Il Covid-19 ha prodotto effetti inattesi anche sul flusso di migrazioni che negli ultimi anni si è notevolmente ridotto, confermando una tendenza iniziata prima dell’emergenza (ISTAT 6 ottobre 2020 “Report Cittadini non comunitari in Italia”). L’occasione può essere buona per accogliere le riforme introdotte con il recente Decreto immigrazione, superare l’approccio emergenziale e tornare ad aprirsi a percorsi di integrazione reale, anche in vista di flussi che torneranno dopo l’emergenza causati anche da fenomeni relativamente nuovi come le migrazioni climatiche.
Attraverso le modifiche del recente DL. 130/2020 (convertito in L.173/2020) si è intervenuti per riparare le eccessive restrizioni del Decreto Salvini del 2018 (DL. 113/2018 convertito in L. 132/2018) introducendo, fra le altre disposizioni, la “protezione speciale”, il divieto di espulsione per il “rischio di essere sottoposti a trattamenti inumani o degradanti” e il “rischio di violazione del diritto al rispetto della propria vita privata e familiare” (si pensi ad esempio alle persecuzioni di persone omosessuali). Infine, è stato anche allargato il concetto relativo alle migrazioni climatiche: il permesso di soggiorno per calamità naturale viene concesso non più per lo stato di calamità “eccezionale e contingente” del proprio Paese di origine, ma per la semplice esistenza di una situazione di “gravità”.
In Italia il permesso di soggiorno per calamità è stato previsto proprio dal Decreto Salvini che ha introdotto l’art. 20-bis nel TU sull’immigrazione (Dlgs. 286/1998). Tuttavia, il riferimento ad una situazione “contingente ed eccezionale” ha, di fatto, ridotto notevolmente il concetto di calamità naturale escludendo tutti gli eventi naturali a lenta insorgenza o eventi prevedibili e continui, come le alluvioni e le esondazioni, che pur non essendo straordinari rendono impossibile la permanenza in un determinato luogo. Si aggiunga a questo che la valutazione dei presupposti per la concessione del permesso di soggiorno per calamità è demandata alle singole Questure, con il rischio, data l’assenza di criteri specifici, di disparità di trattamento sul territorio nazionale per casi analoghi.
Anche se tale tipologia di permesso è ancora poco utilizzata, le sue potenzialità potrebbero essere vaste. Da un lato perché gli eventi climatici estremi che hanno causato sfollamenti sono più che raddoppiati negli ultimi quattro anni, passando da 43 nel 2016 a 100 nel 2019 solo in Europa, come anche i contenziosi legali collegati ad eventi climatici (UNEP Report, 2020). Dall’altro perché l’Italia si trova in una posizione strategica, facendo da ponte nel Mediterraneo, e sta già fronteggiando un fenomeno di vasta scala come la desertificazione del Sahel. Secondo il recente studio dell’Istituto sull’inquinamento atmosferico del Cnr-Iia, già oggi la prima causa di gran parte del flusso migratorio verso l’Italia è causato da fenomeni meteo-climatici che rappresentano uno dei vettori principali degli spostamenti di massa. Dalla fascia del Sahel, che coincide con la fascia della desertificazione, arrivano nove migranti su dieci sul totale della “rotta mediterranea”. In tale area l’agricoltura è fortemente dipendente dalle variazioni climatiche e trasforma l’esodo in una vera e propria lotta per la sopravvivenza (cfr. Cai et al. 2016). Ma anche altre rotte potrebbero interessare il fenomeno delle migrazioni forzate in Italia. Negli ultimi anni i migranti provenienti dal Pakistan costituiscono il 20% dei richiedenti asilo (8.733 richieste nel 2019). In tale Paese, al 31 dicembre 2019, si registravano 121.000 sfollati interni (IDPs), di cui 106.000 per ragioni legate a violenza e conflitti e 15.000 a causa di disastri naturali.
Globalmente poi, ci sono altri rischi da non sottovalutare legati allo scioglimento dei ghiacciai in Himalaya, al degrado degli ecosistemi montani e all’innalzamento del livello del mare. Nel 2019 i rischi legati a eventi meteorologici hanno costretto alla fuga circa 24,9 milioni di persone in 140 Paesi ed è stato calcolato che tale fenomeno potrebbe spingere a spostarsi circa 200 milioni di persone entro il 2050 (UNHCR, 2021)
Fig.1 Nuovi sfollati nel 2019: ripartizione per conflitti-violenze (arancione) e disastri naturali (blu)
Fonte: IDMC, 2021
Secondo l’ultimo rapporto IDMC (IDMC 2021, Global Report on Internal Displacement) gran parte dei nuovi sfollati per disastri naturali (24,9mln nel 2019. Vedi Fig.1) è da attribuire a cause metereologiche (circa il 96%) collegate in parte a violente tempeste, cicloni, uragani, tifoni etc. (13mln), in parte a inondazioni (10mln). Ad oggi queste persone non rientrano sotto la protezione della Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati, non essendo considerate come perseguitate. Nel seguente schema (Fig.2), ripreso da McMichael et al. 2012, viene semplificato l’insieme di cause-effetti prodotto dall’avvento di disastri naturali.
