Come riorganizzare i servizi ai tempi del coronavirus?
Raccogliamo buone pratiche
A cura di Maurizio Motta | 14 Aprile 2020
L’articolo raccoglie anche spunti di altri redattori di Welforum.it: Daniela Mesini, Stefania Sabatinelli, Marilena Dellavalle, Giovanni Cellini, Cladio Castegnaro, Sergio Pasquinelli.
Il Coronavirus impone riorganizzazioni ai servizi che non saranno di breve durata. Quali attenzioni e snodi merita gestire? Possiamo sviluppare uno scambio di esperienze concrete che possa essere utile da socializzare in questi tempi di emergenza, che forse diventerà ordinarietà nei prossimi mesi? Se avete esperienze da condividere, su possibili modalità di riorganizzarsi in questa fase, già pensando alla ripresa e al dopo emergenza”, vi invitiamo a inviarcele: redazione@welforum.it.
In queste settimane tutti i servizi del welfare stanno organizzandosi per operare nella pandemia. I bisogni si sono acuiti, la platea si è fatta più ampia, così come la necessità di dare risposte urgenti e indifferibili. Che cosa si può imparare dalle pratiche agite in queste settimane? Possono costituire utile eredità per uscire dall’emergenza o per gestire un’emergenza che forse diventerà ordinarietà nei prossimi mesi? Ci sembra importante riflettere su questi aspetti:
- nessuno sa con precisione quale sarà l’andamento dell’emergenza, ma è molto probabile che occorra organizzarsi per tempi non brevi, perché passato il “picco” non si può tornare in toto ai modi di vita precedenti, e resta per ora indeterminata la possibilità di un “ritorno” del virus dopo alcuni mesi.
- Nell’emergenza moltissimi attori e operatori del welfare hanno messo in campo impegno personale, fantasia e abnegazione. Ma la sfida è ora passare dalla creatività ad una più strutturale riorganizzazione, ossia dall’impegno personale degli operatori all’adozione di nuove modalità sistematiche nel gestire servizi e interventi, visto che dovranno essere attive per un periodo non breve.
Proviamo perciò qui a proporre alcuni possibili temi di lavoro e interrogativi:
- specificamente limitati ai servizi socio assistenziali e sociosanitari (e dunque non a quelli esclusivamente sanitari);
- finalizzati a spunti su “che cosa si può fare” e “che cosa va riorganizzato” con iniziative locali, senza discutere anche possibili misure e riordini nazionali
- con lo scopo primario di far segnalare a questo sito dai lettori esperienze e buone pratiche messe in atto.1
La logistica nel sistema
In queste settimane sono emerse non solo difficoltà nel reperire le strumentazioni necessarie per operatori e utenti (come i DPI), ma anche nel definire come farli arrivare. Ad esempio alle imprese (di norma cooperative sociali) che gestiscono servizi domiciliari o residenziali chi li distribuisce meglio? Devono arrivare alle singole cooperative dalla Protezione Civile, oppure dagli Enti gestori dei servizi sociali? Oppure possono più efficacemente essere distribuiti dalle organizzazioni centrali della cooperazione? Sono solo esempi, per segnalare che un tema di organizzazione locale è come allestire una robusta rete logistica, sia di stoccaggio che di distribuzione di attrezzature, capace di entrare in funzione senza intoppi al bisogno.
