Reddito di Cittadinanza: il monitoraggio plurale della Caritas


A cura di La Redazione di Welforum.it | 6 Settembre 2021

Il Rapporto Caritas sulle politiche contro la povertà, inserito nella tradizione dei rapporti sulle politiche di contrasto al fenomeno, giunge quest’anno alla sesta edizione ed è dedicato al Reddito di Cittadinanza, la misura di contrasto alla povertà in vigore nel nostro Paese da marzo 2019. Del RdC si è molto parlato sin dalla sua gestazione e proprio per questo che richiede un’osservazione ancora più minuziosa di come stiano andando le cose, sgombrando il campo da aneddotica e luoghi comuni e guardando alla realtà a partire dalle testimonianze dei diretti interessati e dai dati raccolti sul campo. Caritas ItalianaIl Rapporto è proprio l’esito di un percorso di studio, ricerca e riflessione partecipata sulla misura, finalizzato a comprenderne a fondo le dinamiche di attuazione e a proporre delle direzioni per un suo sviluppo e miglioramento. Riprendiamo di seguito un corposo estratto dell’Executive summary, scaricabile per esteso insieme al Rapporto completo.

 

 

Poveri e RdC: che cosa ci dicono i dati

Lo stanziamento dedicato – nel 2020 oltre 8 miliardi di euro – alla misura del RdC è notevole sia se paragonato a quello degli altri Stati europei sia rispetto alla precedente prestazione, il Reddito d’Inclusione (REI, intorno ai 2 miliardi). Il tasso di take-up, ossia la percentuale di utenti effettivi rispetto alla popolazione che ne avrebbe diritto, si colloca intorno al 80%. Questo valore è elevato anche a livello internazionale. Dunque, si tratta di un intervento ben finanziato ed erogato ad un’alta quota degli aventi diritto. Una misura che ha protetto una rilevante fascia della popolazione dalle conseguenze economiche della pandemia (nel corso del 2020 l’aumento di nuclei percettori della misura è stato pari al 43%) e che permette al 57% dei nuclei che lo ricevono, soprattutto famiglie composte da una o due persone, di superare la soglia di povertà.

Ma la percentuale di take-up della misura non è necessariamente uguale alla quota dei poveri che ricevono il RdC, dal momento che i requisiti per ottenerlo possono essere diversi da quelli che determinano la condizione di povertà. Se questa differenza è grande, molti poveri potrebbero non ricevere il RdC anche in presenza di un take-up alto e, allo stesso tempo, il RdC potrebbe andare anche a famiglie che non sono povere ma che rispettano i requisiti per richiederlo.

Per capire se e come è possibile migliorare la misura bisogna partire, quindi, dai poveri. I dati indicano che il 44% dei nuclei poveri fruisce della misura e il 56% no. In altre parole, poco più della metà dei poveri non ha il RdC. Inoltre, i dati disponibili ci dicono che oltre un terzo dei beneficiari del RdC non è povero (i cosiddetti falsi positivi), quota che per la Banca d’Italia è stimabile nel 51% delle famiglie che ricevono il RdC.

I dati ci dicono anche che le famiglie povere escluse tendono più di frequente: (i) a risiedere nel Nord, (ii) ad avere minori, (iii) ad avere un richiedente straniero (iv) ad avere un patrimonio mobiliare superiore alla soglia consentita. Il requisito economico di accesso che più di tutti restringe l’accesso alla misura alle famiglie in povertà assoluta è quello del patrimonio mobiliare (solo due terzi di queste lo soddisfa). A causa di una scala di equivalenza “piatta” che sfavorisce le famiglie numerose e con figli minori, il tasso di inclusione del RdC è decrescente all’aumentare del numero di componenti all’interno del nucleo. Rispetto alla dimensione geografica, nel Nord il numero delle famiglie che fruiscono del RdC è il 37% di quelle in povertà assoluta, nel Centro il 69% e nel Sud il 95%.

Con riguardo ai nuclei che percepiscono il RdC pur non essendo poveri (falsi positivi), questi si concentrano tra le famiglie di piccole dimensioni. Il 41% delle famiglie che riceve il RdC pur non essendo povera è monocomponente e il 21% è composto da due persone.

