Reddito di Cittadinanza: contrasto alla povertà o sussidio di disoccupazione?
Daniela MesiniIsabella Medicina | 16 Novembre 2018
Questo articolo è stato ripreso per la pubblicazione su Redattore Sociale.
Per quanto non sia ancora chiara la configurazione definitiva del nuovo Reddito di Cittadinanza1, è abbastanza chiaro che non si rivolgerà a tutti i poveri, ma ai disoccupati poveri. Questioni di residenza e cittadinanza a parte, la nuova misura avrà come obiettivo prioritario il superamento della condizione di povertà attraverso l’inserimento o il reinserimento nel mercato del lavoro.
Al di là di un eccessivo ottimismo nel considerare realizzabile in tempi brevi una significativa riforma dei centri per l’impiego chiamati a gestire la nuova misura, su cui non ci soffermeremo in questa sede, quello che ci interessa qui sottolineare sono almeno tre buone ragioni che porterebbero alla necessità di smorzare l’eccessiva enfasi lavoristica. Questo, se la finalizzazione ultima del Reddito di Cittadinanza vuole effettivamente essere combattere la povertà e non esclusivamente contrastare la disoccupazione.
Innanzitutto, come noto, la povertà non dipende solo dalla perdita del lavoro, ma da un mix di problematiche e bisogni tra i quali, spesso, la dimensione lavorativa non è né la prioritaria, né la più urgente. Non solo la letteratura insiste da decenni sul concetto di multidimensionalità della povertà, ma anche l’evidenza empirica ci dimostra che le famiglie povere sono spesso caratterizzate da fragilità complesse e multiproblematicità. Multiproblematica è una persona che, oltre a non essere in grado di produrre e gestire reddito, somma una o più di queste situazioni: gravi difficoltà sociali, come l’incapacità di prendersi cura della propria persona e dei propri cari; problemi di salute o disabilità, spesso non riconosciuta formalmente; difficoltà nel preservare il proprio alloggio per l’aggravarsi di situazioni debitorie relative all’affitto o alle utenze; disoccupazione di lungo periodo, che si lega spesso ad una insufficiente qualificazione professionale ed all’incapacità di attivarsi per migliorare le proprie competenze (è il caso di chi ha svolto per lungo tempo mansioni a basso know-how, diventate poi obsolete). La compresenza di questi fattori innesca dinamiche complesse, da tenere ben presenti nel momento in cui si definisce l’architettura di uno schema di supporto. Non si può assumere come riferimento una platea indistinta di “poveri senza lavoro”, ma occorre segmentare tale platea ed individuare modalità di intervento adeguate alle caratteristiche dei diversi target; fermo restando che c’è un perimetro entro cui è opportuno attivare percorsi di inclusione lavorativa, al di fuori del quale occorre invece far ricorso a strumenti differenti.
Interventi di sostegno abitativo, di supporto alla genitorialità, di tutela dei minori, di cura e accadimento di anziani e disabili, di (re)integrazione nella società sono solo alcune delle necessità di cui occorre tenere conto se si vuole considerare la fuoriuscita dalla povertà secondo un approccio olistico e non parziale.
Seconda considerazione: purtroppo avere un lavoro non tutela dalla caduta in povertà2. Lo dimostrano le statistiche che evidenziano una crescita del fenomeno dei working poor. Secondo i dati Eurostat, circa 12 lavoratori italiani su 100 nel 2016 erano a rischio di povertà nonostante fossero percettori di uno stipendio, contro il 9,6% della media UE3. Come noto, il rischio è anche più accentuato nel caso di lavoro temporaneo o part time e per bassi profili professionali. Gli ultimi dati ISTAT ci mostrano che in Italia nel 2017 l’incidenza della povertà relativa si mantiene elevata per le famiglie di operai e assimilati (19,5%) e per quelle con persona di riferimento in cerca di occupazione (37,0%), in peggioramento rispetto al 31% del 20164.
Terza considerazione, forse la meno scontata: una persona povera caduta in stato di povertà per problemi lavorativi, non è detto che possa rientrare facilmente nel mercato del lavoro, perché intervengono molti altri fattori sia personali che relativi alle condizioni del mercato del lavoro stesso.
Alcune indicazioni in questo senso ci vengono dall’esperienza ormai consolidata delle politiche attive del lavoro rivolte al sotto-insieme di disoccupati con caratteristiche socio-occupazionali analoghe a quelle dei beneficiari delle misure di reddito minimo. Frequentemente, si tratta di persone le cui competenze professionali devono essere aggiornate, integrate o, in una certa misura, costruite ex novo, e i cui atteggiamenti devono essere ri-orientati perché disfunzionali rispetto alla ricerca di lavoro5. Accade spesso ad esempio che le persone in difficoltà presentino anche problemi di tipo comportamentale che possono spaziare dall’aggressività alla totale passività e rassegnazione. In questi casi, il rientro nel mercato del lavoro passa necessariamente attraverso un percorso, anche piuttosto lungo, di sostegno all’occupabilità, articolato sui due fronti: formazione diretta a rafforzare le competenze professionali e di base; sostegno comportamentale e (ri)motivazionale per la gestione del cambiamento6.