L’assistenza al domicilio
L’emergenza ha messo in rilievo (come se ce ne fosse bisogno) la debolezza del nostro welfare nel garantire una robusta assistenza domiciliare, nei confronti di anziani, disabili e minori. Qualche possibile terreno di lavoro:
- interventi e risorse del volontariato sono cruciali, ma non si può solo confidare sulla loro esistenza (ovviamente non garantibile a priori in tutti i territori). Dunque il sistema di assistenza domiciliare locale, sia per non autosufficienti che per persone fragili (come gli anziani soli con limitate autonomie) deve verificare se e come è attrezzato per fornire non solo “qualche ora di OSS”, ma una ampia gamma di supporti, certo usando tutte le reti esistenti: dalla consegna di alimenti, farmaci, pasti, all’igiene dell’abitazione e delle persone, al raccordo con i medici di medicina generale; alcuni esempi in questo senso sono già agiti da alcuni Comuni che hanno potenziato i servizi di assistenza domiciliare anche attraverso il disbrigo di piccole commissioni e servizi di trasporto gratuito;
- per anziani soli la casa può diventare un rischio o una prigione, più che per altri, se non si hanno possibilità di comunicazioni e relazioni. Forse sono possibili iniziative azioni proattive: sia a cura dei servizi (come l’intensificazione di telefonate periodiche e contatti con anziani in fragilità; e non solo per chiedere se c’è bisogno di qualcosa, ma anche solo per “fare due chiacchiere”) sia delle istituzioni (una lettera del sindaco a tutti gli anziani anagraficamente soli o in coppia, che informi su chi può essere chiamato in caso di bisogno). Ma anche valutare se non sia utile fornire strumenti ad hoc alle persone, come un tablet con app di semplice uso, visto che molti non hanno né smartphone né confidenza con la tecnologia;
- da sempre si assume anche l’obiettivo di “formare” i familiari di persone da assistere al domicilio, perché possano diventare risorse e gestori di azioni utili. Ma se la pandemia suggerisce di limitare l’ingresso in casa di operatori, e se ci sono azioni che implicano in ogni caso il rapporto fisico con gli utenti (non si può fare l’igiene personale in via telematica), non sarebbe utile potenziare strumenti allo scopo (ad esempio tutorial semplici, o modalità di videoconferenza)? Certo qui il nodo è di non scaricare impropriamente sui familiari compiti impossibili o inappropriati;
- c’è un numero crescente sia di caregiver che lo erano già prima (la cui attività è cresciuta per l’intensificarsi dei bisogni di anziani reclusi in casa), sia di persone diventate caregiver con questa emergenza (ad esempio perché non possono lavorare). Il tema di come supportarli è cruciale, e rimarrà una volta finita la tempesta. Deve però essere affrontato tenendo presente che non è corretto né efficace pensare che la soluzione sia solo “fornire denaro alle famiglie” (per sostenere il care giver o per retribuirlo se viene assunto come assistente familiare). Dare denaro implica che le famiglie che non sanno usarlo per favorire la tutela dei non autosufficienti non ricevono sostegni adatti. Né si può impostare il sistema delle cure solo su un “ruolo obbligatorio” dei caregiver. Dunque il sostegno ai caregiver (anche economico e di garanzie aggiuntive, ad esempio previdenziali) deve essere una delle possibile offerte2 entro una gamma di alternative per la tutela del non autosufficiente che si possano scegliere (assegni di cura, voucher per ricevere servizi da imprese accreditate, affidamento volontari, e altro);
- infine i minori. La sospensione dell’attività scolastica in presenza e la sua riconversione in attività da effettuarsi a distanza con collegamenti più o meno frequenti ha reso evidenti le profonde disparità tra famiglie.3 Innanzitutto per le diverse dotazioni informatiche a disposizione, non solo tra famiglie in situazioni economiche precarie, ma anche tra famiglie di stranieri, tra famiglie numerose. Per far fronte a questa carenza alcuni Comuni si sono mossi distribuendo device usati o nuovi, regalati anche attraverso donazioni da parte di aziende o privati cittadini. La chiusura di centri diurni e la sospensione dell’educativa domiciliare sta poi avendo un impatto significativo sui ragazzi con disagio sociale, ritardo scolastico e a rischio di emarginazione. Come poter gestire sul medio-lungo periodo situazioni così critiche, e che in questa fase sono per lo più gestite con monitoraggi a distanza? Per non parlare degli allontanamenti coatti che i tribunali stanno continuando a deliberare, ma che sono poco praticabili in queste settimane di emergenza sanitaria e che forse saranno difficili da realizzare ancora per diverso tempo.
Costruire le reti
È un tema di lavoro ovvio per i servizi, ma meriterebbe incentivare la costruzione di risorse che possano essere poi offerte a nuclei deboli, con disabili o non autosufficienti. Ad esempio:
- reperire più facili disponibilità ad interventi al domicilio da parte per riparazioni indispensabili: di elettricisti, idraulici, falegnami, tecnici informatici e TV. Al bisogno accompagnati dai servizi;
- incentivare la costruzione di banche del tempo: chiunque ha tempo e qualche competenza la espone e si rende disponibile;
- verificare se e quando sono possibili (e appropriate) forme di consulenza in remoto alle famiglie da parte di specialisti anche sanitari (fisioterapisti-fisiatri, psichiatri, e altre specializzazioni);
- è vitale garantire continuità assistenziale alle persone con disabilità, e alle famiglie, che dall’oggi al domani sono state private di servizi fondamentali come i centri diurni; un accompagnamento ad personam è essenziale per cercare di attivare reti di aiuto, magari anche a distanza. E se ci sono interventi che sono gestibili solo “in presenza della persona”, e che non sono eliminabili (e da allestire ove possibile a domicilio), è anche utile un lavoro di “manager di rete sulla cronicità” , ruolo peraltro ipotizzato in alcune regioni.
