Valutazione di impatto per dare valore alla trasformazione


Paolo VenturiSara Rago | 10 Dicembre 2019

L’impatto è un concetto che indica un cambiamento di lungo periodo che avviene sulle persone e nelle comunità. Valutare l’impatto significa rilevare, analizzare e “dare valore” alla trasformazione agita da un’organizzazione del Terzo Settore attraverso le attività realizzate, i servizi erogati o i progetti implementati, rispetto alle diverse categorie di portatori di interesse (stakeholder) e ai portatori di risorse (assetholder) monetarie e non: dai beneficiari diretti di un intervento ai lavoratori, collaboratori, soci e volontari dell’organizzazione, passando per i finanziatori e i donatori presenti o futuri nonché i soggetti pubblici, fino, ovviamente, ai cittadini e alla comunità in senso più ampio.

In altri termini, si tratta di dare evidenza al contributo specifico dei soggetti del Terzo settore alla produzione di valore aggiunto economico e sociale in virtù del loro ruolo “emergentista”, così come riconosciuto anche all’interno della riforma del Terzo settore.

Tali soggetti, infatti, attraverso le proprie attività, sono letteralmente in grado di fare “emergere” un valore sociale ed economico, peculiare ai loro tratti identitari e connesso alla propria funzione-obiettivo, che li differenzia e li smarca da un ruolo meramente “additivo” (residuale) o “alternativo” (in contrapposizione) rispetto alle istituzioni pubbliche e private for profit.

 

Il tema della valutazione di impatto sociale, ormai da alcuni anni oggetto di dibattito sia a livello concettuale che metodologico e di strumentazione (sfociato – e non concluso – nella pubblicazione in Gazzetta Ufficiale n. 214 del 12 settembre 2019 delle “Linee Guida per la realizzazione di sistemi di valutazione dell’impatto sociale delle attività svolte dagli enti del Terzo settore”), fin da principio si è caratterizzato per la dimensione di profondo cambiamento culturale che porta con sé. Ragionare in termini di impatto, infatti, non significa solamente trovare degli indicatori (qualitativi e quantitativi) giusti (ovvero coerenti, appropriati e misurabili) per osservare il cambiamento apportato; tale passaggio, seppure necessario, non è sufficiente ad esaurire la riflessione in merito. Occorre, invece, ancor prima “cambiare occhiali” e osservare la propria organizzazione e ciò che realizza da una prospettiva diversa, chiedendosi: “Qual è il cambiamento di lungo periodo che vogliamo generare o abbiamo generato attraverso la nostra attività? E nei confronti di chi?”. Tali quesiti si legano inesorabilmente alla necessità, da parte dell’organizzazione, di lavorare anzitutto sulle proprie dimensioni di valore, ovvero quei tratti specifici che definiscono e perimetrano la loro identità e che, legandosi al fine ultimo del loro agire (telòs) e al modello organizzativo prescelto per farlo, incidono necessariamente sulla loro capacità di contribuire alla produzione di impatto sociale.

 

Dentro questo quadro interpretativo, le Linee guida per la realizzazione di sistemi di valutazione dell’impatto sociale” rappresentano una terza via fra una visione che lecitamente richiedeva criteri e soluzioni stringenti circa il processo di valutazione e la sua adozione e una visione che nell’impatto sociale ha sempre visto un elemento accessorio e, per certi versi, inutile e distorsivo per valutare l’agire sociale. La strada scelta è quella della “normatività sociale”, ossia assumere quella che Thaler definirebbe “nudging”, una “spinta gentile” per accompagnare un processo che, al netto delle linee guida, è già profondamente segnato dalla richiesta di valutazione d’impatto da parte di istituti bancari, istituzioni europee, fondazioni, donatori e investitori privati.

Le Linee guida riconoscono il valore dell’impatto e la sua alterità dalla rendicontazione sociale ponendo il tema del cambiamento innanzitutto negli effetti generati sulla comunità. Un elemento fondamentale nei processi di “change management” del Terzo settore, utile a favorire una maggiore apertura con la consapevolezza che l’identità non va solo riconosciuta ma costruita e che, fra i beneficiari principali, vi è la comunità che è il “locus” dove osservare il cambiamento (social impact as a community benefit). Riconoscere l’impatto come elemento che costruisce la “qualità e il valore” del sociale è elemento decisivo che fa avanzare gli ETS oltre le colonne d’Ercole della rendicontazione, avventurandosi all’interno dei percorsi della valutazione (l’attribuzione di valore, da un punto di vista metodologico, postula un giudizio contest e path dependent).

 

Un processo apparentemente complesso, quello della valutazione di impatto sociale, che – al fine di essere incentivato – trova un primo tentativo di semplificazione (da non confondere, tuttavia, con un’operazione di mera sovrapposizione) nella possibilità di evidenziare già all’interno del bilancio sociale (rif. Linee Guida, “Coordinamento con il bilancio sociale”) alcune evidenze che emergono in termini di risultati di medio periodo (outcome) conseguiti dall’organizzazione rispetto alle attività che vengono rendicontate annualmente all’interno di questo documento.

