi, ad una complessa articolazione dedicata a procedure sanzionatorie, sospensione della misura e sua decadenza (art.12 del Decreto 147/2017 attuativo della misura). Il peso della condizionalità e delle sanzioni ad essa connesse modifica significativamente l’equilibrio della bilancia. E cosa accade se dalle misure di contrasto alla povertà passiamo alle misure di sostegno al reddito in caso di perdita di lavoro? Come messo in evidenza nell’ultimo rapporto INPS “l’applicazione del principio di condizionalità caratterizza in modo crescente norme e prassi di gestione delle prestazioni di sostegno al reddito in caso di disoccupazione”. Lo stesso articolo 21 del decreto 150/2015 attuativo del Jobs Act fa esplicito riferimento al rafforzamento dei meccanismi di condizionalità per i destinatari di misure di sostegno al reddito1. Il trend, sulla carta, sembra, dunque, essere chiaro.

 

I riferimenti all’introduzione di meccanismi condizionali fin qui sinteticamente descritti indirizzano il ragionamento verso (le) tre questioni menzionate in apertura: la prima questione ha a che fare con aspetti strettamente connessi alla dimensione etica dell’applicazione di sanzioni a individui e/o famiglie in situazioni di fragilità e vulnerabilità (non solo finanziaria); la seconda questione attiene all’effettiva efficacia di condizionalità e sanzioni nella direzione di una (ri)attivazione anche lavorativa delle persone e nella conseguente capacità di far uscire dal sistema di welfare il beneficiario di misure di sostegno; la terza questione riguarda la reale sostenibilità dei sistemi di controllo e verifica del rispetto della condizionalità e del relativo sistema sanzionatorio. Approfondiamo dunque sinteticamente le singole questioni.

 

La dimensione etica nell’applicazione di condizionalità e sanzioni deve confrontarsi con almeno tre aspetti tra loro connessi: corretta valutazione del bisogno, intensità delle sanzioni e corresponsabilità. Partendo dalla considerazione generale che l’utilizzo della condizionalità non è sbagliato a priori, è importante sottolineare come gli impegni e i vincoli previsti all’interno di un patto tra utente e sistema dei servizi debbano essere elaborati con attenzione, tenendo in considerazione i reali bisogni dell’individuo (o della famiglia) e la sua reale capacità di riuscire a rispettare tali impegni (criterio della proporzionalità). E’ interessante in questo senso riprendere le interessanti riflessioni proposte nell’ambito della c.d. ‘psicologia della scarsità’ da Mullainathan e Sharif nel loro “Scarcity: Why having too little means so much”: la ‘capacità di banda mentale’ per le persone che vivono in situazioni di difficoltà è spesso satura non per limiti cognitivi congeniti all’essere poveri (o disoccupati) ma per la quantità di preoccupazioni (worries) che la situazione in sé genera. Si tratta, infatti, in molti casi di situazioni multi-problematiche che incidono negativamente su più dimensioni di vita della persona e/o della famiglia. In tale prospettiva, potremmo affermare che imporre impegni e vincoli (ulteriori) alla vita di famiglie in situazioni di svantaggio è controintuitivo, nonché incoerente. Lo stesso paradigma dell’attivazione lavorativa viene in alcuni casi interpretato come ‘lavoro purché sia’ senza considerare le implicazioni che un lavoro può avere negli equilibri familiari se si tratta di lavoro di cattiva qualità (ad esempio, in termini di orari).

Ma la condizionalità può essere applicata in maniera differente a seconda delle situazioni, utilizzando un approccio morbido e non necessariamente punitivo e applicando le sanzioni solo quando effettivamente necessario: come vedremo meglio in seguito, è ormai provato come l’utilizzo di sanzioni nei confronti dell’utenza più vulnerabile produca effetti controproducenti. Infine, venendo al concetto di corresponsabilità, questo implica che nella costruzione di un patto ci si vincoli in due. Lo squilibrio di forze evidente già in partenza tra un beneficiario di una misura di sostegno e il sistema dei servizi dovrebbe essere compensato dalla garanzia di un’offerta di servizi di qualità: come potrebbe nascere altrimenti un patto nel quale la parte più forte chiede alla parte più debole di impegnarsi in determinate attività, sapendo di non poter offrire altrettanto?

