Ripensare le politiche contro la povertà


A cura di Tortuga | 22 Settembre 2020

Povertà in Italia: il punto della situazione

A metà giugno è uscito il nuovo rapporto Istat contenente le statistiche sull’andamento della povertà in Italia nel 2019. Come già indicato in un articolo precedente di Eleonora Gnan, pubblicato su welforum.it, per la prima volta in quattro anni il numero di famiglie in condizioni di povertà assoluta è diminuito: i nuclei familiari con un reddito inferiore alla spesa minima necessaria per acquistare beni e servizi che permettono di conseguire uno stile di vita accettabile sono scesi a 1,7 milioni, pari a un totale di 4,6 milioni di individui. Questo miglioramento è stato registrato soprattutto nelle aree metropolitane del Sud e nel Centro Italia: una notizia positiva, dal momento che l’incidenza della povertà assoluta è più alta nel Mezzogiorno. La povertà viene misurata anche in termini relativi, ovvero considerando le famiglie e gli individui che non hanno accesso a beni o servizi in rapporto al reddito medio pro capite del loro paese. L’andamento della povertà relativa è stabile rispetto al 2018: sono poco meno di 3 milioni le famiglie interessate, pari a 8,8 milioni di individui.

Non cambia di molto l’identikit delle famiglie più in difficoltà, sia che venga misurato in termini assoluti o relativi: l’incidenza della povertà è più alta nel Mezzogiorno, e triplica in famiglie numerose con figli conviventi, soprattutto se minori, e nelle famiglie straniere. Basti pensare che le famiglie straniere compongono solo l’8,9% del totale delle famiglie residenti in Italia, ma rappresentano il 30,4% delle famiglie in condizioni di povertà assoluta. Inoltre, l’incidenza diminuisce all’aumentare dell’età della persona di riferimento all’interno della famiglia e del suo grado di istruzione.

 

In generale, si tratta di risultati incoraggianti, ma inferiori a quelli attesi, considerata l’introduzione del Reddito di Cittadinanza (RdC) nel 2019, che ha raggiunto quota 1,421 milioni di domande accolte a luglio 2020 (Osservatorio sul Reddito e Pensione di Cittadinanza – Inps). Come scrive Franco Pesaresi su welforum.it, la diminuzione della povertà assoluta è da attribuire in gran parte al RdC, dal momento che la congiuntura economica non è stata d’aiuto. Il risultato più positivo si registra nella riduzione dell’intensità della povertà, cioè la distanza del reddito dalla soglia di povertà. Tuttavia, il RdC non ha inciso sulla situazione delle famiglie in povertà relativa.

 

Questi risultati parziali sono dovuti al fatto che il computo delle persone in condizione di povertà, così come considerato dall’Istat, coincide solo parzialmente con la platea di potenziali beneficiari del RdC. La Corte dei Conti (2020) ha calcolato che il RdC è in grado di intercettare solo il 50,8% delle famiglie in povertà assoluta e il 28,3% di quelle in povertà relativa. Per esempio, un nucleo familiare composto da una sola persona tra i 18 e i 59 anni che vive in una città metropolitana del Nord è considerato povero in termini assoluti dall’Istat se guadagna meno di 839,75 euro al mese. Se lo stesso nucleo si trovasse al Sud, la soglia di povertà assoluta sarebbe di 623,86 euro al mese. Per poter ricevere il RdC, un nucleo familiare composto da un solo individuo che vive in affitto deve avere redditi che non superino i 9,360 euro annui (780 euro al mese), indipendentemente dall’area geografica in cui si trova e dal costo della vita. In questo caso, mentre i dati Istat rilevano due famiglie povere (una al Nord e una al Sud), i criteri di accesso al RdC ne intercettano solo una (quella al Sud).

