Radicamento territoriale e accesso all’abitazione

Dalla Corte costituzionale alcune significative indicazioni in tema di ragionevolezza dei criteri di accesso e funzione sociale dell’edilizia residenziale pubblica


Francesca Biondi Dal Monte | 6 Agosto 2020

In presenza di risorse limitate, numerosi sono gli interventi che Stato, Regioni ed enti locali hanno adottato nel corso degli ultimi anni per selezionare la platea dei possibili beneficiari di certi servizi e prestazioni di natura sociale. A tal fine è stata spesso richiesta come condizione di accesso al sistema welfare la residenza protratta sul territorio – statale, regionale o locale – sperimentando, con sempre maggiore frequenza, politiche che potremmo definire di appartenenza, finalizzate a favorire coloro che hanno un legame più intenso ovvero duraturo con il territorio di riferimento. Talvolta tali requisiti sono stati previsti per i soli stranieri, in altri casi indifferentemente per cittadini e stranieri.

 

Numerose sono anche le pronunce della Corte costituzionale intervenute a precisare i limiti – a dire il vero assai ristretti – entro i quali il legislatore, statale o regionale, può richiedere un certo radicamento sul territorio per l’accesso a servizi e prestazioni, individuando anche gli ambiti nei quali – in considerazione della funzione di certi servizi sociali – non può ritenersi costituzionalmente legittima alcuna limitazione nell’accesso. La sentenza n. 44 del 2020 della Corte costituzionale si inserisce in questo quadro, fornendo alcune significative indicazioni in tema di accesso all’edilizia residenziale pubblica (in seguito ERP)1. In particolare, la decisione ha ad oggetto la legittimità costituzionale della legge della Regione Lombardia 8 luglio 2016, n. 16 (Disciplina regionale dei servizi abitativi), la quale richiedeva per i beneficiari dei servizi abitativi la residenza anagrafica o lo svolgimento di attività lavorativa in Regione Lombardia per almeno cinque anni nel periodo immediatamente precedente la data di presentazione della domanda2. Tale previsione è stata ritenuta non conforme all’art. 3 Cost., sia sotto il profilo dell’irragionevolezza del requisito della residenza ultraquinquennale (o dello svolgimento di attività lavorativo per pari periodo) che in riferimento al principio di eguaglianza sostanziale, perché tale requisito contraddice la funzione sociale dell’edilizia residenziale pubblica.

A tal proposito, e in via preliminare, la Corte chiarisce l’inviolabilità del diritto all’abitazione, che «rientra fra i requisiti essenziali caratterizzanti la socialità cui si conforma lo Stato democratico voluto dalla Costituzione» ed è compito dello Stato garantirlo, contribuendo così «a che la vita di ogni persona rifletta ogni giorno e sotto ogni aspetto l’immagine universale della dignità umana»3. In questo contesto viene chiarita la finalità dell’edilizia residenziale pubblica, volta a «“garantire un’abitazione a soggetti economicamente deboli nel luogo ove è la sede dei loro interessi” (sentenza n. 176 del 2000), al fine di assicurare un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongono di risorse sufficienti (art. 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea), mediante un servizio pubblico deputato alla “provvista di alloggi per i lavoratori e le famiglie meno abbienti”».

In considerazione di tale finalità, l’edilizia residenziale pubblica viene ricondotta all’ambito dei «servizi sociali» e i relativi criteri di accesso devono presentare – a parere della Corte – un collegamento fra finalità del servizio da erogare e caratteristiche soggettive richieste ai suoi potenziali beneficiari4. Tale collegamento non è però rinvenibile nella condizione di pregressa residenza sul territorio regionale. Se infatti la ratio del servizio in questione è il soddisfacimento del bisogno abitativo, non si può ritenere che la condizione di previa residenza protratta dei suoi destinatari possa essere ragionevolmente connessa con tale ratio, «non essendo tale requisito rivelatore di alcuna condizione rilevante in funzione del bisogno che il servizio tende a soddisfare». In tale caso, infatti, la condizione di accesso si risolve in una soglia rigida che porta a negare l’accesso all’ERP a prescindere da qualsiasi valutazione attinente alla situazione di bisogno o di disagio del richiedente (quali ad esempio condizioni economiche, presenza di disabili o di anziani nel nucleo familiare, numero dei figli). Analoghe considerazioni possono estendersi all’altro requisito previsto dalla norma censurata (svolgimento di attività lavorativa in Regione Lombardia per almeno cinque anni nel periodo immediatamente precedente la data di presentazione della domanda) in alternativa a quello della residenza ultraquinquennale. Se lo svolgimento di attività lavorativa nella Regione può essere considerato un ragionevole indice di collegamento con il territorio, anch’esso si risolve in una soglia rigida di accesso che porta a negare qualsiasi rilievo al bisogno nella concessione del beneficio, e anzi comporta la sua negazione proprio ai soggetti economicamente più deboli, in contraddizione con la funzione sociale del servizio.