Sebbene uno schema logico ricorrente preveda che sia la mancanza di lavoro a determinare una condizione di povertà, i dati mostrano che la metà dei nuclei in povertà assoluta e di quelli beneficiari del RdC ha già almeno un occupato al proprio interno.

 

 

I percorsi di inclusione

Come prevede la norma che lo istituisce, il RdC si compone di due elementi: un beneficio economico (parte passiva) erogato a coloro che rispettano i requisiti di accesso stabiliti e la partecipazione ad attività concordate con il nucleo (parte attiva), che possono essere promosse dai servizi sociali, allo scopo di mettere le persone in povertà in condizione di superare lo stato di disagio sociale in cui si trovano, oppure organizzate dai Centri per l’impiego per il potenziamento delle competenze professionali. Un’analisi dell’attuazione del RdC, quindi, non può prescindere dal considerare come si sia concretizzato sui territori lo sviluppo della parte attiva della misura.

 

Inclusione sociale

I dati mostrano che al 31 gennaio 2021 il 5,1% dei percettori della misura non risultava tenuto agli obblighi, il 48,3% era stato indirizzato ai percorsi di inclusione sociale e il 46,6% ai percorsi di attivazione lavorativa con i Centri per l’impiego. Inoltre emerge una sostanziale stabilità nel tempo del rapporto tra i due differenti invii: nel 2020 il 49% dei nuclei percettori era stato indirizzato ai CPI e il 46% ai servizi sociali, mentre la quota di chi non è tenuto agli obblighi si attesta sempre sul 5%.

Rispetto alla presa in carico, del 48% di nuclei inviati ai servizi sociali, il 37,8% è stato assegnato dal coordinatore dell’Ambito Territoriale Sociale al case manager responsabile della presa in carico. Inoltre, i casi gestiti (ossia quelli con il Patto di inclusione sociale attivato e in monitoraggio e con percorso chiuso dal case manager) corrispondono al 14% dei casi indirizzati ai servizi sociali. All’interno dei casi serviti, l’85% dei nuclei hanno Patti attivi e nel 14,9% dei casi i nuclei sono stati esonerati dalle condizionalità a seguito delle verifiche fatte dal case manager assegnatario. Questi dati evidenziano che il flusso dalla fase di indirizzamento ai servizi sociali fino all’avvio dei percorsi di inclusione si caratterizza per una bassa quota di nuclei presi in carico rispetto a quelli complessivamente assegnati ai servizi sociali. Un primo rallentamento lo si registra in fase di assegnazione dei casi dal coordinatore al case manager. Un’ulteriore strettoia si presenta poi nell’incanalamento delle persone nei diversi percorsi di inclusione. Successivamente, una volta definiti i percorsi di inclusione, il processo subisce una accelerazione tanto che i progetti con i nuclei risultano effettivamente avviati in più dell’80% dei casi.

A livello operativo emerge un quadro caratterizzato da un processo ancora in corso che ha attraversato la complicata fase dell’avvio, dell’adattamento a regole procedurali nuove e ad un meccanismo di funzionamento che prevede molti passaggi fra una pluralità di attori che sono veicolati da piattaforme informatiche tuttora in pieno rodaggio. A complicare ulteriormente la situazione c’è stata l’irruzione del Covid-19 che ha rallentato molti passaggi e li ha resi ancor più faticosi.

 

Inclusione lavorativa

Al 31 gennaio 2021 i nuclei beneficiari di RdC indirizzati ai percorsi di inclusione lavorativa sono, a livello nazionale, circa 530 mila, il 49% del totale. Se si analizza la condizione occupazionale, emerge che inoccupati, persone senza un lavoro e che non percepiscono sussidi di disoccupazione o altre forme di sostegno al reddito siano la categoria prevalente (36%). Inoltre, la percentuale di persone considerate in stato di inattività (casalinghe e studenti) che la normativa sul RdC ha indirizzato ai servizi per il lavoro, se facenti parte di nuclei con componenti vicino al mercato del lavoro o se con meno di 29 anni, è più alta nel Mezzogiorno rispetto al resto del Paese. I disoccupati percettori di ammortizzatori sociali, insieme ai cassaintegrati, persone che sono senza lavoro ma che hanno da poco concluso un rapporto, rappresentano appena l’1% dei beneficiari.