Supporti a chi deve organizzare
Due possibili temi:
- per potenziare quello che si può fare a distanza è possibile occorra anche far crescere dotazioni e competenze informatiche dei servizi e degli operatori. È ormai evidente che il digital divide riguardi non solo i beneficiari, ma anche i servizi (come si è visto per la scuola). E’ proprio il caso di dire che mai come in queste settimane gli operatori si siano trovati di fronte ad un learning by doing (imparare attraverso il fare) circa l’utilizzo di dispositivi e di software per video-conferenze e collegamenti a distanza. Questo sapere andrà evidentemente consolidato e potrà costituire un patrimonio per il futuro, per il lavoro con i beneficiari dei servizi, ma anche per le riunioni organizzative interne ai servizi e le equipe multidisciplinari e multi-professionali, magari contribuendo ad accorciare distanze tra servizi diversi (servizi sociali, sanitari specialistici, servizi per l’impiego, ecc.);
- fornire supporto (e “tutoraggio” se necessario) alle organizzazioni desiderose di rimodulare contenuti e processi gestionali dei servizi e ridisegnare percorsi organizzativi. Ad esempio le Regioni potrebbero fornire l’aiuto di unità “specializzate” in riorganizzazioni specifiche (come RSA, o altri servizi), per consulenza mirata sia a Enti pubblici che a organizzazioni del terzo settore medio-piccole che mantengono vive e sviluppano le reti locali e plurali.
Non far perdere relazioni importanti agli utenti più fragili
Chi è ricoverato in RSA da settimane non incontra i suoi parenti o persone care. E anziani soli o non autonomi al domicilio possono avere lo stesso problema (di nuovo, il rischio della casa come prigione). Poiché anche non perdere le relazioni è una emergenza, sarebbero utili iniziative che consentano in modo diffuso una relazione in remoto, sia in RSA che per le persone seguite in assistenza domiciliare, ad esempio organizzando periodicamente videochiamate tramite smartphone o tablet preavvisando i parenti e amici E valutando se per qualcuno l’offerta di “relazioni faccia a faccia” (anche se solo tramite un display) non possa essere organizzata anche con chi per lui ha rilievo anche se non è un parente, ad esempio il parroco o un sacerdote conosciuto. E non potrebbe essere utile creare occasioni di “incontro in remoto” tra più persone? Ad esempio per recitare il rosario, per scambiarsi ricette, per far ascoltare vecchie canzoni, per far vedere video o programmi TV sui territori dove si è nati; e largo alla fantasia.
“Gestire le pratiche” per chi non può farlo da solo
Non è certo un nodo nuovo, ma specialmente adesso potrebbe essere utile fornire a persone non autonome (o anziani soli, o con familiari anch’essi anziani) supporti nelle varie incombenze che implicano il “recarsi in qualche ufficio per pratiche amministrative”. È molto importante la recente intesa tra Poste Italiane e Carabinieri che consente di delegare questi ultimi al ritiro delle pensioni (ed anche delle indennità di accompagnamento) presso le Poste, con la consegna dei contanti al domicilio a cura dei Carabinieri. Si possono allestire altri supporti di “disbrigo pratiche” per conto di chi non può muoversi? Non c’è che l’imbarazzo della scelta (richieste di indennità di accompagnamento e di invalidità civile, dell’Isee, pagamento dell’affitto e di bollette, pagamento dell’assistente familiare e invio dei relativi MAV, certificati da ottenere presso le anagrafi comunali, etc.). Molti CAF sono chiusi: si può programmarne una apertura minima distribuita sul territorio? Naturalmente occorre verificare la specifiche fattibilità di queste ipotesi.
