Reddito di Cittadinanza: una lettura di genere


Isabella OrfanoLuca Fanelli | 11 Luglio 2019

Adottare la prospettiva di genere (gender mainstreaming) nella definizione, programmazione, implementazione e valutazione di norme, politiche e bilanci pubblici è al contempo un principio e uno strumento considerato fondamentale già dal 1995 (Conferenza ONU di Pechino) per contrastare le disuguaglianze sociali ed economiche tra donne e uomini.

Chi ha il compito di legiferare ha quindi la responsabilità di tenere conto degli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono l’effettiva ed equa partecipazione di donne e uomini all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese, in ottemperanza con l’art. 3 della nostra Costituzione. Sono passati più di vent’anni dalla Conferenza di Pechino ma il gender mainstreaming continua ad essere un mero principio sulla carta più che uno strumento utilizzato dalle istituzioni italiane.

Ultimo esempio di occasione mancata di applicazione dell’approccio di genere da parte del legislatore è il decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4, “Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni”.

 

Un primo parametro per valutare l’applicazione di un approccio di genere è l’uso della terminologia: fin dall’art. 1 (in cui istituisce il Reddito di cittadinanza per “soggetti a rischio di emarginazione nella società e nel mondo del lavoro”) e poi per tutto l’articolato si usa un termine neutro (“soggetti”), che cancella le specificità delle donne e degli uomini nell’accesso alle risorse sociali, economiche e produttive, frutto di una cultura politica che pare non riconoscere tali differenze.

 

Un secondo elemento da segnalare, peraltro comune alle misure nazionali di contrasto alla povertà che si sono succedute nel corso degli anni, è il riconoscimento del “nucleo familiare” quale beneficiario della norma, assumendo che le risorse erogate vengano poi distribuite tra i componenti della famiglia in base a bisogni e priorità condivise. In questo ambito la norma prefigura una rilevante novita: l’art. 3, § 7, prevede infatti che: “[…] sono stabilite le modalità di erogazione del Rdc suddiviso per ogni singolo componente maggiorenne del nucleo familiare […]”; tale istanza è confermata all’art. 5, § 6. Se ne deduce che il RdC “a regime” sarà erogato in modo indipendente a ciascun membro maggiorenne del nucleo familiare. Sul piano teorico ciò potrebbe avere degli effetti positivi, quali l’equa distribuzione delle risorse tra componenti della famiglia e una maggiore autonomia nelle scelte dell’uso del denaro, anche di coloro che hanno nel nucleo minore potere. Sul piano pratico, però, per valutarne la reale efficacia, è fondamentale verificare le modalità di gestione intrafamiliare delle risorse assegnate. In altre parole, chi e come decide le spese da sostenere, anche alla luce del fatto che spesso sono gli uomini a determinare il bilancio familiare complessivo. Inoltre, particolare attenzione va prestata alle conseguenze che tale disposizione potrebbe avere sulle donne che subiscono violenza domestica e sull’effettiva capacità di utilizzare il RdC quale strumento di indipendenza economica e, quindi, di fuoriuscita dalla violenza. Non vanno inoltre sottovalutati alcuni possibili risvolti negativi come, ad esempio la maggiore dispersione nell’uso del sussidio. Ad esempio, se la famiglia deve realizzare una spesa una tantum superiore al valore assegnato al singolo, qualora i componenti non arrivino ad un consenso, è possibile che la spesa non venga fatta, con eventuali effetti negativi sul medio o lungo periodo.

 

Il terzo punto è il più critico e riguarda quanto previsto dall’art. 4, § 3, che rischia di aggravare ulteriormente la disparità di partecipazione al mercato del lavoro tra uomini e donne, a danno di queste ultime. Si legge infatti: “Possono altresì essere esonerati dagli obblighi connessi  alla fruizione del Rdc, i componenti con carichi  di  cura,  valutati  con riferimento alla presenza di soggetti minori  di  tre  anni  di  età ovvero di componenti il nucleo familiare con disabilità grave o  non autosufficienza, come definiti a fini ISEE […]”. Stante un nucleo con i suddetti carichi di cura, chi e come viene deciso il componente che è esonerato? Sono entrambi i partner (se presenti) o solo uno dei due? Nella seconda ipotesi, è molto probabile che l’esonero riguardi nella maggior parte dei casi le donne, relegandole ancora una volta al ruolo di caregiver e inasprendo ulteriormente la possibilità di accedere ad opportunità lavorative su base egualitaria rispetto agli uomini. I dati confermano infatti che il lavoro di cura è ancora in larga parte appannaggio femminile. La norma proposta non pare tenere conto di questa discriminazione strutturale della società italiana, anzi, ne permette la reiterazione senza formulare proposte di una diversa e più equa distribuzione del lavoro riproduttivo.