 

Inoltre, come la comunità scientifica aveva ampliamente sottolineato e come è stato mostrato anche recentemente nel libro a cura di Tortuga Ci pensiamo noi (Egea, Milano, 2020), i criteri di accesso al  RdC sono svantaggiosi proprio per le famiglie e gli individui che l’Istat identifica essere i più vulnerabili: i nuclei familiari numerosi con minori a carico e gli stranieri. Secondo i dati dell’Osservatorio su Reddito e Pensione di Cittadinanza elaborato dall’Inps, a luglio 2020 i nuclei con minori rappresentano solamente il 35,4% delle famiglie beneficiarie. Similmente, i beneficiari extracomunitari sono il 6,8% della platea. Questo è dovuto al requisito di residenza di minimo 10 anni sul territorio italiano necessario per accedere al Reddito di Cittadinanza, che spesso non è posseduto dalle famiglie straniere. Paradossalmente, il requisito della residenza esclude anche categorie fortemente colpite dal fenomeno della povertà come le persone senza dimora, che spesso hanno difficoltà a produrre i documenti necessari per richiedere prestazioni di welfare.

 

Infine, il RdC avrebbe dovuto ridurre l’incidenza della povertà riavvicinando i beneficiari al mondo del lavoro tramite i centri per l’impiego e i comuni. Tuttavia, a oggi è ancora difficile valutare l’efficacia degli obblighi legati alla ricerca di un impiego sugli esiti occupazionali in Italia, vista la difficoltà di avviare le politiche attive del lavoro da parte degli enti preposti, che hanno iniziato ad attivarsi solo negli ultimi tre mesi del 2019. Anpal Servizi conta che, a inizio marzo 2020, 63.502 beneficiari hanno trovato lavoro: questo numero corrisponde al 20% della platea che ha stipulato un Patto di servizio con i centri per l’impiego – non del totale di beneficiari che avrebbero dovuto sottoscrivere tale Patto.

Sebbene l’introduzione dell’RdC sia stato un passo importante verso un welfare più redistributivo, dal momento che nel nostro paese mancavano misure di contrasto alla povertà adatte a coprire la popolazione, rimangono diverse problematicità che rischiano di minare l’inclusività e l’efficacia di questa misura.

 

Condizionalità del welfare: due esperimenti per testare modelli alternativi

Le difficoltà nell’accesso alle politiche di contrasto alla povertà e il reinserimento nel mondo del lavoro non sono una problematica solo italiana, ma comune a diversi sistemi di welfare. Per questo negli ultimi anni si è cominciato a pensare a sistemi alternativi rispetto a quelli attualmente esistenti. La proposta più radicale è quella di un reddito di base incondizionato, non legato alla necessità di dimostrare la propria condizione economica, rimuovendo di fatto le barriere di accesso esistenti. Due sono le criticità principali di questa proposta. La prima consiste nel rischio di indebolire gli incentivi alla ricerca di lavoro dei percettori, rendendoli dipendenti dalle misure di sostegno al reddito. La seconda contesta l’universalità della platea, che potrebbe generare iniquità distributiva in quanto la misura sarebbe destinata a tutti indipendentemente da reddito e patrimonio.

 

Tuttavia, oltre all’idea di rimuovere le condizionalità poste all’accesso al welfare, il reddito di base universale risponde anche alla messa in discussione dell’efficacia delle condizionalità legate alla fruizione delle prestazioni. Forme di condizionalità di questo tipo sono per esempio il requisito di dover partecipare alle attività di formazione proposte dai centri per l’impiego o dimostrare di aver cercato lavoro. Si tratta di condizioni che sono state poste con l’idea di ‘attivare’ i percettori di sussidi statali, al fine di guidarli verso l’autonomia. Tuttavia, non è chiaro quanto queste misure siano efficaci nella pratica, soprattutto per le categorie più vulnerabili.

Percepire un reddito di base universale scoraggia la ricerca di lavoro? Le condizioni legate alla fruizione delle prestazioni sono efficaci? A questi interrogativi cercano di rispondere due esperimenti conclusi di recente: quello sul reddito di base garantito (Universal Basic Income o Ubi) in Finlandia e quello sulle condizionalità legate alla fruizione di misure di contrasto alla povertà a Utrecht, in Olanda.