Ecco perché il fine delle Linee guida non può che essere quello di “facilitare” offrendo un frame dentro cui alimentare percorsi intenzionali (ossia ancorati ad una concreta visione strategica) e misurabili (ossia descritti e valorizzati da indicatori qualitativi e/o quantitativi). Riduttivo è affermare che il processo della VIS sia un percorso di mera auto-valutazione da parte dell’ETS stesso, poiché le Linee guida in più parti segnalano la centralità del coinvolgimento degli stakeholder nel percorso di definizione e validazione della “misura” dell’impatto. Parlando di impatto sociale, infatti, è necessario tenere in mente la sua natura ecosistemica: ciò significa che non possiamo osservare l’impatto se non in relazione all’ecosistema in cui l’organizzazione si colloca. Ecosistema che si compone di una pluralità di soggetti, pubblici e privati, nonché la comunità stessa, rispetto ai quali l’organizzazione del Terzo settore genera impatto. Ecco perché diventa imprescindibile che quello stesso ecosistema, seppur limitato all’attività oggetto della valutazione, entri attivamente e fin da principio nel processo di valutazione di impatto sociale. Questa è la ratio che sottende la necessità di avviare un “processo di partecipazione alla definizione delle dimensioni di valore della misurazione di impatto da parte di un insieme di classi di stakeholder rappresentativi interni ed esterni all’ente”, così come riportato nelle Linee guida (con riferimento specifico al tema “Processo e misurazione: elementi caratterizzanti la valutazione di impatto sociale”).

Queste ultime si configurano, pertanto, come documento il cui fine è quello di orientare e supportare le organizzazioni nel trovare il percorso e lo strumento più adeguato per “dare valore” alla trasformazione attuata attraverso le proprie attività. In tal senso, il testo delle Linee guida fornisce un’indicazione in termini dell’approccio metodologico che ricalca sostanzialmente la catena del valore dell’impatto, in cui oggetto di analisi sono gli input (risorse umane, monetarie/non monetarie, tangibili/intangibili), le attività (o servizi erogati/progetti realizzati), gli output (esiti delle attività poste in essere) e gli outcome (i risultati attesi diretti e indiretti delle attività).

 

La complessità che caratterizza tale processo non deve spaventare, anzi. La sua forza e le sue potenzialità sono direttamente proporzionali alla capacità delle organizzazioni proprio di fare fronte a questa complessità. L’elemento chiave, in tal senso, è quello che è stato riassunto nel primo principio enucleato nelle linee guida, ovvero l’intenzionalità: la comprensione da parte dell’organizzazione della rilevanza che può avere la valutazione di impatto sociale per intendere e riorientare le proprie strategie è di fondamentale importanza. Quanto più, infatti, l’impatto riesce ad entrare in verticale nell’organizzazione di Terzo settore, tanto maggiore sarà la capacità dell’organizzazione stessa di riorientare le proprie attività verso la produzione di impatto. Ecco, quindi, che per chi assume questa prospettiva non è più sufficiente ragionare in termini di “reportistica” fine a se stessa.

In altri termini, la valutazione di impatto concepita in ottica strategica permette di avviare un processo di potenziamento della dimensione organizzativa interna – (impact) empowerment – fino ad arrivare anche a dar vita ad un’azione di sviluppo delle capacità – (impact) capacity building – sia in capo alla risorse umane interne che sulle realtà che fanno parte della dimensione esterna, ovvero gli stakeholder, orientando in tal modo tutti i livelli coinvolti e le azioni messe in campo verso una visione di lungo periodo che persegue la produzione di cambiamento nella vita delle persone e delle comunità in cui si agisce.

Come si evince dalle Linee guida, nella diffusione di un processo di innovazione, come quello della VIS, per sua natura fortemente culturale, fondamentale risulta essere il ruolo delle reti nell’accompagnare i soggetti che le compongono attraverso un percorso di capacity building che passa anche attraverso una personalizzazione (seppur dentro la cornice delineata dalle Linee guida) dello strumento di VIS adottato; una spinta, questa, a costruire comunità di pratiche utili a sperimentare e generare codici comuni.

 

In conclusione, quella rappresentata dalle Linee guida è una soft law, che – come detto – contiene luci ed ombre, ma che muove convintamente verso una direzione che tende a riconoscere l’attribuzione di valore non appena come un’esternalità, ma come il cuore di qualsiasi azione mossa da motivazioni intrinseche e orientata all’interesse generale. In tal senso, la valutazione di impatto sociale va, dunque, intesa come opportunità di crescita da parte degli enti del Terzo settore: una sfida che, all’interno della sua complessità, mette tali soggetti nelle condizioni di fare un salto di qualità nella ridefinizione dei propri obiettivi di lungo periodo, nella capacità di ripensarsi anche in termini organizzativi e, di conseguenza, in termini di adeguatezza (ovvero di efficacia ed efficienza) nel rispondere ai problemi sociali emergenti, sempre più complessi, i quali per essere risolti vanno affrontati in maniera ecosistemica dalla pluralità di attori che risiedono su un territorio. In questa fase di sperimentazione l’obiettivo è quello di capacitare le organizzazioni e i relativi stakeholder, nonché le comunità sul valore dello strumento al fine di scongiurare quella che è la più alta sanzione ai processi di impact washing ossia la generazione di sfiducia.

 


Commenti

Grazie per questo articolo, molto interessante per chi si trova ogni giorno ad affrontare le problematicità di un’organizzazione no profit; che in questi anni ha assunto un’identità nebulosa, tra quello che si può fare e quello che non si può fare sul piano ‘commerciale’, appunto per non rischiare di perdere trasparenza e dato valoriale.