Tra valori professionali e pressioni manageriali

Una riflessione sulla discrezionalità degli operatori sociali


Introduzione

L’articolo propone una riflessione sulla dibattuta questione della discrezionalità degli operatori sociali quali street-level bureaucrats (Lipsky, 1980) e agenti situati (Bevir, 2012), ossia come burocrati del livello della strada che operano in uno specifico contesto organizzativo e sociale.

Il saggio porta all’attenzione del lettore alcune evidenze significative relative agli schemi di giudizio e d’azione agiti dagli operatori sociali in un contesto di trasformazione dei servizi e del sistema di welfare largamente riconducibile a due fenomeni: managerializzazione e politiche di austerity.

Negli ultimi anni, infatti, i servizi sociali hanno sperimentato una serie di trasformazioni cosiddette manageriali e sono stati duramente colpiti da misure di austerità che nel nostro paese si sono concretizzate in tagli al budget specialmente a livello locale.

La street-level theory è una prospettiva d’analisi capace di mostrare un lato rilevante e poco visibile del lavoro sociale; integrare questa prospettiva con il concetto di “agency situata”1 consente di superare l’ipotesi secondo cui la managerializzazione porta necessariamente alla perdita dell’autonomia professionale e alla deprofessionalizzazione.

 

La ricerca

La riflessione qui presentata prende le mosse da una più ampia ricerca sulle professioni sociali e le trasformazioni di welfare, con l’obiettivo di indagare le possibili tensioni tra logica professionale e logica manageriale (Tousijn e Dellavalle, 2017). L’indagine è stata realizzata somministrando 56 interviste agli operatori sociali (assistenti sociali, educatori, operatori sociosanitari e amministrativi) di differenti livelli gerarchici, in due servizi sociali del Nord-Italia: un Comune di grande dimensione e un ente gestore limitrofo. La ricerca ha documentato i gravi effetti delle politiche di austerity sui servizi e ha messo in luce come i contesti indagati abbiano sperimentato una peculiare forma di managerializzazione, più vicina a una burocratizzazione rinnovata solo parzialmente piuttosto che a un managerialismo maturo (Cataldi e Tousijn, 2015; Cataldi, 2017).

 

Evidenze

Studi successivi alla ricerca di partenza hanno rivelato aspetti significativi della discrezionalità situata degli operatori (Cappellato e Cataldi, 2019; Cataldi e Cappellato, 2020).

 

In primo luogo, con riferimento al periodo successivo alla crisi del 2008, la drammatica carenza di risorse, non solo economiche ma anche di tempo, imputabile ai tagli intervenuti e al blocco delle assunzioni, è la prima fonte di frustrazione per gli operatori; rende necessaria la selezione degli utenti e il razionamento; incide sulla discrezionalità, poiché riduce le opzioni di interventi erogabili e lo spazio di relazione con gli utenti (cfr. anche Cellini e Scavarda, 2017; Cellini e Scavarda, 2019; Cellini e Scavarda, 2020); e, infine, rischia di trasformare il lavoro sociale in mero supporto relazionale e consolatorio (Cappellato, 2017).

 

Come secondo elemento, l’esistenza di una frattura valoriale e identitaria tra management strategico, i.e. top manager, da un lato, e management locale/operatori di base, dall’altro (Evans, 2011): spesso il management strategico, viene visto promotore di una “cultura di business” attenta al risparmio e al calcolo economico, mentre la logica locale riflette una dedizione alle norme e ai valori professionali (cfr. anche Cellini e Scavarda, 2017).

 

La terza evidenza è rappresentata dal fatto che spesso gli operatori di base si sentono estranei rispetto alle politiche pubbliche che implementano (Tummers, 2011).

 

Il quarto punto è costituito dalla differenziazione tra utenti/targets: alcuni sono più tutelati di altri in ragione di credenze collettive e sociali ancor prima che professionali che hanno a che vedere, in senso lato, con l’idea di “merito” (e.g. minori disabili vs adulti in difficoltà) (Cappellato e Cataldi, 2019).

 

Il quinto elemento è rappresentato dalla constatazione che la “categorizzazione” dei cittadini e la trasformazione in utenti è un vero e proprio metodo di lavoro.

 

La sesta evidenza concerne l’“attivazione” (e.g. la ricerca di lavoro, l’iscrizione a corsi di formazione, ecc.) quale criterio di valutazione del merito del cittadino-utente, nonché di selezione degli utenti che sembrano più facili da aiutare o da collocare/ricollocare socialmente (creaming).

 

Il settimo aspetto riguarda la rilevanza delle “ideologie di pratica” (Hasenfeld, 2000). Esse sono insiemi di idee che si esplicano nel processo di selezione, categorizzazione e valutazione degli utenti: “cercano conferma come profezie che si autoavverano selezionando/escludendo le informazioni incompatibili e resistendo al cambiamento e alla rivalutazione” (Handler, 1996, p. 127). La loro forza si palesa nella costruzione di rappresentazioni, spesso stereotipate, degli utenti (e.g. “nuovi poveri” e “poveri tradizionali”).