Tale ultimo aspetto rappresenta uno dei talloni di Achille dell’intero ragionamento se applicato al nostro paese: pur con le dovute eccezioni, a livello generale, sia i servizi sociali sia i servizi pubblici per l’impiego2 scontano, ancora, significative mancanze in termini di risorse umane, risorse economiche ma anche di competenze per poter far fronte alle istanze (spesso complesse) di un volume di utenza sempre più vasto come testimoniano i numeri di REI e Naspi (vedere Rapporto INPS 2018). Il recente Piano nazionale di contrasto alla povertà rappresenta, come sottolineato da Daniela Mesini su questo sito, un significativo punto di partenza per rafforzare il sistema dei servizi territoriali e per colmare divari territoriali inaccettabili, se interpretati in termini di equità, ma avrà bisogno di tempo per produrre effetti tangibili sul sistema dei servizi sociali. Discorso analogo, vale per il rafforzamento dei servizi per l’impiego, anche nell’ottica del futuro reddito di cittadinanza: in termini di ciclo di una politica pubblica, tra stanziamento di risorse, spesa e messa a regime (fase produttiva di effetti potenzialmente positivi) possono passare anni.

 

E nel frattempo? In termini generali, la qualità dei servizi incide inevitabilmente sull’efficacia di qualsiasi misura di welfare e ciò sembra essere tanto più vero nel caso in cui si affronta il tema della condizionalità. Come autorevolmente sostenuto da una ricerca inglese sugli effetti della condizionalità e delle sanzioni sui beneficiari del sistema di welfare in Gran Bretagna3, ciò che fa davvero la differenza nel migliorare la situazione di persone in situazioni di difficoltà non è l’utilizzo della condizionalità né tantomeno l’utilizzo di sanzioni, quanto il tipo di supporto offerto e, dunque, la sua qualità. E’ la capacità di offrire un servizio e di costruire una relazione con l’utenza che permette efficaci percorsi di riattivazione. L’esperienza inglese, a differenza di altri sistemi di welfare europei già descritti in questo senso su questo sito da Chiara Crepaldi, si caratterizza per un sistema sanzionatorio particolarmente punitivo e invasivo come testimoniato dalle stesse statistiche prodotte dal governo inglese ma anche dall’ultimo film di Ken Loach (Io, Daniel Blake). Tale approccio, tuttavia, non produce gli effetti sperati, soprattutto in termini di cambiamento (in meglio) del comportamento delle persone, dimostrandosi, dunque, scarsamente efficace.

Ed è proprio nei confronti dell’utenza destinataria di misure di welfare condizionale che anche nel nostro paese dovrebbe svilupparsi un’attività di ricerca  ad hoc, per aprire un ragionamento in termini valutativi dei possibili effetti su diverse tipologie di beneficiari colpiti da sanzioni, quando il sistema sarà a regime. Nel contesto italiano, un affondo sul tema della condizionalità in termini empirici è quello realizzato nell’ambito della Carta acquisti sperimentale dall’ISFOL nel 2015. Dal confronto con i numerosi operatori sociali coinvolti nell’implementazione della misura, in alcuni casi la condizionalità ( e le possibili sanzioni ad essa connessa) ha influito in maniera negativa nella costruzione del rapporto fiduciario  tra servizi e utenza, facendo propendere per un applicazione più flessibile che tenesse in considerazione le diverse esigenze dell’utenza. Inoltre, lo stesso sistema di monitoraggio dei progetti di presa in carico della misura sperimentale ha messo in evidenza quanto il rispetto o meno di ciò che era previsto nei patti sottoscritti variasse sensibilmente tra citta e città, a dimostrazione di quanto il contesto territoriale abbia un peso determinante anche quando si parla di condizionalità.

 

Venendo infine al tema della sostenibilità di un sistema di welfare basato sulla condizionalità, può essere utile riportare quanto affermato dal Presidente dell’INPS l’estate scorsa4: “Il sistema sanzionatorio collegato al mancato rispetto del progetto personalizzato o del patto di servizio appare di complessa realizzazione. Si evidenzia, ancora una volta che la pluralità dei soggetti coinvolti inciderà pesantemente sul processo di gestione delle sanzioni…Le sanzioni funzionano come deterrente di comportamenti opportunistici solo se chi le irroga è credibile come soggetto in grado di intervenire prontamente per penalizzare abusi.” Il ragionamento proposto da Boeri individua in maniera efficace alcuni aspetti che è utile sottolineare e che rappresentano dei vincoli oggettivi all’implementazione di meccanismi condizionali: la complessità delle procedure, cosi come quella della governance stessa di una misura possono produrre distorsioni che incidono sull’efficacia generale della politica.