La Corte costituzionale chiarisce, dunque, in modo assai netto l’illegittimità della residenza protratta sul territorio (e dell’esercizio di attività lavorativa per un certo periodo di tempo) ai fini dell’accesso all’ERP, valorizzandone la funzione sociale e superando alcune aperture inizialmente delineate nella sua pregressa giurisprudenza. Si fa in particolare riferimento all’ordinanza n. 32 del 2008, nella quale – in relazione ad analoga disciplina della Regione Lombardia – la Corte aveva avuto modo di affermare che il requisito della residenza continuativa, ai fini dell’assegnazione di un alloggio, «risulta non irragionevole quando si pone in coerenza con le finalità che il legislatore intende perseguire […], specie là dove le stesse realizzino un equilibrato bilanciamento tra i valori costituzionali in gioco». Tale precedente era stato richiamato anche nella sentenza n. 222 del 2013, laddove la Corte aveva chiarito che «le politiche sociali delle Regioni legate al soddisfacimento dei bisogni abitativi ben possono prendere in considerazione un radicamento territoriale ulteriore rispetto alla sola residenza, purché contenuto entro limiti non palesemente arbitrari ed irragionevoli», ritenendo costituzionalmente legittima la disciplina della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia che richiedeva a tal fine 2 anni di pregressa residenza sul territorio regionale. Discutibilmente la Corte affermava inoltre che l’accesso a un bene di primaria importanza e a godimento tendenzialmente duraturo, come l’abitazione, «per un verso si colloca a conclusione del percorso di integrazione della persona presso la comunità locale e, per altro verso, può richiedere garanzie di stabilità, che, nell’ambito dell’assegnazione di alloggi pubblici in locazione, scongiurino avvicendamenti troppo ravvicinati tra conduttori, aggravando l’azione amministrativa e riducendone l’efficacia».

Si precisa comunque che, pur richiamando tale argomentazione, la Corte non ha ritenuto conformi a Costituzione la disciplina della Regione Valle d’Aosta che richiedeva otto anni di residenza pregressa sul territorio regionale ai fini dell’accesso all’ERP (sent. n. 168 del 2014) e la disciplina della Regione Liguria che ne richiedeva addirittura dieci (sent. n. 106 del 2018)5. In tali casi ciò che sembra assumere valore dirimente è l’eccessiva durata della residenza richiesta6, non tanto il requisito della residenza protratta in sé: condizione che invece è chiaramente definita incostituzionale nella più recente sent. n. 44 del 2020. Infatti, nel rigettare le difese della Regione Lombardia, la Corte sembra superare – pur senza espressamente affermarlo – i propri precedenti in materia, chiarendo che «la previa residenza ultraquinquennale non è di per sé indice di un’elevata probabilità di permanenza in un determinato ambito territoriale, mentre a tali fini risulterebbero ben più significativi altri elementi sui quali si può ragionevolmente fondare una prognosi di stanzialità». In altri termini, la rilevanza conferita a una condizione del passato, quale è la residenza nei cinque anni precedenti, «non sarebbe comunque oggettivamente idonea a evitare il “rischio di instabilità” del beneficiario dell’alloggio di edilizia residenziale pubblica, obiettivo che dovrebbe invece essere perseguito avendo riguardo agli indici di probabilità di permanenza per il futuro».

 

La prospettiva della stabilità potrebbe comunque rientrare – a parere della Corte – tra gli elementi da valutare in sede di formazione della graduatoria7, ma non può costituire una condizione di generalizzata esclusione dall’accesso al servizio, giacché ne risulterebbe negata in radice la funzione sociale dell’edilizia residenziale pubblica. Ed in ogni caso il “radicamento” territoriale, quand’anche fosse adeguatamente valutato – e non con riferimento alla previa residenza protratta, secondo quanto ci dice la Corte – «non potrebbe comunque assumere importanza tale da escludere qualsiasi rilievo del bisogno». Infatti, a differenza del requisito della residenza tout court (che serve a identificare l’ente pubblico competente a erogare una certa prestazione ed è un requisito che ciascun soggetto può soddisfare in ogni momento), quello della residenza protratta integra una condizione che può determinare l’esclusione di un soggetto da prestazioni sociali fondamentali, con la conseguenza che le norme che introducono tale requisito vanno vagliate con particolare attenzione, «in quanto implicano il rischio di privare certi soggetti dell’accesso alle prestazioni pubbliche solo per il fatto di aver esercitato il proprio diritto di circolazione o di aver dovuto mutare regione di residenza»8. Si tratta infatti di previsioni che possono pregiudicare non solo la condizione degli stranieri (soprattutto neoarrivati), ma anche quella dei cittadini italiani che si spostano da una Regione all’altra.