L’ottavo elemento è rappresentato dalla pervasività delle strategie di razionamento (Tummers et al. 2015) messe in atto attraverso diversi meccanismi: l’attesa, intesa sia come generico “procrastinare” sia come strategia fattiva, come ad esempio, utilizzare il sistema delle code (Brodkin, 2011; Kleyn e Maybin, 2012); la delega, all’utente, alla famiglia o a un’altra organizzazione (e.g. ASL).

 

Conclusioni

Il fatto che l’austerity e i processi di riorganizzazione dei servizi sociali incidano, spesso in senso restrittivo, sugli spazi di esercizio di discrezionalità degli operatori non significa che ne siano privi, come dimostrato dal fatto che la maggioranza degli intervistati afferma di conservare una sostanziale autonomia professionale, nonostante il controllo gerarchico e i vincoli posti dalle normative. Ciononostante, la gran parte degli intervistati sembra rinunciare al pieno esercizio dell’agency di cui strutturalmente dispone. Il continuo appello alle norme e alle credenze professionali sembra assolvere più alla funzione di schermo rispetto al “sistema”, piuttosto che all’esercizio della voice, ovvero la possibilità di avanzare le proprie istanze, tanto nell’organizzazione del servizio quanto in sede di formulazione delle politiche.

La carenza di risorse comporta una serie di rischi di cui gli operatori sembrano avere almeno parzialmente contezza. Tra questi, un razionamento indiscriminato, la trasformazione del lavoro sociale in mero supporto relazionale, in assenza di una reale contropartita in servizi, la deresposabilizzazione delle istituzioni, insita in meccanismi di delega sempre più evidenti.

La mancata rilevazione di strategie collettive di opposizione e di protesta (cfr. Campanini e Facchini, 2013; Cellini e Scavarda, 2017) rispetto a questi rischi punta il dito su due aspetti tra loro connessi: l’effettiva capacità/possibilità di “far politica” degli operatori e il tipo di professionalismo che connota i servizi e coloro che li “abitano”.

 

In linea con alcune ricerche svolte all’estero e in Italia (Gal e Weiss-Gall, 2013; Fargion, 2018), gli studi condotti hanno evidenziato come l’agency politica degli operatori sociali sia confinata a livello micro, ossia al processo di produzione della policy centrato sull’erogazione individuale al cittadino del servizio, mentre “fuori portata” sembrano tanto il livello meso, il “far politica” dentro al proprio network lavorativo, quanto il livello macro, propriamente della Politica (Cataldi e Cappellato, 2020).

La limitata capacità di decisione e di azione degli operatori a fronte delle penalizzanti politiche di austerity e di una managerializzazione vecchio stampo, può essere il riflesso di un professionalismo che è rimasto ancorato ai concetti di “riserva di competenze”, “status”, “dominanza” (attento, cioè, a rivendicare spazi di giurisdizione esclusiva e a difendere la propria posizione di potere nei confronti delle altre professioni e degli utenti), anziché svilupparsi in una direzione inclusiva, improntata all’apertura relazionale e all’espansione di competenze condivise con altri professionisti, come quelle manageriali (Cataldi e Cappellato, 2020; Cataldi et al., 2020).

 

Per quanto le risorse destinate al welfare e ai servizi sociali siano aumentate negli ultimissimi anni a seguito dell’introduzione di nuove misure, quali il reddito di cittadinanza, nonché della necessità di rispondere alla crisi pandemica, l’incrementata disponibilità di mezzi, ancora invero da quantificare con riferimento all’effettiva capacità di tradursi in servizi, resta pur sempre limitata rispetto alla domanda e ai bisogni sociali. In questo senso, le evidenze qui presentate offrono spunti di riflessione ancora attuali, in particolare per quanto concerne il “fare politica” e il professionalismo degli operatori. Più che mai valido risulta oggi l’invito formulato: cogliere la sfida di un nuovo professionalismo, dialogante, basato sul riconoscimento e la valorizzazione delle competenze dei diversi professionisti del sociale, come pure degli utenti. Perché tale professionalismo si sviluppi è necessaria una riflessione collettiva sulle possibilità di rinnovamento della professione dell’assistente sociale nel contesto sociale e politico in cui il servizio sociale opera (Cellini e Scavarda, 2020). Questo il passo necessario perché gli operatori riescano insieme a promuovere un nuovo managerialismo, maturo e autenticamente post-burocratico (Cataldi e Cappellato, 2020), ed essere promotori fattivi di giustizia, equità e massima inclusione sociale.

  1. Per agency di un attore, sia esso individuale o collettivo, si intende la sua effettiva capacità di decisione e di azione. Essa è “situata” perché collocata in uno specifico contesto.