Una quota non irrisoria dei beneficiari che la normativa ritiene più vicini al mercato del lavoro, il 21%, in realtà non ha mai avuto un rapporto di lavoro alle dipendenze nella sua storia lavorativa. La quota di persone prive di esperienze lavorative alle dipendenze è pari a circa il 40%, tra gli individui in età da lavoro che fanno parte di nuclei inviati ai servizi sociali e arriva al 50% tra gli under 30 e tra i familiari di sesso femminile di componenti vicini al mercato del lavoro.

I beneficiari di RdC indirizzati ai CPI sono in maggioranza donne (52%) e il 14% ha cittadinanza straniera, anche se con differenze accentuate a livello territoriale: al Sud e nelle Isole gli stranieri sono appena il 5-6%, mentre al Nord arrivano a rappresentare 1 beneficiario su tre. Le fasce di età degli under 30 e degli over 50, tipicamente più difficili da collocare nel mercato del lavoro, per inesperienza i primi e per difficoltà di riconversione professionale i secondi, rappresentano rispettivamente il 34% e il 27% dei beneficiari tenuti al Patto per il lavoro. I beneficiari tenuti alla stipula del Patto per il lavoro hanno titoli di studio estremamente bassi: il 72% ha al massimo la licenza media mentre solo il 3% ha ottenuto la laurea. Si tratta, in generale, di persone molto deboli dal punto di vista lavorativo e in grandi difficoltà economiche, psicologiche e sociali. Non raramente sono persone che non hanno acquisito neppure il titolo di studio obbligatorio per legge, o sono giovani che non studiano né lavorano o in evidente ritardo con gli studi.

I beneficiari di RdC effettivamente tenuti alla sottoscrizione del Patto per il lavoro sono poco più di 1 milione a livello nazionale di cui però solo circa 327 mila, quindi il 31%, ha effettivamente stipulato il Patto per il lavoro. La ridotta quota di Patti stipulati è sicuramente legata agli effetti della sospensione della condizionalità per le convocazioni ai CPI prevista in seguito all’emergenza da Covid-19, che è stata disposta da aprile a luglio 2020. Considerando lo stesso dato di un anno prima, risultavano aver stipulato un Patto per il lavoro il 45% dei beneficiari tenuti: una copertura più elevata ma comunque non universale.

 

La rete del welfare locale

Risulta interessante poi approfondire gli aspetti positivi e le criticità della rete del welfare locale su cui si innesta l’attuazione del RdC, che costituiscono dimensioni su cui lavorare per migliorare l’attuazione della misura ed offrire servizi omogenei su tutto il territorio:

 

Tema Elementi positivi Elementi critici
1) Programmazione delle risorse e organizzazione della presa in carico – Visione multidimensionale della povertà
– Consolidamento di processi e strumenti (virtuosi)
– Assenza coordinamento locale
– Gestione inefficiente delle risorse economiche
– Programmazione complessa
2) Strumenti per la gestione associata dei servizi – Programmazione ed erogazione efficace ed efficiente dei servizi- Stabilizzazione della rete – Assenza stabilità organizzativa della rete
– Frammentazione dei servizi
3) Composizione e attivazione delle reti del welfare locale – Formalizzazione tramite Tavoli e protocolli
– Co-progettazione di interventi
– Innovazione
– Assenza di coordinamento amministrativo
– Debolezza del Terzo settore
– Debolezza rete dell’ambito lavorativo
4) Adozione dell’équipe multidisciplinare per la gestione dei casi complessi – Adozione metodologia condivisa
– Presa in caro multidisciplinare
– Collaborazione
– Elevato turnover degli operatori
– Assenza partecipazione servizi specialistici
– Assenza ruoli e responsabilità definite
5) Collaborazione tra servizi sociali territoriali e Centri per l’impiego – Presa in carico coordinata dei beneficiari
– Efficace percorso personalizzato
– Assenza condivisione dati
– Assenza criteri condivisi di valutazione dei beneficiari
– Presa in carico non coordinata
6) Architettura del sistema informativo – Metodologia di lavoro condivisa – Complessità
– Rigidità
– Formalismo
– Incompletezza
– Assenza interoperabilità
– Informalità
– Ostacolo al coordinamento