 

L’Ubi in Finlandia è il primo esperimento di reddito di base universale in Europa. L’Istituzione pensionistica nazionale finlandese (Kela) per due anni (gennaio 2017- dicembre 2018) ha garantito un reddito di 560 euro al mese ai partecipanti all’esperimento, corrispondente all’importo netto dell’indennità di disoccupazione finlandese. I partecipanti sono stati scelti tra gli individui di età compresa tra i 25 e i 58 anni che ricevevano un’indennità di disoccupazione a novembre del 2016. A differenza dell’indennità di disoccupazione classica, l‘Ubi è stato garantito indipendentemente da qualsiasi condizione. Il percettore dell’Ubi continuava a riceverlo anche se trovava un lavoro, a prescindere dal patrimonio e dallo stipendio. I partecipanti sono stati divisi in modo casuale tra trattamento, 2,000 individui che hanno ricevuto l’Ubi, e controllo, altri 173,222 beneficiari che hanno continuato a ricevere la stessa misura di disoccupazione a legislazione vigente.

 

L’esperimento olandese è più recente, è durato poco meno di quello finlandese (da giugno 2018 ad ottobre 2019) ed è stato meno ampio in termini di partecipanti. Si sono offerti come volontari per l’esperimento 752 individui a Utrecht e 35 a Zeist tra gli aventi diritto al sussidio di reddito minimo già presente nell’ordinamento olandese. In questo esperimento una parte dei partecipanti è stata assegnata casualmente al controllo ed è stata soggetta alle misure olandesi vigenti, mentre il resto dei partecipanti è stato assegnato a uno di tre trattamenti: nel primo trattamento hanno ricevuto il reddito minimo senza essere obbligati a cercare lavoro; nel secondo hanno ricevuto il sussidio insieme a supporto aggiuntivo e personalizzato nella ricerca di un lavoro da parte di addetti ai servizi per l’impiego; nel terzo hanno avuto la possibilità di trattenere parte del sussidio anche nel caso in cui avessero trovato un lavoro.

 

Cosa ci insegnano questi esperimenti?

Entrambi gli esperimenti miravano a studiare l’effetto di alternative alle politiche esistenti sulla situazione lavorativa (occupazione e salario) e sul benessere psicologico dei beneficiari.

Per quanto riguarda gli esiti occupazionali, in Finlandia i partecipanti nel gruppo trattato non hanno smesso di cercare lavoro e in alcune situazioni hanno lavorato in media di più rispetto al gruppo di controllo. In particolare, a partire dal secondo anno dell’esperimento, il tasso di occupazione per i beneficiari del reddito di base è leggermente migliorato rispetto a quello di coloro che ricevevano il normale sussidio di disoccupazione. In termini più tecnici, chi ha ricevuto l’Ubi ha lavorato in media 6 giorni in più di chi non lo ha ricevuto, in modo statisticamente significativo, durante il secondo anno. E’ da notare che l’Ubi è stato distribuito tra coloro che erano già percettori dell’indennità di disoccupazione, e dunque questi risultati sono da considerarsi limitati a coloro che sono abili al lavoro.

 

Nell’esperimento olandese, in tutti e tre gli interventi, l’occupazione non è diminuita ed in alcuni casi è addirittura aumentata. Le due misure che sembrano essere state più efficaci sono il trattamento che prevedeva aiuto personalizzato nella ricerca di lavoro e quello in cui i percettori non erano obbligati a cercare un’occupazione. Inoltre, per coloro che avevano un livello d’istruzione al di sotto della scuola superiore, l’eliminazione dell’obbligo di cercare lavoro ha aumentato la probabilità di lavorare per più di 12 ore alla settimana dell’8,7%, e di trovare un lavoro con contratto a tempo indeterminato del 7,4%. Tali effetti non sono stati invece osservati sui percettori con un livello di istruzione più elevato. Inoltre, offrire un servizio personalizzato per la ricerca di lavoro ha aumentato del 9,5% la probabilità di lavorare per più di 12 ore alla settimana per coloro che avevano un basso livello d’istruzione, mentre non ha avuto un effetto rilevante su chi era più istruito. La possibilità di trattenere parte del sussidio anche dopo aver trovato lavoro non ha avuto un effetto rilevante sull’occupazione rispetto al controllo. Questo esito sembra contrastare con quanto osservato nell’esperimento finlandese. Tuttavia, nel caso olandese il reddito aggiuntivo ottenuto dal cumulo del sussidio e dello stipendio poteva generare la perdita di altre prestazioni, come assegni familiari ed esenzioni, di fatto neutralizzando l’effetto del trattamento.