Fig.2 Schema degli effetti dei cambiamenti climatici sul movimento delle popolazioni
Fonte: adattamento da McMichael et al. 2012
Tuttavia, nel 2020 una decisione dell’Onu (UNHR, gennaio 2020) ha aperto nuovi spiragli nel riconoscimento internazionale di chi fugge da eventi estremi. il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite ha emanato la prima sentenza su una denuncia di un individuo richiedente asilo in Nuova Zelanda a causa degli effetti del cambiamento climatico. Tale sentenza ha affermato il principio secondo cui i Paesi non possono espellere persone che affrontano condizioni indotte dal cambiamento climatico che minacciano il diritto alla vita (no refoulement). Pur non essendo vincolante, la decisione si basa sulla legge internazionale sui diritti umani (ICCPR), che è invece vincolante. In sostanza, il ragionamento del Comitato potrebbe essere adottato da altri tribunali, in particolare europei. Le altre ipotesi avanzate per affrontare la questione sono: la revisione della Convenzione di Ginevra, allargando le fattispecie della protezione internazionale a tutto lo spettro delle condizioni economiche e sociali che producono le migrazioni; oppure l’istituzione di un nuovo strumento di diritto internazionale ad hoc.
In Europa la questione non è ignorata e le posizioni tendono ad allinearsi alle decisioni dell’UNHR, ad esempio attraverso la Risoluzione approvata il 16 gennaio 2021, dedicata a «donne, pari opportunità e giustizia climatica». Tale Risoluzione invita la Commissione e gli Stati europei a «contribuire al Patto globale per la migrazione sicura, ordinata e regolare», nella prospettiva di «salvaguardare la giustizia climatica riconoscendo il cambiamento climatico come motore della migrazione». La Commissione Europea, inoltre, ha presentato a fine novembre2020 il Piano d’azione per l’integrazione e l’inclusione 2021-2027, dimostrando che seppur in ritardo con la riforma sul regolamento di Dublino, si procede parallelamente in materia di integrazione ed inclusione dei migranti regolari.
La strada, soprattutto per paesi come l’Italia, è quella di un’integrazione reale con politiche di lungo periodo concentrate su tali aspetti peculiari delle dinamiche migratorie, anche dopo l’impasse che agenzie (e strategie) come Frontex stanno passando in questo momento, sebbene a fronte di finanziamenti ricevuti (si parla di 1,9mld € entro il 2025) che non hanno eguali nella storia dell’Unione. Gli eventi climatici stanno impattando ed impatteranno la nostra economia ed uno degli aspetti da prendere in considerazione sarà l’aumento delle migrazioni forzate nel prossimo futuro. Contemporaneamente la pandemia mondiale da Covid-19 ha fatto in modo da ridurre gli ingressi drasticamente: nei primi sei mesi del 2020 Istat ha registrato, rispetto allo stesso periodo del 2019, una riduzione di quasi il 58% di nuovi permessi di soggiorno. Tuttavia, tale situazione non durerà a lungo. Quando i flussi ricominceranno dobbiamo farci trovare preparati e non affidarci alla vecchia politica dei respingimenti al confine. Anche in USA la nuova amministrazione Biden sembra aver cambiato drasticamente la precedente politica ed ha previsto, nei primi mesi di governo: il blocco delle espulsioni per chi non è in regola con i documenti; il blocco della costruzione del muro con il Messico; l’eliminazione dell’attesa in Messico durante l’esame delle domande di richiesta di asilo; il blocco dei rimpatri di chi era arrivato minorenne negli USA (cd. dreamers); un percorso di regolarizzazione dei circa 11mila clandestini presenti negli States da attuarsi nei prossimi 8 anni. Dovremmo imparare ad attingere dalle politiche americane non solo quando conviene ad un certo orientamento politico ma anche quando ci sono spiragli di progresso reale, basato sul concetto che “per vivere occorre un’identità, ossia una dignità”, come scrisse Primo Levi ne “I sommersi e i salvati”.
Articolo davvero molto interessante. Complimenti!