 

Emergono importanti margini di miglioramento nel coordinamento tra gli attori coinvolti nel RdC, soprattutto con riferimento ai servizi sociali comunali e ai Centri per l’impiego. Le criticità sono ancora diffuse, sebbene risultino variabili nei diversi territori e tendenzialmente minori laddove l’esperienza del REI è stata meglio sfruttata per rafforzare la collaborazione. Le conseguenze per gli utenti sono molteplici: non di rado vengono inviati al soggetto meno adatto tra i due possibili responsabili della definizione del percorso d’inclusione (servizi sociali o CPI) ed effettuare un successivo re-invio all’altro è complicato. Inoltre, si registrano spesso difficoltà a realizzare le equipe multidisciplinari – assistenti sociali, operatori dei CPI e/o altre (di scuola, sanità, terzo settore e così via) – per progettare le risposte articolate necessarie in presenza di casi complessi. Infine, le difficoltà di coordinamento ostacolano la possibilità di seguire opportunamente l’evoluzione dei percorsi d’inclusione nel tempo, modificandoli quando necessario.

 

Un’agenda per il riordino del RdC

Il Rapporto propone infine un’agenda per il riordino del RdC a partire da quattro presupposti: il RdC è importante nel fronteggiare la povertà; sono maturi i tempi per un riordino finalizzato a rafforzarlo; vi è un’ampia concordanza nella ricerca scientifica sulle principali aree di miglioramento; vi è la necessità di un insieme limitato d’interventi disegnati con precisione chirurgica.

L’esperienza del Reddito di Emergenza (REM) e dei buoni comunali dimostra che è ora che la parentesi delle misure straordinarie si chiuda. Superata l’emergenza, contro la povertà vanno predisposte risposte strutturali adatte alla società attuale. La richiesta di lasciarsi alle spalle gli interventi straordinari va di pari passo con quella di riordinare la misura ordinaria: REM e buoni comunali sono stati pensati per fornire un sostegno a persone e famiglie in difficoltà a causa del Covid-19 che non ricevevano il RdC; di conseguenza, essi avevano criteri di accesso più ampi e utilizzavano strumenti di misurazione delle condizioni economiche dei richiedenti più inclusivi. Dopo il periodo della pandemia, occorre chiedersi se sia opportuno trasferire alcune delle loro peculiarità nel RdC, quali: criteri di accesso meno restrittivi; allentamento dei requisiti di accesso di patrimonio immobiliare; rafforzamento dell’ISEE corrente.

Un riordino del RdC non può non partire dai poveri, migliorando la capacità della misura di intercettare la povertà. All’interno di una strategia complessiva sui requisiti per ricevere il RdC è necessario prevedere un mix di azioni additive e azioni sottrattive:

 

Ampliare i criteri di accesso
AZIONI EFFETTI DEGLI ATTUALI CRITERI DI ACCESSO
Diminuzione numero di anni di residenza richiesti Escluse 4 famiglie povere straniere su 10
Innalzamento soglie patrimonio mobiliare Escluso un terzo delle complessive famiglie povere
Innalzamento soglie economiche al Nord Famiglie con RdC/Famiglie in povertà: 37% (Nord), 69% (Centro), 95% (Sud)
Scala di equivalenza non discriminatoria verso famiglie più numerose Spese di una famiglia di 5 rispetto a un single: + 150% (Istat), +64% (RdC)
Restringere i criteri di accesso
AZIONI EFFETTI DEGLI ATTUALI CRITERI DI ACCESSO
Abbassamento soglie economiche famiglie di una persona Le famiglie unipersonali sono il 40% del totale dei falsi positivi
Abbassamento soglie economiche famiglie di due persone Le famiglie di due persone sono il 21% del totale dei falsi positivi