La povertà estrema e i senza dimora
“Restate a casa” è invito infelice a chi una casa non ce l’ha. Che cosa dunque può essere attivato per questo tipo di utenza? Un potenziamento dei dormitori ed una loro apertura anche nelle ore diurne? Uno sviluppo delle mense, anche con la consegna dei pasti in altri luoghi? È quanto è stato ad esempio fatto a Milano, aprendo anche le strutture tradizionalmente attive durante l’emergenza freddo ed allestendo temporaneamente centri sportivi ed altri spazi. Certo sono azioni che devono misurarsi con il divieto di assembramenti e con il mantenimento delle distanze. Si potrebbe anche pensare ad una revisione delle misure di sostegno alimentare tramite distribuzione di pacchi viveri e buoni spesa, quasi sempre destinate ai residenti. Anche negli ultimi avvisi emanati dai Comuni in risposta all’ordinanza della protezione civile n. 658 sono rare le amministrazioni che hanno scelto di allargare la platea degli aventi diritto anche ai non residenti.
Non disperdere i legami “di squadra”
Il lavoro in remoto rischia di allentare per gli operatori le relazioni con le proprie “squadre di lavoro”, colleghi o equipe multiprofessionali. E non solo perché lavorare insieme è materialmente più difficile, ma anche perché rischia di spingere al lavoro da soli. Se fronteggiare questo rischio è una esigenza reale, quali accorgimenti organizzativi sono utili? Ad esempio incentivare momenti comuni a distanza, chat, supporti formativi, possibilità di “chiamate a esperti” su temi specifici, condivisione informatica di documenti. Ci sono peraltro servizi del welfare che impongono la “compresenza” di più operatori e persone, come le Unità Valutative Multidimensionali per la disabilità e non autosufficienza, o le Commissioni ASL che definiscono l’accesso alle prestazioni per l’invalidità. Devono necessariamente diventare sedi di “riunioni in remoto”? E senza che “vedano il paziente”?
Le relazioni “in presenza” tra operatori / utenti
Ci sono certo relazioni che possono essere gestite con protezioni logistiche/strumentali, ad esempio con un vetro che divide operatore e utente (come in numerose farmacie) o con mascherine e distanziamento per entrambi. Ma in altre relazioni queste misure potrebbero essere distorsive: non si può ricevere dietro un vetro la mamma di un minore che viene a esporre il sospetto di abusi da parte del padre; ed il lavoro educativo con gruppi di adolescenti, od il lavoro di strada con senza dimora, è necessariamente da abbandonare, o può assumere quali altre forme? La sfida cruciale consiste nel riflettere su “come” debba essere trasformato un lavoro che è molto fondato sul rapporto faccia a faccia, e su “che cosa” possa non essere perduto o sacrificato. Verosimilmente questo implica eseguire localmente una analisi sistematica di tutti gli interventi e tipi di relazioni col pubblico, per trovare meccanismi adottabili compatibilmente con il contesto e la fattibilità locale.
I modi per arrivare agli interventi
Il Governo sta varando una serie di nuovi interventi a sostegno dei lavoratori e delle famiglie, con uno sforzo economico consistente. Ma come si farà per richiederli ed arrivarci? Ad esempio per fruire dei bonus per l’acquisto di servizi di baby-sitting si userà il cd “Libretto famiglia”, la cui attivazione si chiede all’Inps, o per via telematica o tramite i Patronati. Se tuttavia il modo per richiedere la prestazione implica capacità di uso delle tecnologie informatiche, o percorsi di accesso faticosi si incorre in un classico problema del welfare: a risorse per i più fragili e deprivati arrivano solo i meno fragili e i più capaci. Generalizzando il tema merita dunque che anche i servizi riflettano sui meccanismi ed iter che i cittadini devono seguire per arrivare ai diversi interventi, e sugli eventuali possibili miglioramenti nel contesto delle limitazioni attuali. Un piccolo esempio: se molte prestazioni implicano che il cittadino si procuri l’Isee, è possibile evitargli di andare in un CAF e costruire l’Isee a cura del servizio (o Ente erogatore) che riceve la richiesta di prestazione? Un altro: si possono incrementare modalità telematiche per ricevere richieste e documentazione dai cittadini? Anche se certo sono utilizzabili da chi ha confidenza con la tecnologia. Un’altra criticità del nostro welfare è accentuata dalla crisi attuale: su alcuni problemi (ad esempio la povertà o la non autosufficienza) sono presenti numerosi interventi pubblici che i cittadini potrebbero trovare utili, ma