 

Stabilendo poi che, al compimento di tre anni di età di eventuali minori a carico, l’esonero decade, la norma dà per scontato che siano presenti uniformemente su tutto il territorio italiano scuole e servizi in grado di rispondere ai bisogni di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro di uomini e donne. La realtà però mette in luce una situazione ben diversa. Ad esempio, il tempo pieno per la scuola primaria non è garantito uniformemente in tutta Italia ma solo per il 34% delle alunne e degli alunni (MIUR, a.s. 2017-2018). Se a questo si aggiunge la “congruità” determinata dalla norma di un’offerta di lavoro “entro cento chilometri dalla residenza del beneficiario o comunque raggiungibile nel limite temporale massimo di cento minuti con i mezzi di trasporto pubblici, se si tratta di prima offerta, ovvero entro duecentocinquanta chilometri di distanza se si tratta di seconda offerta, ovvero, fermo quanto previsto alla lettera d), ovunque collocata nel territorio italiano se si tratta di terza offerta” (art. 4, § 9), ci si chiede quale siano le effettive possibilità delle donne di ri/entrare nel mercato del lavoro dovendo gestire carichi di cura che mal si accordano con le disposizioni della norma e un sistema di welfare non rispondente agli effettivi bisogni delle persone.  Anche in questo caso, si rimanda a una definizione in  sede  di  Conferenza Unificata i “principi e criteri generali  da  adottarsi  da  parte  dei servizi competenti in sede di valutazione degli  esoneri”. Ciò nonostante, la legge non dovrebbe tanto stabilire obblighi ed esoneri che mal si conciliano con i tempi di vita e di lavoro e con la stato di salute del welfare nazionale e locale, ma prevedere piuttosto l’investimento in politiche articolate che affrontino la questione dei carichi di cura, attribuendoli a servizi garantiti dal pubblico permettendo a uomini e donne pari opportunità di accedere pienamente agli strumenti di inclusione socio-lavorativa, RdC compreso. Considerando che le donne sono spesso le principali caregiver all’interno dei nuclei familiari, questo andrebbe soprattutto a loro beneficio e contribuirebbe a una maggiore uguaglianza di opportunità in campo economico.

 

In attesa dell’emanazione dei decreti attuativi e dei criteri previsti che potrebbero introdurre nuove disposizioni, allo stato attuale, il RdC risulta quindi essere una misura familistica perché rivolto al nucleo familiare e non alla singola persona. Inoltre, il RdC si configura come uno strumento gender blind e una norma che reitera discriminazioni di genere strutturali del nostro Paese. Il RdC non tiene infatti in alcun conto le differenze socio-economiche tra donne e uomini e la necessità cruciale di integrare le politiche attive del lavoro con quelle di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza, all’esclusione sociale (debitamente riviste per garantire la prospettiva di genere), nonché con le politiche per l’uguaglianza di genere. Le donne italiane quindi continueranno ad avere maggiori responsabilità in ambito domestico, ad incontrare maggiori difficoltà di accesso al mercato del lavoro, a subire disuguaglianze salariali e, nei casi di violenza, ad avere difficoltà a lasciare le mura domestiche perché impossibilitate a raggiungere la piena autonomia socio-lavorativa.

 

In conclusione, affinché il RdC possa essere una misura che risponda maggiormente alle specificità di genere e ai relativi bisogni è fondamentale che, in fase di redazione dei decreti attuativi, sia utilizzato un approccio di genere, anche con il supporto di esperte/i qualificati in materia. È inoltre necessario mettere mano all’art. 4 al fine di evitare che le donne – su cui ricade principalmente il lavoro di cura nel nostro Paese – non siano di fatto escluse da percorsi di ricerca del lavoro previsti dalla norma, prevedendo al contempo misure articolate e diffuse sul territorio che consentano di conciliare i tempi di vita e di  lavoro.