 

Rispetto all’altra fondamentale gamba del RdC, i percorsi di inclusione, ci troviamo in una fase propizia per compiere un ulteriore passo avanti per il venir meno delle restrizioni dovute al Covid-19, in quanto si assiste (e si assisterà) ad un ulteriore incremento del personale dedicato nei servizi sociali e nei Centri per l’impiego, perché le novità previste dal RdC sono ormai state assimilate in gran parte dei territori e perché l’esperienza maturata sinora indica piuttosto nitidamente una serie di correttivi da realizzare. Nei servizi del welfare locale, dunque, il momento è adesso. Bisogna agire nelle seguenti direzioni:

 

1) promuovere il coordinamento tra i soggetti della rete con tre azioni “classiche” per un maggiore coordinamento:

  1. potenziare i luoghi (la cabina di regia nazionale e tavoli o cabine di regia regionali)
  2. rafforzare gli strumenti (es. protocolli di intesa)
  3. migliorare la condivisione delle informazioni (scambio di informazioni tra le piattaforme esistenti)

e un’azione legata allo specifico disegno del RdC: modificare l’algoritmo per la suddivisione iniziale dell’utenza che si basa esclusivamente sulla occupabilità dei componenti maggiorenni in famiglia.

 

2) riorientare il sistema dei percorsi di inclusione lavorativa:

  1. migliorare gli incentivi al lavoro per chi è occupabile
    • cumulo RdC + reddito da lavoro con l’introduzione di “in-work benefit
    • condizionalità: affrontare il nesso tra la severità formale e lo scarso utilizzo
  2. disegnare interventi adatti a chi non è (temporaneamente) occupabile
    • riconoscere la quota di utenti non occupabili inviati ai CPI
    • predisporre risposte opportune per loro

3) irrobustire l’impianto dei percorsi di inclusione sociale:

  1. azioni dirette a sostegno dei percorsi di inclusione:
    1. sostenere e rafforzare la strategia dell’assunzione di assistenti sociali per garantire il rapporto di 1 a 5.000, soprattutto per gli Ambiti che non raggiungono il rapporto 1 a 6.500 attualmente esclusi dalla novità normativa e che sono invece i più bisognosi di supporto
    2. dare seguito e rafforzare le strategie di supporto tecnico alle Regioni messe in campo dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, a partire da alcune segnalazioni che provengono dai territori su disfunzioni e lacune operative, come quelle relative alla piattaforma GePI
  2. azioni indirette a sostegno del sistema del welfare locale:
    1. rafforzare gli Ambiti Territoriali Sociali sul piano giuridico e organizzativo e promuovere il passaggio dei Comuni coinvolti alla gestione associata
    2. rafforzare gli Ambiti in termini di personale non operativo, cioè responsabili e coordinatori e figure amministrative di supporto
    3. infittire le relazioni tra il centro e gli Ambiti Territoriali, migliorando la trasmissione delle informazioni sulle novità riguardanti il RdC dal primo ai secondi e rendendola più tempestiva e puntuale. Inoltre, sarebbe utile un maggiore coinvolgimento degli Ambiti da parte dello Stato al momento di definire le novità di natura amministrativa e gestionale
    4. dedicare una specifica attenzione agli aspetti contabili-amministrativi destinati ad influire fortemente sulla realizzazione dei percorsi, ad esempio prevedendo una maggiore flessibilità nell’utilizzo delle risorse del Fondo per i servizi e di erogare i finanziamenti in modo da consentire una programmazione delle risorse almeno biennale ai territori

L’elaborazione dell’agenda è ispirata a un principio di ragionevolezza che dovrebbe facilitare l’applicazione dei cambiamenti suggeriti. Non una complessiva riforma, dunque, bensì un riordino, cioè un pacchetto circoscritto d’interventi da realizzare allo scopo di affrontare alcune criticità ineludibili per risolvere problemi sulla cui rilevanza le evidenze del Rapporto concordano con quelli di altre ricerche disponibili.