frantumati in molti enti erogatori, con accessi a sedi diverse, con scadenze differenti e criteri disomogenei. Questa jungla caotica produce due effetti distorti: cittadini che potrebbero richiedere anche interventi sui quali pure hanno un diritto soggettivo esigibile non sanno che esistono, e gli operatori di front office (pubblici o del terzo settore) non sono in grado di conoscere in modo costantemente aggiornato la mappa delle opportunità, e dunque di informarne i possibili fruitori. Qui il virus non c’entra nulla come causa, ma accentua la necessità di dotarsi di strumenti operativi che riducano il rischio che i meno informati perdano diritti4. Due notazioni sul punto:
- certo è utile muovere verso sistemi di servizi in logica “one stop shop”, ossia offrendo al cittadino un punto di accesso unificato per molti interventi; ed è un bisogno organizzativo di vecchia data. Ma offrire al cittadino una informazione completa su tutte le opportunità di cui potrebbe fruire (anche se non erogabili nel servizio in cui si trova in quel momento) non richiede necessariamente di costruire “punti unificati di accesso”, perché è gestibile anche solo fornendo a tutti i servizi di front office (pubblici o del terzo settore) strumenti che informino gli operatori (un catalogo sempre aggiornato di tutte le prestazioni) e che consentano di produrre materiale per i cittadini. E quando un qualunque servizio incontra per primo un non autosufficiente (perché progetta la dimissione dall’ospedale, o perché inizia una assistenza domiciliare) non potrebbe anche informarlo di tutte le opportunità, sebbene non di sua stretta competenza?
- non sarebbe utile che strumenti di questo tipo (almeno su “povertà” e “non autosufficienza”) fossero forniti al livello locale dal livello regionale o nazionale (per economie di scala)?
I tirocini di chi è in formazione
I corsi di formazione di educatori, assistenti sociali ed altri operatori soffrono in questo momento la grave difficoltà di trovare servizi disponibili ad ospitare studenti che devono svolgere il loro tirocinio formativo obbligatorio. E peraltro atenei e gestori dai corsi vietano compresenze. Si dirà “ma adesso i servizi hanno ben altro a cui pensare”; certo è vero, ma se non vogliamo arrestare i percorsi formativi, oppure trasformare forzatamente i tirocini solo in “ricerche in internet”, il tema non può essere banalizzato. E apre questa domanda: in che cosa possono consistere tirocini che siano formativi per gli studenti (e magari anche utili per i servizi) e che permettano comunque una adeguata “immersione” nel contesto operativo?
Conclusioni
Lungi dal voler mettere a fuoco tutti gli snodi operativi con i quali occorre misurarsi nel riorganizzare i servizi socioassistenziali e sociosanitari, vorremmo che questo articolo avesse soprattutto lo scopo di raccogliere esperienze significative sui temi trattati sopra. State sfruttando l’emergenza per mettere a punto modalità di riordino del sistema, o di singoli servizi ed interventi nelle vostre organizzazioni? Siete disponibili ad inviare alla redazione di Welforum.it (redazione@welforum.it) un breve articolo sulle soluzioni trovate e sperimentate? Non tanto su “quali problemi si presentano”, quanto su “come ci si è organizzati in questa fase, già pensando alla ripresa e al dopo emergenza”. Se arriveranno contributi interessanti (soprattutto fondati su esperienze), li organizzeremo sul sito in una piccola “bacheca di esperienze”. Mai come adesso imparare da buone pratiche è utile, e dunque grazie in anticipo a chi vorrà scriverci.
- Sul tema sono già usciti su questo sito due recenti articoli: “Considerazioni provvisorie sull’operare nei servizi sociali ai tempi del coronavirus” di Cristiana Pregno, 18.03.2020, e “Il ruolo delle professioni sociali nell’emergenza Coronavirus” di Giovanni Cellini, 26.03.2020.
- Esiste un disegno di legge, condiviso tra i maggiori partiti, per i supporti ai caregiver. Merita tuttavia introdurlo se attiva un insieme di supporti (economici, di formazione delle competenze, di conciliazione dei tempi) ed entro un riordino dei LEA, per costruire cure domiciliari sociosanitarie che offrano una gamma di opportunità, e che siano davvero esigibili.
- Si veda in proposito il recente articolo di Stefania Sabatinelli su Welforum.it.
- Un possibile strumento realizzato allo scopo è descritto nell’articolo in questo sito di V. Di Pietro, L. Fanelli e M. Motta “Uno strumento per l’accesso ai diritti per contrastare la povertà” del 24/1/2020