In questo senso, l’esperienza inglese torna nuovamente utile per individuare dinamiche potenzialmente dannose che si potrebbero innescare, anche dal solo punto di vista gestionale, adottando un approccio sanzionatorio: verrebbe da chiedersi quale sforzo debba produrre un’amministrazione pubblica per avviare oltre 400 mila procedure sanzionatorie in un anno! Partendo dalla considerazione che il sistema inglese rappresenta un caso che per certi versi estremizza l’approccio condizionale, esso apre tuttavia una serie di riflessioni interessanti nel momento in cui si guarda in casa nostra e, come affermato inizialmente, si notano alcune tendenze in atto. Per motivi di spazio focalizziamo l’attenzione su una riflessione in particolare che, in forma di domanda, potrebbe porsi nella seguente maniera: perché a fronte dei limiti oggettivi qui sinteticamente ripresi connessi all’adozione di meccanismi condizionali il policy maker ne è, comunque, irrimediabilmente attratto?

 

Alcune possibili spiegazioni e qualche ulteriore domanda. Per la diffusa ma poco dimostrata5 paura della c.d. ‘welfare dependency’ il welfare condizionale rappresenta forse un sistema particolarmente adatto da applicare proprio per l’obiettivo stesso che lo caratterizza: responsabilizzare il beneficiario, modificandone (anche) tramite sanzioni, comportamenti potenzialmente dannosi, soprattutto per le casse dello Stato. Ancora, prendendo spunto da ciò che da tempo sostiene  Wim van Oorshot,  il tema della legittimità sociale del ‘targeted welfare’6 è forse presente anche per la condizionalità: come spiegare altrimenti la quota significativa di cittadini italiani (circa il 28%) che nell’ultima edizione della European Social Survey (2016)7 dichiarano di essere d’accordo/molto d’accordo con l’affermazione secondo cui i servizi sociali e le forme di social benefit rendono le persone pigre? Infine, complessi sistemi di controllo (almeno sulla carta) e relativi sistemi sanzionatori vengono auspicati nel timore istituzionale di essere frodati dalle persone in difficoltà, forse proprio perché poveri?8. Il dibattito rimane aperto.

 

Le posizioni espresse dall’autore sono personali e non rappresentano in alcun modo la posizione dell’istituto di appartenenza.

  1. E’ interessante notare come nel medesimo articolo sia prevista la creazione di un comitato specifico, recentemente insediato, che prende il nome di Comitato per i ricorsi di condizionalità e che ha come obiettivo principale quello di gestire le possibili controversie tra servizi per l’impiego e destinatari di misure di sostegno al reddito nell’applicazione dei meccanismi condizionali e delle relative sanzioni. Vedi qui per informazioni sul Comitato e sulla sua attività
  2. Si veda in proposito l’ultimo rapporto sui Servizi per l’impiego a cura di ANPAL
  3. Cuore del progetto di ricerca: uno studio qualitativo basato su un panel longitudinale di oltre mille beneficiari di misure di welfare, seguiti per due anni;  la realizzazione in un arco temporale di circa cinque anni di 27 focus groups con 156 ‘frontline welfare practitioners’; 52 interviste semistrutturate a testimoni privilegiati; sei atenei inglesi coinvolti. Report finale disponibile qui.
  4. Audizione presso le Commissioni riunite XI (Lavoro pubblico e privato) e XII (Affari sociali) della Camera dei deputati – Esame dello schema di decreto legislativo recante disposizioni per l’introduzione di una misura nazionale di contrasto della povertà (Atto n. 430). Relazione del presidente dell’Inps, Tito Boeri, luglio 2017
  5. Debunking the Stereotype of the Lazy Welfare Recipient: Evidence from Cash Transfer Programs Worldwide1. Abhijit Banerjee, MIT. Rema Hanna, Harvard, 2014.
  6. The social legitimacy of differently targeted benefits Wim van Oorschot & Femke Roosma Discussion Paper No. 15/11 April 2015, improve-research.eu
  7. Elaborazioni nostre su data set disponibile qui.
  8. A review of benefit sanctions. The impact of sanctions in benefit systems, how they have been used and the experiences of claimants, Julia Griggs and Martin Evans, 2010.