 

Per quanto riguarda i risultati sul benessere psicologico, nell’esperimento finlandese chi ha ricevuto l’Ubi è risultato più soddisfatto della propria vita, ha sperimentato meno stress mentale, depressione, tristezza e solitudine e ha avuto una percezione più positiva delle proprie capacità cognitive (memoria, apprendimento e capacità di concentrazione). In Olanda, il trattamento che prevedeva maggiore autonomia nella ricerca di lavoro ha prodotto un miglioramento esclusivamente nella percezione di autoefficacia, mentre l’effetto è stato irrilevante sul resto degli indicatori soggettivi.

 

Alla luce di questi risultati è importante riflettere sulle assunzioni di base sulle quali poggiano le misure di contrasto alla povertà esistenti, incluso il Reddito di Cittadinanza in Italia. Ad oggi questa misura prevede una forte condizionalità all’accesso, che se da una parte è pensata per fare in modo che ne usufruisca solo chi ne ha effettivamente bisogno, dall’altra lascia scoperte ampie fasce della popolazione povera. I risultati dell’esperimento finlandese suggeriscono che aumentare l’universalità del RdC, migliorandone l’accessibilità, può renderlo più inclusivo senza generare necessariamente un indebolimento degli incentivi lavorativi dei percettori abili al lavoro. Inoltre, pensare di lasciare una parte più ampia del sussidio disponibile anche se si percepisce un salario può incentivare l’occupazione, a patto che non si cumuli con i redditi utili ai fini della determinazione di altre prestazioni, come accade nell’esperimento olandese.

 

Tuttavia, resta il problema della sostenibilità economica di una misura più universalistica, che si incontra con la necessità di rendere il sistema fiscale più progressivo. Ci sono diverse proposte allo studio a tal riguardo, soprattutto sulla tassazione delle eredità e dei patrimoni, che potrebbero fornire le risorse necessarie a rendere il sistema di welfare più redistributivo.

 

Infine la condizionalità legata al lavoro rischia di diventare un requisito più formale che sostanziale, come fatto notare anche da Alleanza contro la Povertà, soprattutto se non avviene una riforma seria dei centri per l’impiego. L’esperimento olandese mostra che sono due le strade per migliorare gli esiti occupazionali di chi riceve sussidi di sostegno al reddito: lasciare più autonomia nella ricerca di lavoro oppure offrire un supporto personalizzato. Allo stesso tempo Giubileo e Pastore mostrano che uno dei problemi principali che mina l’occupabilità dei percettori del RdC è l’errata percezione delle proprie capacità rispetto a quanto richiesto dal mondo del lavoro, combinato ad un supporto inadeguato nella ricerca di un’occupazione.  Queste evidenze prese insieme suggeriscono che tra le due strade indicate dall’esperimento olandese, quella che l’Italia dovrebbe intraprendere è un rafforzamento dei centri per l’impiego con figure che possano fornire un aiuto personalizzato nella ricerca di lavoro, fortemente incentrato sulla persona. I navigator avrebbero dovuto rappresentare queste figure, ma non è chiaro se dispongano delle competenze necessarie per risolvere casi complessi di reinserimento lavorativo, visto l’orientamento prevalentemente giurisprudenziale del loro profilo. Inoltre le risorse umane, amministrative e logistiche a loro disposizione sono ad oggi fortemente sottodimensionate rispetto alle sfide che li attendono, rendendo oggi più che mai necessaria una riforma strutturale dei centri per l’impiego.

 

*Hanno curato la scrittura le senior fellow del think tank Tortuga Arianna Gatta e Giulia Gitti e la dottoronda in Scienze Politiche alla Columbia University Giulia Leila Travaglini.