 

In conclusione, la sentenza n. 44 del 2020 fornisce rilevanti indicazioni non solo in merito alla incostituzionalità della disciplina lombarda in tema di ERP, ma anche ai fini della necessaria modifica di quelle altre discipline, tuttora in vigore, che richiedono la residenza protratta sul territorio ai fini dell’accesso all’ERP e a prestazioni/servizi connotati da analoga funzione sociale. I criteri di accesso al sistema di welfare devono dunque essere definiti considerando la ratio e la funzione che le prestazioni di volta in volta considerate svolgono nel sistema, coerentemente alla necessità di fronteggiare quelle situazioni di bisogno che costituiscono il presupposto principale di fruibilità delle stesse.

  1. Per un commento alla sentenza si vedano C. Corsi, Illegittimità costituzionale del requisito della residenza protratta per i servizi abitativi, in www.questionegiustizia.it, 5.5.2020, Rubrica “Diritti senza confini”; M. Gorlani, Le politiche abitative regionali e il requisito della residenza qualificata: un monito della Corte convincente e, in un certo senso, conclusivo, in Forum di Quaderni Costituzionali, 2, 2020, disponibile in: www.forumcostituzionale.it; C. Padula, Uno sviluppo nella saga della “doppia pregiudiziale”? Requisiti di residenza prolungata, edilizia residenziale pubblica e possibilità di disapplicazione della legge”, in Forum di Quaderni costituzionali, 2, 2020, disponibile in: www.forumcostituzionale.it. Per un approfondimento sull’accesso all’abitazione degli stranieri, cfr. E. Vivaldi, L’accesso all’abitazione per i migranti. Quadro normativo e prassi, in F. Biondi Dal Monte, E. Rossi (a cura di), Diritti oltre frontiera. Migrazioni, politiche di accoglienza e integrazione, Pisa University Press, Pisa, 2020, 61 ss.
  2. Tali requisiti erano richiesti in aggiunta alla cittadinanza italiana o, in caso di straniero, al possesso del permesso UE per soggiornanti di lungo periodo o al permesso biennale, così come previsto dall’art. 40, comma 6, del d.lgs. n. 286/1998 (T.U. Immigrazione).
  3. Cfr. Corte cost. sent. n. 44 del 2020, § 3 Cons. in dir. Tra i precedenti della Corte costituzionale, cfr. sent. n. 217 del 1988; n. 106 del 2018, n. 168 del 2014, n. 209 del 2009 e n. 404 del 1988.
  4. Su tale collegamento si vedano, ex plurimis, Corte cost. sentenze n. 166 e n. 107 del 2018, n. 168 del 2014, n. 172 e n. 133 del 2013 e n. 40 del 2011. Come chiarito dalla Corte costituzionale, il giudizio sulla sussistenza e sull’adeguatezza di tale collegamento – fra finalità del servizio da erogare e caratteristiche soggettive richieste ai suoi potenziali beneficiari – è operato secondo «la struttura tipica del sindacato svolto ai sensi dell’art. 3, primo comma, Cost., che muove dall’identificazione della ratio della norma di riferimento e passa poi alla verifica della coerenza con tale ratio del filtro selettivo introdotto» (Corte cost. sent. n. 44 del 2020, § 3.1 Cons. in dir.).
  5. Sull’illegittimità della residenza decennale per l’accesso accesso al fondo di sostegno ai canoni di locazione si veda Corte cost. sent. n. 166 del 2018.
  6. L’eccessiva durata della residenza pregiudica, infatti, la condizione di determinate categorie di cittadini di Paesi terzi ai quali il diritto dell’Unione europea riconosce parità di trattamento, tra cui, nei casi richiamati, lo status dei titolari del permesso UE per soggiornanti di lungo periodo.
  7. Si nota che la stessa legge regionale censurata dà rilievo, ai fini della graduatoria, al «periodo di residenza nel comune dove è localizzata l’unità abitativa da assegnare» e alla «durata del periodo di residenza in Regione».
  8. A tale ultimo proposito risulta significativo quanto già chiarito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 107 del 2018, in relazione alla legge della Regione Veneto che aveva introdotto un titolo di precedenza per l’ammissione dei bambini all’asilo nido basato sulla condizione dei genitori residenti in Veneto anche in modo non continuativo da almeno quindici anni (o che svolgessero attività lavorativa per pari periodo).