Occorre poi tenere ben presenti le effettive condizioni del mercato del lavoro. Che non ci sia abbastanza lavoro per tutti In Italia è un dato di fatto, comprovato anche dagli ultimi dati Eurostat del luglio 20187. Il nostro paese è tristemente terzo in Europa, dietro solo a Grecia e Spagna, e si caratterizza per un tasso di disoccupazione pari al 10,4% contro il 3,4% della Germania e il 4% della Gran Bretagna. Se guardiamo poi al solo tasso di disoccupazione giovanile l’Italia si attesta al 30,8%, pari al doppio della media EU28 corrispondente al 14,8%. Altra questione è che le condizioni del mercato del lavoro in Italia variano molto a seconda della ripartizione geografica. Sempre l’Eurostat rilevava per il 20178 tassi di disoccupazione superiori al 21% in Sicilia e Calabria, del 6,6% per l’Emilia Romagna e di solo il 3,1% per la Provincia Autonoma di Bolzano. Questo significa dover fare i conti non solo con opportunità di attivazione disomogenee sul territorio, ma anche con un mercato del lavoro inevitabilmente selettivo, che certo non facilita l’inserimento di chi è più debole. E questo non è un problema che si possa risolvere con piattaforme tecnologiche che favoriscano il labour exchange. Se il lavoro non c’è, per lo meno non per tutti e non è omogeneamente distribuito sul territorio, c’è poco da incrociare.
Con questo non si vuole sostenere che il lavoro non serva o che i poveri non debbano avere chance di reinserimento nel mercato del lavoro, ma che la questione dell’attivazione è più complessa e decisamente meno lineare di quanto di recente si legge sui giornali.
Bisogna quindi considerare il paradigma dell’attivazione con sano realismo, tenendo presenti due questioni fondamentali. Da un lato, che c’è una platea di persone che verosimilmente non sono “riattivabili” dal punto di vista lavorativo: tra le famiglie a basso reddito, al netto di chi non cerca lavoro perché sta studiando o per motivazioni transitorie (perché scoraggiati, o in attesa di conoscere l’esito di passate azioni di ricerca), c’è una quota significativa di persone che non cerca lavoro per motivi famigliari, per mancanza di interesse anche legata all’età o per ragioni di salute e personali9.
Dall’altro lato, anche nei paesi europei più avanzati, con esperienza pluridecennale di applicazione di schemi di reddito minimo le percentuali di reinserimento lavorativo non superano il 25-30%10.
In certi casi obiettivi di sola riduzione del rischio di marginalità e di progressivo reinserimento nella società potranno già considerarsi un successo per una misura di contrasto alla povertà il cui obiettivo prioritario dovrebbe essere il miglioramento delle situazioni di deprivazione delle famiglie11.
Ma forse il Reddito di Cittadinanza si vuole rivolgere solo a quell’auspicabile 30% di adulti abili e reinseribili? Quindi si pone come schema di contrasto alla povertà o come sussidio di disoccupazione? E soprattutto, degli altri poveri chi se ne dovrebbe occupare?
- Si veda Ranci Ortigosa E. (2018), “Movimenti intorno al Reddito di Cittadinanza“, Welforum.it; Ranci Ortigosa E. (2018) “Legge di Bilancio 2019: il delicato passaggio dal REI al Reddito di Cittadinanza”, Welforum.it; Saraceno C. (2018), “Metamorfosi del Reddito di Cittadinanza”, Eticaeconomia, Menabò n. 91
- Per approfondimenti si veda Saraceno C. (2017), “Un reddito… troppo minimo”, Welforum.it; Saraceno C. (2018), “Il lavoro non basta a proteggere dalla povertà”, Neodemos.info; Saraceno C. (2015), Il lavoro non basta, Feltrinelli, Milano
- Eurostat (2018), In-work poverty in the EU
- ISTAT (2018), La povertà in Italia. Anno 2017
- Medicina I. (2018), “L’inclusione lavorativa dei beneficiari: strumenti e attenzioni”, in Mesini D. (a cura di), Lotta alla povertà: i servizi al centro, Maggioli editore, Santarcangelo di Romagna (RN)
- Isfol (2012), Gli utenti dei servizi sociali nello spazio delle capabilities: una applicazione del Modello MACaD
- Eurostat (2018), Newsrelease Eurindicators.
- Eurostat (2018), Statistiche sulla disoccupazione a livello regionale. Anno 2017
- Istat (2017), Rapporto annuale 2017. La situazione del Paese
- Sacchi S. (2016), “Imparare dall’esperienza: l’Europa”, in Gori C., Baldini M., Martini A., Pellegrino S., Pesaresi F., Pezzana P., Sacchi S., Spano P., Trivellato U., Zanin N., Il reddito di inclusione sociale (Reis). La proposta dell’Alleanza contro la povertà in Italia, Il Mulino, Bologna
- Mesini D. Gnan E. (2018), “Percorsi di inclusione e condizionalità, tra doveri e capacitazioni”, in Mesini D. (a cura di), “Lotta alla povertà: i servizi al centro”, Maggioli editore, Santarcangelo di Romagna (RN)
concordo appieno con quanto sostenuto nell’articolo. Oltre alla riforma, i centri per l’impiego avrebbero bisogno di occasioni lavorative concrete da proporre e, soprattutto, di un lavoro di rete stretto con i servizi sociali e con le realtà del terzo settore al fine di individuare percorsi personalizzati che tengano conto di tutto il complesso delle fragilità della persona. per alcune famiglie sarebbe sufficiente una adeguata politica per la casa, i prezzi degli affitti di mercato spesso assorbono il 50% del reddito familiare. Una proposta: perché non finanziare corposamente un’adeguata ripulitura di boschi, strade, greti, spiagge…. da affidare, con la dovuta formazione, ai fruitori del reddito di cittadinanza?